I governi dovrebbero affrontare le cause ecosistemiche della pandemia, non solo i sintomi
a cura di valigiablu.it
(pubblicato su valigiablu.it l’8 luglio 2020)
Il mondo sta trattando i sintomi sanitari ed economici della pandemia ma non le sue cause, esito dello stravolgimento degli ecosistemi e dell’impatto dell’uomo sull’ambiente. Se ci limiteremo a mitigare gli effetti economici e sulla salute pubblica e non interverremo sui contesti ambientali che creano le condizioni per i salti di specie dei virus, ci troveremo di fronte ad altre pandemie. È la sintesi del rapporto Prevenire la prossima pandemia a cura del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) e dell’International Livestock Research Institute (ILRI).
Il numero delle epidemie “zoonotiche” (cioè provenienti dagli animali) è in aumento, afferma il rapporto: Ebola, SARS, il virus del Nilo occidentale, MERS, la febbre della Rift Valley, ogni anno 2 milioni di persone muoiono per malattie zoonotiche, soprattutto nei paesi più poveri. Ma proprio per non aver indagato le cause che hanno originato le precedenti malattie, ci si è trovati impreparati di fronte all’ultima pandemia. Il nuovo coronavirus «potrebbe essere il peggiore, ma non è il primo» al quale ci si trova di fronte, ha dichiarato l’economista e ambientalista danese Inger Andersen, attuale direttrice esecutiva dell’UNEP.
«C’è stata una risposta massiccia a CoViD-19 ma la malattia è stata trattata in gran parte come una sfida medica o uno shock economico. Invece le sue origini sono nell’ambiente, nei sistemi alimentari e nella salute degli animali. È un po’ come avere una persona malata, trattare solo i sintomi e non curare la causa scatenante. Ci sono molte altre malattie zoonotiche con potenziale pandemico», ha aggiunto la professoressa Delia Grace, autrice principale del rapporto.
Il sovrappopolamento (entro il 2050, secondo le Nazioni Unite, il 68% della popolazione mondiale dovrebbe vivere nelle aree urbane, NdR), la deforestazione, il consumo di suolo, l’aumento delle aree urbanizzate e l’intrusione dell’uomo negli habitat naturali, il disboscamento a favore di agricoltura e allevamenti intensivi ed estrazioni minerarie stanno portando al depauperamento degli ecosistemi e alla riduzione della capacità dei sistemi naturali di immagazzinare carbonio, creando a loro volta le condizioni per la diffusione di agenti patogeni. «La scienza è chiara», ha proseguito Andersen. «Se continueremo a sfruttare la fauna selvatica e distruggere i nostri ecosistemi, ci troveremo di fronte a un flusso costante di queste malattie che saltano dagli animali agli umani negli anni a venire». Un rapporto del WWF dello scorso giugno era giunto alle stesse conclusioni.
La fauna selvatica e il bestiame sono le fonti della maggior parte dei virus che infettano gli esseri umani, spiega il rapporto. «La deforestazione di ambienti tropicali e l’allevamento industriale su larga scala di animali, in particolare suini e polli ad alta densità potrebbero essere la causa di futuri salti di specie», ha commentato al Guardian Thomas Gillespie, ecologo della Emory University negli Stati Uniti e revisore del rapporto. «Siamo in crisi. Se non cambiamo radicalmente i nostri comportamenti rispetto all’ambiente circostante, le cose peggioreranno molto. Ciò che stiamo vivendo ora sembrerà niente al confronto».
Il modo migliore per prevenire nuovi focolai, dicono gli specialisti ormai da decenni, è One Health Initiative, un programma mondiale, che coinvolge centinaia e centinaia di scienziati e altri professionisti e si basa sull’aspetto ecologico delle malattie: la salute umana, animale ed ecologica sono indissolubilmente collegati e devono essere studiate e gestite in modo olistico. Secondo quest’approccio, le pandemie vanno affrontate con una strategia multidisciplinare, tenendo insieme epidemiologia, scienze del clima, salvaguardia delle specie, comunicazione del rischio.
«Al centro della nostra risposta alle zoonosi e alle altre sfide che l’umanità deve affrontare dovrebbe esserci la semplice idea che la salute dell’umanità dipende dalla salute del pianeta e dalla salute di altre specie», spiega Inger Andersen. «Se l’umanità offre alla natura la possibilità di stare bene, avremo dalla nostra parte il più grande alleato mentre cerchiamo di costruire un mondo più giusto, più verde e più sicuro per tutti».
Il rapporto indica 10 azioni pratiche che i governi possono intraprendere per evitare future epidemie zoonotiche:
1) Investire negli approcci multidisciplinati, incluso appunto “One Health”.
2) Ampliare l’indagine scientifica delle malattie zoonotiche.
3) Migliorare le analisi costi-benefici degli interventi per individuare il costo complessivo degli impatti della malattia sulla società.
4) Sensibilizzazione sulle malattie zoonotiche.
5) Rafforzare le pratiche di monitoraggio e regolamentazione associate alle malattie zoonotiche, compresi i sistemi alimentari.
