Non sono il mio corpo
di Riccardo Manzotti
(pubblicato su matrika.co)
Nella cultura occidentale è prassi identificare noi stessi con il nostro corpo. Eppure, ammettiamolo, noi non siamo il nostro corpo. Se guardiamo dentro la pelle, ciò che troviamo è ben lontano da quello che siamo. L’orrore che spesso accompagna lo smembramento dei corpi umani è probabilmente dovuto a questa radicale differenza tra ciò che siamo e ciò che troviamo dentro di noi. Certo, il corpo serve. È innegabile. Probabilmente, senza il corpo non esisteremmo. Ma possiamo dire che ciò che si trova dentro il nostro corpo, questo insieme di organi legati insieme da ventricoli, sacche membranose, reticolati di vasi sanguigni e fasci nervosi, sia effettivamente simile a ciò che noi sentiamo di essere, ogni giorno, ovvero un insieme di sensazioni, pensieri, emozioni? No.
Eppure, come dicevo, la cultura occidentale ci ha posto davanti a un’alternativa apparentemente obbligata: da una parte l’anima immateriale e dall’altra il corpo.
Ovviamente, l’idea di anima è attraente perché soddisfa una nostra fondamentale intuizione esistenziale: noi non siamo il nostro corpo. Non ci sentiamo come il nostro corpo. Noi abbiamo un corpo, non lo siamo. Quando sezioniamo un cadavere e guardiamo dentro la macchina biologica, non troviamo niente che corrisponda al nostro esistere. Organi, nervi, vasi sanguigni sono tutti meccanismi meravigliosi, ma non hanno niente di simile alla nostra esperienza quotidiana. Inoltre, da un punto di vista empirico, chi ha mai visto un’anima? Anche la versione moderna dell’anima, ovvero la mente cosciente – a volte declinata in termini computazionali a seguito dello sviluppo di discipline come l’intelligenza artificiale – non è molto meglio. Chi ha mai visto una mente? La mente, in fondo, è la versione laica dell’anima e, da un punto di vista empirico, è altrettanto elusiva.

L’altra alternativa non è meglio: il corpo. Come accennavo prima, nessuna delle caratteristiche del corpo corrisponde, neppure vagamente, a quelle di noi stessi: sangue e neuroni vs. sensazioni e pensieri. Credere di essere corpo è un atto di fede non diverso dal fatto di credere di essere spirito. Eppure, soprattutto in un’ottica scientifica, il corpo sembra l’unica possibilità e quindi, molti concludono: “prima o poi ci sarà una spiegazione valida!” Questa attesa messianica è stata, finora, disattesa. Se guardiamo alla parte del corpo che più di tutte dovrebbe coincidere con noi stessi, ovvero il cervello, nonostante le immense risorse impiegate, vediamo subito che i neuroni non hanno nessuna delle caratteristiche delle nostre sensazioni, emozioni e pensieri. Ovviamente il corpo può essere oggetto di esperienza. Io posso avvertire la pienezza dello stomaco dopo un pasto troppo abbondante, posso avvertire l’acido lattico che rende i miei muscoli legnosi dopo una maratona, posso dolermi di due vertebre che premono tra di loro, posso sentire la lingua sui denti, il calore del sole sulla pelle. In tutti questi casi, tuttavia, il corpo è semplicemente un altro oggetto, cui noi siamo molto affezionati ma con il quale non siamo identici.
Sebbene il fatto di identificarsi con il corpo abbia profonde radici culturali, non è mai stato dimostrato in modo scientificamente inoppugnabile. Quindi possiamo dubitarne. Anzi dovremmo! Cito solo due fattori che hanno contribuito a diffondere questa idea (ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo).
Un primo fattore è di carattere storico religioso: una comprensibile reazione al rifiuto del corpo di certa tradizione giudaico-cristiana – vogliamo ricordare la nozione di corpo elaborata da alcuni padri della chiesa come San Girolamo? Era inevitabile che tanto accanimento producesse una reazione uguale e contraria.
