In questa ultima (almeno per il momento) uscita di Profili volevo raccontare di qualcuno che avesse fatto qualcosa di significativo nel Finalese, anche se già ben sapevo che la storia dell’arrampicata sulle pareti di Finale Ligure è lunga e complessa.
Nelle mie elucubrazioni, soprattutto notturne… da subito mi sono trovato a pensare ad Alessandro Grillo e grazie a lui ricordo Vittorio Simonetti e Mauro Oddone, sbatto contro i fratelli Eugenio e Gianluigi Vaccari e mi saltano fuori i Calcagni (Gianni e Lino Calcagno), rifletto su Martino Lang e prepotentemente i “Cravasard” o Gianni Ghiglione reclamano giustamente il loro spazio. E poi non vogliamo parlare di Marco ed Emanuele Zambarino o di Giovannino Giova Massari e del CRIC (club rampicatori indipendenti Ceva), possiamo poi forse dimenticarci di Andrea Gallo, dell’ALA o di Fulvio Balbi? Di Betta Belmonte, di Renato U Renna Delfino o di Guido Cortese vogliamo poi non parlarne? Insomma, per un certo periodo le mie notti erano affollate da Nico Ivaldo e Guido Grappiolo, da Mario Nebiolo piuttosto che da Marco Thomas Tommasini, da Lorenzo Cavanna e da Flaviano Bessone, da Marco Pukli, Gerry Fornaro, Luca Lenti e non da ultimo da Marcello Cominetti, amico della prima ora della mia attuale compagna (Elio Bonfanti).
Alla fine, per trovare un personaggio di riferimento avrei rischiato di fare un enorme torto a tutti coloro i quali, in epoche diverse, hanno espresso il loro talento su queste rocce, per cui un bel mattino mi è arrivata l’ispirazione! Chiamo Silvano Secondo, il panettiere di Gorra e mio amico da sempre, no, anzi, meglio Carlo Carletto Voena, del quale ho grande stima, che a Finale ha aperto molte vie e con il quale ho condiviso secoli fa il corso da Istruttore di arrampicata libera.
Gli presento il progetto e ci metto non poco a scardinare la sua proverbiale ritrosia per convincerlo a raccontarmi qualcosa sul suo “Finalese”. Ne esce fuori questo racconto che esula da quelle che sono state le interviste che ho presentato sino ad ora, ma che dipinge un affresco che trovo molto bello.
Finale
di Carlo Voena
Apro la mia prima guida su Finale (La Pietra del Finale) e conto 68 vie di arrampicata, tutte aperte dal basso con chiodi, cordini su clessidre ed a volte cunei. Itinerari storici nati a partire dal 1968, molti dei quali ancora attuali, risistemati, ripuliti, a volte “addomesticati”. Già nel 1990 la guida di Gallo contava 1.200 itinerari, ora sono sicuramente più di 4.000. Finale ha dato spazio libero al pensiero dell’avventura alpinistica prima, al gioco, alla ricerca del movimento e della difficoltà dell’arrampicata, poi.
La difficoltà portata avanti sistematicamente e su un gradino sempre più in alto da arrampicatori molto forti, ed in particolare un fuoriclasse, che firmavano i tiri più difficili ed ancor oggi temuti del Finalese. E’ stato veloce il percorso che ha portato a Viaggio nel futuro (7c+) o a Hyaena, che già nel 1996 portava il grado all’8b+.
C’era il mondo della competizione. E parallelamente si faceva strada il mondo del gioco, del piacere di muoversi in verticale con i fuseaux colorati, il sacchetto della magnesite e sull’imbrago solamente i rinvii. Le scarpette gialle e nere nascevano per entrare bene nei buchetti e stare sulle goccette.
In più di 50 anni la roccia, che per migliaia di anni è stata tranquilla e dimenticata dall’uomo, ha improvvisamente visto passare un sacco di persone, l’evoluzione dei materiali e l’inevitabile cambiamento della mentalità di chi saliva le sue bellissime rocce, piene di gocce e buchetti che conservavano la storia di un mare che vi era stato millenni prima.
