Potatura, sentimenti minimi

Oggi, 9 luglio 2015, è l’anniversario della scomparsa sul Monte Bianco di Ferdinando Rollando, un amico, ma soprattutto un uomo che stava dedicando la sua vita al prossimo lontano.
Abbiamo ritenuto di ricordarlo tramite uno dei suoi ultimi scritti, rivelatore di quanto un uomo possa aver accettato il suo destino senza per questo rinunciare a sperare.

Ferdinando Rollando
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Potatura, sentimenti minimi

di Ferdinando Rollando (11 aprile 2014)

Kabul e buona parte dell’Afghanistan potrebbero essere un paradiso della frutta. Il freddo dell’inverno assicura un riposo vegetativo solenne che pulisce a fondo la pianta. Il sole, sempre potente, garantisce buone crescite. L’acqua è a sufficiente in molti luoghi. I giardini delle case contengono alberi da frutta, mandorli e meli in prevalenza. Quello che di certo manca è una logica nell’impostazione della pianta. Sui mandorli si nota meno, sui meli, si raggiungono forme parossistiche di caos. Il mandorlo è meno indipendente del ciliegio, ma sufficientemente autonomo per rifiutare una potatura fruttifera. Il portamento della pianta adulta non può essere corretto più di tanto e se ti trovi davanti una pianta che ha avuto cinque, dieci o venti anni d’abbandono, puoi lavorare sul secco e sull’intricato, liberando la pianta da quei rami che, vivendo all’ombra dentro la pianta, prendono tanta energia dalle radici per dare poco in termini di frutto.

Il mandorlo non tende a sfuggire in altezza, come fa il melo, il più domestico, il più artificiale dei nostri alberi da frutto. Sul melo, o si fa la potatura ogni anno, decidendo dove andranno a crescere i frutti dopo due anni, e funziona sempre, o si fa vivere male questo simpatico essere domestico che esplode in altezza, genera legno fresco su tutti i rami e dedica la sua energia alla formazione di un portamento illogico e contraddittorio. Il melo e il mandorlo sono un po’ come il cane e il gatto tra gli animali domestici. Voi che avete un cane, sapete quando tempo dovete dedicargli per dargli quel minimo di compagnia che lo tenga fuori da una vita triste e insalubre. Un mandorlo, come un gatto, sa meglio farsi gli affari suoi. Andatelo a guardare di tanto in tanto, ma quasi mai avrà bisogno della vostra presenza e del vostro aiuto.

Kabul
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Ho potato tre mandorli in casa di Warren. Ho potato tre giovani peri e un vecchio melo e ho pulito il cespuglio di un melograno a casa di Emma e David.

Non sono intervenuto sui ciliegi e sul mandorlo di casa di Leslie perché sono troppo vigorosi e ho paura della gommosi in questa stagione davvero un po’ troppo tarda.

Più che altro mi preparo il lavoro per l’autunno e per l’inverno. Sarà il mio modo, un po’ più ufficiale dell’attuale, di pagare i miei soggiorni a Kabul, finché non avrò un reddito sufficiente a pagare l’affitto di una stanza che costa più che a Roma e appena meno che nel centro di Londra.

La mia passione per la potatura viene da un amico molto più anziano di me che voleva potarmi psicologicamente. Il mestiere di Ottavio Bastrenta era il notaio e il mio era l’architetto. Quando ci trovavamo, di solito era davanti ai miei clienti per qualcosa di serio come una come la compravendita di un immobile che avrei ristrutturato per loro. Eppure Ottavio, dopo alcuni complimenti di rito, consentiti dalla sua figura carismatica, diceva che solo lui avrebbe potuto “potare” la mia personalità, in cui c’era materia per fare tre persone, ma in realtà per farne crescere bene solo una. Con una mimica da orco, mi si avvicinava e io sentivo in lui la passione, il sentimento vero del contadino che si appresta con una serie di operazioni chirurgiche a sottrarre per dare forma, a tagliare per far crescere. Ottavio finiva con la sua glossa secondo cui “potare” è il solo verbo della lingua italiana che riprende la radice di latina di “puto”, pensare. Il vero pensiero è una sottrazione: dà forma togliendo a una realtà sempre troppo complicata. Anche le città sono un po’ come gli alberi da frutto, vanno indirizzate e fatte crescere secondo un’idea. Se crescono in modo libero, spesso crescono così male che finiscono per ammalarsi.

L’intervento americano nel commercio della droga afghana
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Darul Aman è il ramo buono della città di Kabul, quello su cui si innestò il progetto di una città nuova, con un nuovo palazzo, reale, poi presidenziale, con una casa per la regina e per la caccia, con un lungo viale su cui ha viaggiato un tram per quasi vent’anni, con un progetto di città moderna che non è mai veramente partito, ma che era ben disegnato e ha protetto questa parte della città dai danni maggiori della crescita abnorme di Kabul, specie quella degli ultimi 10 anni.

A Darul Aman sono andato una prima volta per potare dei meli e per vedere la casa dei miei amici badakhshani, afghani ed internazionali che hanno costruito una casa di tre piani con terrazze, caotica come i meli che impazziscono in giardino. La casa di Musawer è spinta in alto dai valori immobiliari impazziti di Kabul. I meli sono spinti da un portainnesto troppo vigoroso, scelto per far sviluppare il melo in filare. Nel mondo in cui la manodopera costa troppo, non c’è più tempo per la potatura e delle macchine tranceranno i rami così un po’ dove capita. Una crudeltà e una menomazione per la pianta, su cui poi bisogna intervenire con tanta acqua e tanta chimica, per ristabilire un minimo di salute, che basta questo a spiegare la profonda modestia delle mele che compriamo nei supermercati.

Ci vogliono tempo e pazienza per guidare la vita di un melo. Quando poti, vedi poco la forma finale. Ti concentri sulle parti, partendo dalle estremità, per arrivare alla forma bella e giusta, solo alla fine, grazie all’ascolto della storia dell’albero.

Un sentimento fuori controllo come la periferia di Kabul, presuntuoso come la casa di Darul Aman dei miei amici, scomposto i meli di un filare: cosa mai poteva uscire di buono dal mio “…” per Eli? Se incontrassi Eli domani, parlerei meno e non le direi più che lei è tutto per me. Farei, una per una, le tante cose che mi sembravano le parti di quel tutto, senza nominarlo, senza pretenderlo.

Non ho più bisogno di un nome che metta insieme la voglia di spogliarla, di aiutarla, di accompagnarla al supermercato, di coccolarla quando s’incazzerà per un nonnulla.

Dopo che avrà goduto dei baci, dopo che avrà mangiato i piatti cucinati per lei, dopo che avremo fatto i viaggi inventati per lei, dopo che mi avrà trovato accanto al momento del bisogno, se vorrà, sarà lei a dare un nome a tutte queste cose messe insieme. Se vorrà, lo chiamerà amore.

Ribellione velata, 2010, Kabul. Mostra del National Geographic “Women of Vision”. Foto: Lynsey Addario
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Potatura, sentimenti minimi ultima modifica: 2015-07-09T06:00:31+02:00 da GognaBlog

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1 commento su “Potatura, sentimenti minimi”

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