Un secondo fattore, più di natura filosofico-speculativa, è stato il fallimento del dualismo cartesiano. Il filosofo francese, dopo aver monopolizzato la filosofia europea per quasi un secolo è diventato il bersaglio preferito sia dei filosofi che degli scienziati al punto che oggi qualsiasi neuroscienziato si sente in dovere di fare una professione antidualista e ottenere così un patentino di pensatore moderno. In realtà, Cartesio si era mosso con grande lucidità e aveva cercato – con la ghiandola pineale e altri meccanismi che oggi possono apparire ingenui – di dare fondamento scientifico a un fatto: la diversità tra noi e il corpo; tra noi e il cervello.
Da quando Cartesio è stato, filosoficamente, abbattuto, molti autori occidentali si sono precipitati a lanciare il loro sasso alla statua del dittatore, ormai sconfitto, nella pubblica piazza. Questi sassi concettuali non hanno però costruito nessun nuovo edificio. La natura della mente e di noi stessi è rimasta misteriosa quanto se non più di prima. Almeno Cartesio aveva distinto la mente dal corpo. Dopo di lui, abbiamo cercato di spiegare l’impossibile: la transustanziazione dei neuroni in pensieri.
Quindi, se noi non siamo immateriali e non siamo nemmeno il nostro corpo, che cosa siamo? Come accennavo all’inizio, il fatto di essere fisici, non è qualcosa di deprecabile. Il termine fisico indica semplicemente ciò che esiste e che fa parte, democraticamente, dell’insieme di tutte le cose. E’ un fatto. I miei pensieri producono effetti nel mondo e sono, a loro volta, prodotti o influenzati da fatti del mondo, quindi devono essere nel mondo. Eppure nel corpo, per quanto scaviamo, non troviamo niente di simile alla nostra esperienza. Troviamo solo cellule, membrane, acidi nucleici, zuccheri, sostanze di scarto. Esiste un’alternativa? Sì, e questa alternativa si trova comodamente dentro il dominio della fisica.

In sintesi l’ipotesi che voglio prendiate in considerazione è che la cosa che siamo sia proprio il mondo fisico che circonda il nostro corpo. Questo mondo – che chiamerò mondo relativo – è fatto di tutti quegli oggetti che, in ogni istante, esistono relativamente al nostro corpo. Faccio un esempio per rendere tangibile e comprensibile l’idea che propongo.
In questo momento, mentre sto scrivendo questo contributo, mi trovo sulla spiaggia di Lavagna. È settembre inoltrato ma un benigno sole autunnale scalda la distesa di ciottoli di calcare e ardesia. Davanti ai miei occhi, il mare azzurro luccica. Non c’è nessuna nuvola e il sole campeggia sicuro di sé al centro della volta celeste (oggi particolarmente celeste). La linea dell’orizzonte è interrotta da rare vele che si spostano con serena tranquillità. Tutto quanto ho descritto è quanto in questo preciso momento è parte di me. Se io guardo dentro di me e descrivo il mio essere in questo istante, trovo il mare, le vele, il sole e l’azzurro del cielo. Sicuramente non trovo neuroni, vasi sanguigni, ventricoli e membrane cellulari. Di che cosa sono fatto in questo momento? Sono fatto dal mare o dai neuroni? L’ipotesi è che, hic et nunc, io sia fatto dal mondo. Sono una cosa fisica, ma questa cosa non è il mio corpo, bensì il mare, il cielo, i sassi di calcare e ardesia.
E il mio corpo? Non è nulla? Non ha un ruolo? Sì, che lo ha. Il mio corpo definisce i confini degli oggetti che sono me stesso. Il mio corpo è quell’oggetto relativamente al quale esiste il mondo che io sono; una collezione di oggetti fisici che esistono relativamente al mio corpo. Per evitare equivoci, vi chiedo di fare uno sforzo pignolo nel distinguere questi tre termini che normalmente usiamo in mondo confuso: io (o me stesso), il mio corpo, il mondo.
Confrontiamo il punto di vista tradizionale con il nuovo. Secondo la scienza, il mio corpo percepisce il mondo e, in qualche modo, produce la cosa che chiamo io fatta di sensazioni, percezioni e pensieri. Il corpo è – o produce – me. Secondo il nuovo punto di vista, il mio corpo definisce un mondo relativo che è identico con me stesso. Io sono il mondo relativo che è fisicamente fuori del mio corpo (non è fuori di me!). Io sono identico con tale insieme di oggetti relativi. Il mondo è me.