Tornando ai primi anni al riguardo delle vie storiche che sono state aperte, ognuna di esse ha un suo spazio nei miei ricordi; i diversi compagni di cordata, i diversi momenti della vita in cui hai percorso una via sono attimi indimenticabili, ma mi è successo di ripetere dopo anni lo stesso itinerario e di percepirlo in un modo totalmente diverso. La roccia, all’apparenza sempre uguale, attraverso il filtro dell’esperienza, del tempo e del mio cambiamento come persona, ogni volta mi ha dato emozioni differenti.
Per me, una storia a parte è stata quella dello scalare a Pianarella: lì era come andare in montagna ma con calma.
Ti permettevi un appuntamento ad orari “normali”, una buona colazione nel bar del Borgo (come tutti chiamano Finalborgo, NdR), tanto i tempi erano quelli, e sapevi che quando arrivava il sole nei mesi giusti per il “paretone” tu eri già sull’altopiano.
All’inizio usavi le 2 mezze corde, un po’ per abitudine alpinistica un po’ per stare più tranquillo, ed almeno potevi sempre fare delle ritirate. Si andava su vie come Gioventù psichica o la Catarifrangente con chiodatura originale, e non sapevi come sarebbe andata a finire…
Per me, quando in primavera smettevo di fare scialpinismo, il “paretone” dapprima è stato una grande palestra di arrampicata dove andavo ad allenarmi per fare le mie “grandi salite” in montagna. Poi è diventato una dimensione a se stante, un mondo di calcare un po’ tuo, del quale eri, e forse sei, anche un po’ geloso del fatto che così tanta gente lo venisse a salire. In questo magico mondo hai pensato le tue vie preferite, magari facendo dei concatenamenti strani, ti ci sei trovato sempre più a tuo agio, ti ci sei affezionato e facendolo tuo lo hai ripulito e richiodato.
Tutto questo per cercare di vivere ancora un poco di avventura nelle ripetizioni e nella richiodatura, pensando a quello che avevano provato i primi salitori.
In questo modo, sapevi che aggiungendo la scoperta di questi itinerari in contraddizione con la tua stessa gelosia da “Local” allargavi ad un numero maggiore di persone la possibilità di goderne, togliendone allo stesso tempo l’esclusività che lasciando le cose così come erano permeava questa parete. Sapevi anche che a quel punto non era più la stessa cosa e ti chiedevi se avevi fatto bene a richiodare, anche se da quando erano arrivati gli spit ed i fittoni (benedetto quel “grande medico” che aveva iniziato con primo spit a Finale sulla Via di lì), ti giustificavi dicendo che lo avrebbe fatto un altro. D’altra parte, lo spit prima ed i fittoni resinati poi, visto che la roccia di Finale sotto ad un primo strato di calcare abbastanza compatto è sabbioso, hanno permesso di portare fuori dalle linee classiche una nuova creatività fatte di placche o strapiombi poco proponibili in apertura dal basso. E così sono nati ed arrivati un bel po’ di chiodatori, specie negli anni ‘90, a creare interi settori e falesie. Questi hanno goduto di un notevole terreno di avventura e di scoperta, perché Finale non è mai scontato, va scoperto e ti sorprenderà sempre.
Per me a Pianarella era bello partire con uno zaino con trapano ferri e corde, pesante al punto che per metterlo in spalla dovevi posarlo prima sul muretto e poi imbracciare gli spallacci, e anche se era inverno si saliva in maglietta perché in pochi minuti raggiungevi una temperatura comfort che non ti faceva più capire che stagione fosse.