6) Incentivare pratiche di gestione del territorio sostenibili e sviluppare alternative per la sicurezza alimentare e i mezzi di sussistenza che non si basano sulla distruzione degli habitat e della biodiversità.
7) Migliorare la biosicurezza e il controllo, identificare i fattori chiave delle malattie emergenti nell’allevamento degli animali e incoraggiare misure di gestione e controllo delle malattie zoonotiche comprovate.
8) Supportare la gestione sostenibile di paesaggi e paesaggi marini che migliorano la coesistenza sostenibile dell’agricoltura e della fauna selvatica.
9) Rafforzare le competenze tra chi si occupa di salute in tutti i paesi.
10) Rendere operativo l’approccio “One Health” nella pianificazione, attuazione e monitoraggio dell’uso del suolo e dello sviluppo sostenibile, tra gli altri settori.
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Concordo con il contenuto dell’articolo, come peraltro espresso in mille altre occasioni, ma temo che sarà una chimera, per una questione molto banale: mancano i soldi. un po’ in tutto il mondo occidentale, in Europa in particolare e in Italia in modo eclatante. Il Governo si fa bello per i 105 mld di euro “stanziati” in 4 manovre 2020 (tra l’altro “stanziati” non vuol dire “effettivamente distribuiti”, come sanno bene i cassintegrati), cui aggiunge 38-40 mld per la manovra 2021, ma si tratta (come dico io) di “soldi del Monopoli”. Cioè non sono quattrini che giacciono inoperosi nel cassetto della scrivania del Ministro Gualtieri. Sono quattrini che NON esistono. Per reperirli sono state aumentate le emissioni di BTP. Per nostra fortuna i mercati finanziari ora stanno assorbendo il maggior debito marginale, ma solo perché sanno che c’è la BCE che compera a mani basse i bond europei, italiani in particolare. Ma la BCE mica lo fa perché ha “fiducia” nell’Italia! Lo fa perché ha il fucile puntato sulla nuca da parte della Merkel: infatti la Germania è il principale azionista della BCE stessa. (tralascio, per non distrarre, i motivi per cui la Merkel vuole “salvare” l’Italia, ma sono a disposizione a spiegarli su richiesta). La Germania, in quanto maggior azionista BCE, ha “potere” sulla BCE ma deve anche fornire la parte più consistente dei mezzi finanziari restrostanti alla banca stessa. Quindi la Germania “paga” per l’ordine che sta dando alla BCE. Di conseguenza: in parole povere, l’Italia oggi sopravvive grazie ai soldi prelevati anche ai contribuenti tedeschi e3 traslati attraverso la BCE nei nostri BTP. Quando il parrucchiere di Berlino o l’idraulico di Amburgo si accorgeranno che nel loro prelievo fiscale c’è una fettina che finisce a mantenere gli italiani, potrebbe completamente cambiare l’opinione pubblica tedesca e condizionare in senso opposto la Merkel nei confronti della BCE. A quel punto addio nuovi BTP, anche solo per mettere insieme il pranzo con la cena (visto che si parla anche di sostegni ai nostri ristoranti, mai locuzione fu più appropriata alla situazione).
Ebbene: tutto ‘sto pistolotto per dire che i punti indicati dall’articolo, validissimi a tavolino (io li condivido in pieno), presuppongono a monte delle scelte “politiche” molto profonde. L’elenco dei punti dell’articolo inizia con “investire”: ma purtroppo (come collettività nazionale) non abbiamo neppure i soldi per mangiare e riusciamo a farlo grazie al meccanismo descritto poco sopra. Cosa potremmo nella ricerca? I fighi secchi? Invece dovremmo essere tutti convinti che, oggi, è meglio fare dei sacrifici, anche profondi, per investire e prepararci alla prossima epidemia. Meglio “ridurci”, oggi, a mangiare pane e cipolla, ma destinare le poche risorse finanziarie a obiettivi quali quelli indicati nell’articolo, piuttosto che, oggi, “vivere alla giornata” come cicale spensierate e poi trovarci sprotetti di fronte alla prossima epidemia. Certo che sarebbe meglio così, ma occorre che si corrobori una significativa corrente di pensiero e di pressione politica sui nostri governanti in tale direzione.
Purtroppo è difficile che ciò possa avvenire nel breve, perché l’opinione pubblica italiana non è ancora pronta e, forse, non lo sarà mai: si pensi ai vari Briatore che frignano per tenere aperte le discoteche, ai negazionisti, ai riduzionisti (anche fra medici e scienziati di un “certo livello”, vedi Zangrillo) e, last but non least, i semplici cittadini dominati dall’egoismo individuale di cui abbiamo annoverato anche qui molti esempi(della serie: “io esigo di poter fare quello che mi pare, tanto non appartengo a una categoria a rischio Covid”),
Finché dominano correnti di pensiero di questo tenore, le ipotesi di INVESTIMENTI (come quella descritta nell’articolo) resteranno dei sogni nel cassetto. Il compito di ogni cittadino “consapevole” è quello di diffondere questi pensieri in modo da sensibilizzare il più possibile l’opinione pubblica e spingerla a pensare al futuro. Tiriamoci su le maniche e mettiamoci sotto. Io lo sto già facendo da mesi. Ciao!