Una prima obiezione che, a questo punto, è spesso sollevata è che il corpo non è il mondo. Ma io sono, ovviamente, d’accordo! Il mio corpo è qui, sull’asciugamano, mentre, il mare si trova a qualche decina di metri. Corpo e oggetto sono evidentemente distinti (a eccezione dei casi in cui l’oggetto è il corpo, come quando lo stomaco è pieno, ma lasciamo perdere). Tuttavia, l’obiezione è interessante perché fa capire che cosa rende ostica l’ipotesi avanzata qui: culturalmente ci identifichiamo con il corpo e quindi continuiamo istintivamente a confondere corpo e noi stessi. Diciamo “noi siamo sull’asciugamano”, mentre sull’asciugamano c’è solo il corpo. Pensiamo “mi sto abbronzando”, mentre è la pelle che si abbronza, non me.
Una seconda frequente obiezione è che, se noi siamo fatti dagli oggetti esterni — il mare e il cielo — non si capisce come questi oggetti sono percepiti dal corpo. Ma via! Questa è ancora l’inerzia concettuale cui facevo riferimento prima. Se noi siamo il mare, il mare non deve arrivare al corpo. Il mare può continuare a essere il mare. Noi siamo già dove si trova il mare, non dobbiamo arrivare al corpo, noi siamo già la cosa di cui la nostra esperienza è fatta. La nostra mente non contiene il mare, la nostra mente è il mare. Quando vediamo mare, siamo mare; quando vediamo azzurro, siamo azzurro; quando vediamo luce, noi siamo luce.

L’identità tra noi e le cose del mondo di cui facciamo esperienza risolve il dualismo che ha tradizionalmente contrapposto mente e mondo generando una serie di proposte di soluzione che non hanno fatto altro che complicare la faccenda — intenzionalità, rappresentazione, qualia (1), e cose del genere; mostri concettuali generati per salvaguardare un assunto sbagliato.
Una terza obiezione è che il mondo è quello che è mentre ciascuno di noi lo percepisce in modo diverso, e quindi ognuno di noi vive in una versione soggettiva e mentale, generata e conservata dentro la nostra mente – che in qualche modo sarebbe a sua volta dentro il nostro cervello e quindi dentro il nostro corpo. Questa obiezione è sconfitta grazie alla natura relativa degli oggetti che ci circondano. Torniamo alla striscia di luce che il sole riflette sul mare. Quella striscia esiste solo relativamente al mio corpo. Se mi trovassi in un altro posto, vedrei la striscia in un’altra zona; vedrei, cioè, un’altra striscia. La striscia è relativa. Il fatto che gli oggetti che io vedo, pur essendo esterni al mio corpo, siano relativi al mio corpo è sufficiente per spiegare perché ognuno di noi veda un mondo diverso. Ognuno di noi è identico a un diverso mondo relativo perché ognuno di noi ha un corpo diverso e quindi definisce e fa esistere un diverso mondo relativo. È come la velocità. Su una autostrada, ogni veicolo ha velocità relative diverse rispetto a ciascuno degli altri mezzi in movimento. Ma la relatività fisica non implica una soggettività mentale. La relatività fisica spiega la diversità dei mondi nei quali viviamo senza doverli trasformare in piccole repliche soggettive generate dentro i corpi.
La proposta è che noi siamo identici al mondo relativo rispetto al nostro corpo. Che cosa è esattamente questo mondo? Consideriamo di nuovo l’esempio della spiaggia. In questo momento quando guardo avanti vedo che, proprio davanti a me, la superficie del mare luccica fino all’orizzonte. È il riflesso del sole. È un caso che questo riflesso sia esattamente centrato rispetto alla posizione del mio corpo sulla spiaggia? Ovviamente no. In realtà tutta la superficie del mare sta luccicando nello stesso modo, da ponente a levante. Quindi io non vedo il mare come è in assoluto, ma il mare come è relativamente alla posizione del mio corpo. In generale questo è vero per qualsiasi oggetto sia parte di me (o della mia esperienza). I sassi esistono nella mia esperienza (e nel mio mondo) nella misura in cui esistono relativamente al mio corpo. Per esempio, esistono come barriere per la luce ma non come ostacolo ai neutrini. Relativamente ad altri sistemi fisici i sassi hanno altre proprietà che non sono parte del sasso che popola il mio mondo. Come il riflesso che io vedo sul mare è, fra tutti i possibili riflessi, l’unico che esiste rispetto al mio corpo, così ogni oggetto che è parte della mia esperienza è un oggetto che esiste relativamente al mio corpo (o qualche parte di esso).