Tutto cambiava appena ti riaffacciavi alla parete. Salutavi “l’isola” (Gallinara), ti coprivi velocemente e scendevi le corde che non capivi dove arrivavano, visto che un po’ la parete strapiomba. Ed era bello scendere in questo mondo di rocce ancora intatto, dove prima di te erano passati solo il gufo reale o il gheppio ed andare a vedere la linea, cercare i movimenti, le prese ed i moschettonaggi. Stranamente sei a tuo agio a stare lì appeso, magari da solo, con l’imbrago che ti schiaccia dappertutto e il trapano che non sai da che parte farlo penzolare. Sei attento affinché non ti cada nulla, la punta del trapano, un fittone, intanto fissi lo spit “transitorio” che ti serve per tenere in linea la corda…
Poi torni giù e vai a vedere se la linea ti quadra e magari incontri qualcuno che scala da tempo, e provi piacere a sentirlo che ti ringrazia e ti chiede se c’è qualcosa di nuovo in cantiere.
E poi la volta che se sei su che pioviggina c’è giù ad aspettarti “l’amico con l’ombrello”, che era preoccupato che fossi ancora su con la roccia bagnata…
Ciao Bruno, vorrei andare a provare la Catarifrangente sabato… ci sei? Porta una mezza corda che l’altra ce l’ho io. E per fare la Catarifrangente al primo tentativo, dopo il traverso i nervi erano già stanchi e vedere il successivo traverso con il tappo di gomma ti faceva desistere e poi passavi la volta successiva. Ed intanto pensavi ai giganti che avevano chiodato queste vie, magari salendo una via che hanno percorso quarant’anni fa con i chiodi e gli scarponi doppi… visto che non erano riusciti ad andar sul Bianco e non avevano altro materiale più “sportivo” dietro.
E la volta dopo sei “sui rossi” e non sai come hanno fatto a passare (e non solo lì, ma anche sopra) i primi salitori in mezzo a quel mare agitato di calcare.
Tutte le vie storiche di Pianarella, e non solo quelle, hanno un grande valore alpinistico che non deve essere dimenticato, e spero che chi va a ripeterle riesca a leggere le vecchie relazioni per ritrovarvi il sapore dell’epoca. Cento nuovi mattini era stato il perfetto anello di congiunzione fra il vecchio ed il nuovo.
Poi ti sposti in una valle nascosta che parte da una fascia di vigna magica che si può osservare salendo verso il Ciappo delle Conche, partendo “da nord” verso Orco, dove un sognatore esplorava, magari incontrando un cinghiale sulle strette cenge, una valle chiamata Rian Cornei dove a poco a poco nascevano falesie.
E nella valle nascosta vi erano altrettante vallette nascoste che celavano di volta in volta falesie, dove per giocare con le scarpette e la magnesite bastavano muri di 25/30 metri.
Forse Rian Cornei è l’ambiente più particolare in questo senso a Finale, e quando avevi finito di scalare c’era Mario che ti dava un bicchiere di nostralino e, se ti piaceva, un uovo crudo ancora tiepido da bere.
Oppure se salivi con la macchina fino ad Orco c’era un “omino” che ti dava la merenda nella sua “topia”, e lo stesso accadeva poco dopo anche a Perti, ai 5 Campanili.
Ti viene ancora in mente il gusto con cui mangiavi il pane con le formaggette sott’olio, e ricordi senza dimenticarla anche l’acidità di stomaco che ti creava quel vino ligure asciutto e ruvido.
Ciao Carlo, sono Fulvio (Balbi, NdR), sabato se vuoi venire andiamo alla Falesia del Silenzio a provare Siddharta. L’ho chiodata facendomi aiutare da Guido Grappiolo (sempre quello della Via di lì), il primo spit lo ha messo lui da terra, visto che è un gigante…
Ai tempi dell’arrampicata dai nomi romantici, con Silvano abbiamo provato a reinventarci la nostra “luna nascente”, ripetendo di notte con la luna piena la via Aspettando il sole. Chiaramente la nostra lungimiranza non ci aveva fatto tener conto che la luna sorge ad est e la via è esposta ad ovest, quindi facemmo tutta la salita con i frontalini e la luna si rivelò dopo quando arrivammo sull’altopiano… però ci apparve con tanta magia. La volta dopo ci facemmo più furbi e andammo alla Rocca di Corno…
Con quanti amici mi sono legato e quante storie ha visto questa roccia, lei è lì che ci vede, è paziente perché si lascia maltrattare da noi che la foriamo, la insultiamo e la calpestiamo.
Osserva chi si sente appagato di salirla, vede chi è più elegante e leggero e chi meno, sorride dei nostri pensieri, piccoli umani che ragioniamo in base a sconfitte e vittorie. Con il suo essere quasi immutabile, ci regala piccoli momenti di gioia e a volte “di gloria”.
La corda tiene le persone insieme, fai il nodo, il compagno ti mette in sicura e si crea un silenzioso dialogo dove chi scala parla alla roccia e il compagno ascolta. Poi toccherà a lui parlare, sempre in silenzio, sempre con i gesti, con la mente che scopre e comanda ai movimenti del tuo corpo e fa trasparire il tuo stato d’animo e il tuo carattere. Cerca l’equilibrio, che è una sensazione che accomuna tutte le attività del nostro corpo e del nostro animo. Più c’è equilibrio più si sta bene. Anche se a volte è bello perderlo un po’… Eppure questa “giovane roccia” sa che ci regala qualcosa di bello. I lecci appesi nel vuoto, la Campanula con la sua delicata grazia, il contorno delle montagne sul mare come è bellissimo da vedere quando arrivi in cima a Pianarella, al Cucco, o a Rocca di Perti. Oppure una salita sulla Rocca di Corno dove insieme al sole vi è il mare, si vedono di più i promontori, “i capi” e la prospettiva è diversa, forse anche gli odori, tra i quali il rosmarino selvatico la fa da padrone.
Un tramonto di fuoco sulla Rocca di Perti d’inverno, dove in basso sei già nell’ombra e l’asfalto è già bagnato dall’umidità e questa luce ti dice che la giornata sta finendo, il giorno va ad addormentarsi e quel colore dorato della roccia, così intenso, ti attraversa gli occhi e ti rimane dentro anche quando viene notte.
Oppure una luce particolare dove la roccia ha avuto delle colate d’acqua, penso alle Ombre blu, dove la maestria di un promettente medico (Nico Ivaldo, NdR) saliva rapidamente una nuova linea elegante e difficile.
Ciao Ivo (Piovano, NdR), andiamo al nuovo settore che Lorenzo (Cavanna, NdR) ha chiodato a destra delle Ombre blu, si provano i nuovi tiri e poi, con un poco di nostalgia, quando le ombre si allungano e i colori del sole di autunno scaldano le rocce, andiamo ancora sotto alle Ombre blu, ma il tiro è difficile e ci fanno già male i piedi e saliamo per la più facile ma bella, Griddonett. Per un momento dai buchi di sosta delle Ombre blu ho sentito dei rumori che sembravano il martello dei primi salitori, un sogno intenzionale, o forse era solo il verso di un grosso ghiro che abbiamo disturbato nella sua profonda e sicura tana nella roccia…
E poi torni nel Borgo e incontri Giorgio che ti spiega con entusiasmo un nuovo sentiero che porta ad un antro nascosto. Sali verso il casello dell’autostrada e anche se è inverno trovi Silvano con i pantaloni corti che va a farsi un bagno, (sì, proprio il Silvano Secondo, quello che ha prodotto e regalato focaccia ed esse ad un sacco di persone, preferibilmente ragazze).
A Finale c’erano, e ci sono ancora, le guide alpine che arrivavano a fine primavera con la pelle abbronzata e le mani lisce. Poi le vedevi tornare ad ottobre con la pelle sempre abbronzata ma le mani piene di calli, li guardavi negli occhi e vedevi che riflettevano ancora il sole e la luce delle montagne, e si mettevano in costume da bagno alla spiaggia del Castelletto: li riconoscevi da distante.