Pensate a voi stessi, guardate dentro di voi. Che cosa trovate? Il mondo o l’interno del vostro corpo? Non siete forse fatti delle persone che vi circondano, di chi amate, del vostro ambiente, degli oggetti che vi circondano, della vostra città, le vostre storie e vicende? Di che cosa siamo fatti noi? Di cellule o del mondo? Mi è persino difficile capire perché tanti oggi si siano lasciati convincere di essere un cervello.
Ovviamente, riconoscere di non essere il nostro corpo non significa disprezzarlo. Come ho detto, il corpo è la condizione fisicamente necessaria per definire ciò che siamo. Una persona con un buon udito sarà (anche) un insieme di suoni che una persona non udente non potrà mai essere. Una persona in grado di raggiungere la vetta di una montagna sarà tante cose che un sedentario non potrà mai diventare. Quindi il corpo è importantissimo, ma, per quanto importante, non è ciò che siamo.
Essere mondo non è una brutta cosa, anzi. Al contrario, essere corpi è piuttosto deprimente perché i corpi, inevitabilmente sono vittime del degrado, soggetti al declino, destinati alla morte. Il corpo ha parecchie limitazioni dovute ai limiti biologici e agli accidenti casuali che, nel corso dell’evoluzione hanno scolpito la nostra struttura biologica: la retina è costruita alla rovescia; l’appendice è un rischio per la salute; il tessuto adiposo si accumula senza rispetto; i capelli cadono o si incanutiscono; i denti crescono su mandibole ormai troppo piccole; le ossa del bacino si sono ristrette per la camminata bipede e rendono doloroso il parto. Ma il mondo? Il mondo è infinito ed eterno. Essere mondo vuol dire dare sostanza fisica alla nostra mente, vuol dire capire che il nostro essere non è una secrezione biologica, ma la realtà che amiamo, odiamo, frequentiamo, subiamo, ricerchiamo. Non siamo né un corpo né una mente immateriale. Noi siamo — e la novità è che questa è una affermazione empirica scientificamente dimostrabile — ciò che il nostro cuore sente. L’ipotesi di essere fisicamente fuori e diversi dal nostro corpo ci permette di dare sostanza fisica a quello che la tradizione ha messo, o dentro una mente immateriale o in un corpo privo delle caratteristiche necessarie.
Quindi, in sintesi, ecco la mia proposta: non siamo il corpo, noi siamo mondo. Siamo quella parte della realtà fisica che esiste relativamente al nostro corpo.
Nota (1) I qualia (plurale neutro latino di qualis, e cioè qualità, attributo, modo) sono, nella filosofia della mente, gli aspetti qualitativi delle esperienze coscienti (NdR, da wikipedia).
Riccardo Manzotti è professore di filosofia teoretica alla IULM di Milano. Laureato sia in filosofia che in ingegneria, dopo il dottorato in robotica si è sempre occupato al problema delle basi fisiche della coscienza. Le neuroscienze non sanno perché il cervello faccia esperienza del mondo.
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“Ed io che sono?”, si domandò un pensieroso Giacomo Leopardi, di fronte al mistero del mondo e della vita, nel suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Nessuno ha mai saputo dare la risposta giusta. Nessuno ci riuscirà mai.
Rassegnatevi.
Non vi pare che sia necessario un atto di fede per questa teoria? Non si chiamano “religioni” questo tipo di teorie?
Ecco cosa succede a frequentare località brutte come Lavagna. Se l’autore fosse stato in un altro posto, magari avrebbe scritto altri pensieri, chissà.
“Non siamo il mondo, noi siamo il corpo”.
Noi siamo Natura: siamo il cielo, le stelle, le montagne, i prati. Siamo Natura al pari nelle pecore che con cui banchettiamo, delle primule e del vento.
Siamo l’anima, la mente, il corpo e oltre, attraverso l’energia che emaniamo e che incontra tutto ciò che ci circonda.
Nulla si crea e nulla si i strugge ?
La materia si crea e si distrugge da sempre !
E poi di solito solo un atto di incoscienza è un atto creativo.
La coscienza è statica e serve solo a se stessa.
L’oltre non è caratteristica della coscienza.
Comunque tutto si disperde di continuo e non sembra che si ricostruisca, nè tantomeno stia fermo, rimanga se stesso o ciò che era.
Ok ma la domanda è: cos’è la coscienza? Possiamo definirla in vari modi così come vi sono vari modi per definire l’intelligenza. Per me la coscienza è ciò che ci consente di fare esperienze. Quali? Qualunque. L’esperienza di vedere, di udire, di gustare, di amare, di odiare, di godere, di soffrire, di pensare, di sognare.. Senza coscienza non si può fare nessun tipo di esperienza. Pertanto, in ultima analisi, noi ci identifichiamo prima di tutto con la nostra coscienza, prima ancora che col nostro corpo, e infatti siamo capaci d’immaginare la coscienza che si distacca dal corpo dopo la morte e prosegue per la sua strada mentre invece ci terrorizza il fatto di abbandonare il corpo e con esso la coscienza. Sono convinto che perfino il più puro dei materialisti speri in cuor suo di mantenere la coscienza anche dopo la morte. Senza il mantenimento della coscienza nulla avrebbe più senso ma se nulla si crea e nulla si distrugge allora nemmeno la coscienza si può creare e distruggere. In effetti la materia non si crea e non si distrugge, semplicemente cambia di stato. La legna brucia e diventa cenere, cosa cambia a livello micro? Questo cambio di stato si verifica a livello macro non a livello micro. È un cambio che emerge ma per chi? Solo per chi ha una coscienza che gli consenta di fare questo tipo d’esperienza.
A questo punto qualcuno è tentato di pensare, giustamente, che la coscienza individuale non possa assorbire l’intero universo e questa è un’evidenza. Un cadavere è privo di coscienza ma le coscienze di tutti coloro che sono in vita continuano a fare esperienze. E allora? Allora risulta evidente che il mondo prosegue indisturbato facendosi un baffo delle coscienze andate apparentemente perse.
Ma l’evidenza può ingannare perché se io partecipo a un gioco su internet insieme ad altre persone significa che collego la mia coscienza con le coscienze degli altri giocatori attraverso la rete. Se esco dal gioco quest’ultimo continua per la sua strada anche senza di me e le coscienze degli altri giocatori continuano a rimanere connesse. Ma quando tutti i giocatori si disconnettono anche il gioco finisce.
Per dirla in altri termini non è la singola coscienza che tiene in vita l’universo, che gli dà un un significato ma sono le coscienze di tutti gli esseri a tenerlo in vita. Nel momento in cui tutte le coscienze si dovessero distaccare l’universo non esisterebbe più.
È difficile comprendere tutto questo e non è nemmeno facile immaginarlo ma non può che essere così. In caso contrario bisognerebbe immaginare che la coscienza emerga dal nulla ma se dal nulla non scaturisce nulla, e questo non lo dico io bensì gli scienziati, significa che la coscienza esiste a prescindere.
Pertanto l’universo potrebbe essere nient’altro che un gioco attraverso il quale si fanno esperienze. Perché? Questo non lo so ma se mi pongo questa domanda vuol dire che sono in grado di cercare un significato e se nulla si crea e nulla si distrugge vuol dire che anche il significato esiste a prescindere. Quale sia poi tale significato è un altro discorso, al momento non si sa.
Vedo, sento e capisco solo Energia che si disperde.
E il buio sarà quando tutto si disperderà.
La Vita è una ottimizzata infinitesima manifestazione di energia materializzata e in dispersione.
Un grande russo diceva (spero di dirlo bene): Dio è la risposta che l’uomo da alla sua paura della morte.
E’ una delle tante spiegazioni più o meno belle e intelligenti: fra queste basta scegliere se si è capaci e si è contenti.
Atomi, molecole e campi di forze che senza la coscienza non hanno significato alcuno.
A livello di quella che alla luce della nostra conoscenza sarebbe l’essenza ultima della realtà, cioè le particelle subatomiche, non esiste nulla di ciò che costituisce la nostra esperienza quotidiana. Non ci sono corpi, non ci sono oggetti, non c’è né caldo né freddo. Quindi cosa sono i corpi, gli oggetti, il caldo e il freddo? Cosa sono i solidi, i liquidi, i gas, la luce? Difficile pensare che, così a caso, da un oceano sterminato, forse infinito, di particelle prive di coscienza possa emergere lo spettacolo a cui coscientemente partecipiamo.
Provo a fare un esempio. Prendiamo una spiaggia lunga 10 chilometri. Questa spiaggia è composta da miliardi di miliardi di granelli di sabbia, granelli i quali, presi singolarmente, non dicono nulla. A un certo punto un artista decide di scrivere una storia con i granelli di questa spiaggia. In dieci chilometri può fare molte cose, può costruire monti, castelli, persone, in poche parole può creare una storia fatta di configurazioni di granelli di sabbia, partendo dal chilometro zero fino ad arrivare al chilometro 10. Cosa cambia per i granelli di sabbia? Nulla. Essere insieme ad altri granelli che costituiscono un castello o essere insieme ad altri granelli che costituiscono la raffigurazione di una persona non cambia nulla. Ma per chi ha la capacità di comprendere, e per comprendere ci vuole una coscienza, l’intera storia creata dall’artista ha un significato.
Noi esseri umani cerchiamo sempre dei significati. Alcuni di noi li cercano con intelligenza e perseveranza altri in maniera goffa e maldestra. Tutti però cerchiamo un significato e i significati si possono trovare solo se si possiede una coscienza.
Così come la spiaggia, senza una mente cosciente che la plasmi, rimarrà sempre un ammasso di granelli di sabbia, allo stesso modo il mare di particelle che costituiscono l’Universo rimarrà sempre un ammasso di particelle fintanto che non vi sarà una mente cosciente che configurerà queste particelle in un determinato modo. Non sto’ dicendo che esista un Dio creatore come quello della tradizione giudaico cristiana, sto’ semplicemente dicendo che per forza di cose non può che essere la coscienza a far emergere il mondo come lo conosciamo. Per qualche oscuro motivo siamo programmati per vedere come vediamo e per udire come udiamo. Non vediamo nell’infrarosso e non udiamo gli ultrasuoni ma sappiamo che ci sono animali che vedono nell’infrarosso e odono gli ultrasuoni. Ora, se le particelle sono sempre le stesse, risulta evidente che l’universo di chi percepisce gli ultrasuoni è diverso da quello che non li percepisce. Però le particelle sono sempre le stesse? C’è qualcosa che tocca.
L’universo è oggettivo o soggettivo? Questa è una bella domanda. Se in ultima analisi esistono solo le particelle ma queste possono assumere configurazioni diverse in base alla coscienza di ciascuno di noi possiamo dedurre che ciò in cui siamo costanti immersi non è reale o, per meglio dire, è relativo e dipende solo ed esclusivamente dal nostro stato di coscienza. Ma può la coscienza emergere da un qualcosa che ne è privo, cioè dalle particelle (perchè il cervello è costituito da particelle)? Può un qualcosa capace di attribuire dei significati emergere da un qualcosa che non ha significato? Per me no, sarebbe un controsenso su tutti i fronti.
Scritto molto piacevolmente, ma secondo me non significa in realtà nulla.
Se nel mio corpo non trovo nulla che possa chiamare “me”, ma solo organi, nervi e vasi sanguigni, nemmeno là fuori trovo qualcosa che potrei dire “me”.
Solo atomi, molecole, e campi di forze.
E un sacco di stronzi!
Non riconoscere di essere il pensiero del mondo e quindi contestualmente di crearlo, è il passo che manca a chi si dibatte per sostenere la propria verità come superiore all’altrui.
Ed ecco la storia.