Finale era un bar nella piazza del Borgo e trovavi la prima guida “artigianale” delle vie di arrampicata. Un libretto dove ognuno scriveva le relazioni delle proprie aperture, dove non mancavano poi i commenti e dove vi era il terribile omino dai capelli dritti che diceva sempre la sua…
Finale è una placca di “solo 6c” che dopo 30 e passa metri, con i piedi che vanno a fuoco, arrivi in catena e devi ancora capire quali prese hai tenuto e dove hai messo i piedi (figuriamoci i 7c/8a sempre di placca, ai tempi della scalata difficile su placca).
Finale è dove se vedi nelle vie storiche (quelle ancora gradate in lire…) un “+” oltre al numero ed alla lettera, sai che la difficoltà cambia non di mezzo grado…
Poi alla sera ti ritrovi sempre al Borgo e guardi il tuo negozio preferito e sei contento di vedere quel modello vecchio di scarpette che vendono ancora e che sai che riesci a tenere ancora per qualche tiro. L’abbigliamento lo guardi solo, ormai è troppo tecnico e sei affezionato a quello che hai indossato per le tue belle salite ed è pieno di odori e di ricordi.
Via Cloto
al Bric Spaventaggi
(Settore Superpanza)
Primi salitori: Stefano e Bruno Bellio
Sviluppo arrampicata: 80 m
Esposizione: ovest
Grado massimo: 7a
Grado obbligatorio: 6b
Materiale: Necessari 15/16 rinvii (per la prima lunghezza)
Accesso stradale: autostrada per Ventimiglia, uscire a Feglino (uscita prima di quella di Finale Ligure). Dopo il casello svoltare a destra e proseguire per un paio di km, fino a quando si trova a sinistra il bivio per Feglino Orco.
Accesso: Presa la strada per Orco posteggiare dopo circa 200 m nei pressi di una strada privata che conduce in pochi minuti alla base della parete. La via è nel settore basso della Superpanza all’estrema destra.
Note: Propongo la partenza diretta, che parte qualche metro a destra di quella originale, ma è meno violenta e più divertente. Percorre in alto la splendida placca molto compatta che caratterizza la parte sinistra della Superpanza.
Itinerario
L1- Attaccare il beve muro strapiombante con buone prese e ristabilirsi su una placca che poi fa un piccolo diedro al limite del taglio della cava. Salire su buoni buchi con passo da capire in uscita per raggiungere una sosta (da non utilizzare), proseguire con movimenti difficili e delicati su muretto compatto per poi arrivare su belle gocce mai banali fino alla sosta: 6a la prima parte, 6b/6b+ la seconda;
L2 – Superare un faticoso muro a buchi non troppo lungo che conduce alla sosta successiva: 6b+;
L3 – Salire la sempre impegnativa placca in piena esposizione ed ambiente spettacolare fino al suo limite fino ad arrivare ad una sosta nei pressi di un antro:7a.
Discesa: in doppia con corda da 70 metri (da frazionare nell’ultima calata utilizzando quella sosta che è stata saltata salendo).
Via Mio Nome
al Bric Pianarella
Primi salitori: Paolo Cogliati e Luca Valli – 1990
Richiodata in più riprese da Carlo Voena, Angelo Ferrando e Mirco Picollo
Sviluppo arrampicata: 240 m
Esposizione: ovest
Grado massimo: 6b+
Grado obbligatorio: 6a+
Materiale: N.d.a, 12 rinvii, possono tornare utili friend micro e fino allo 0,75 BD. In loco spit, chiodi e alcuni cordoni. Soste su spit/alberi.
Accesso stradale: autostrada per Ventimiglia, uscire a Feglino (uscita prima di quella di Finale Ligure). Dopo il casello svoltare a destra e proseguire per un paio di km, fino a quando si trova a sinistra il bivio per Feglino e poco più aventi un ponte sulla destra che attraversa il fiume per raggiungere l’agriturismo “A cà de Alice”. Non salire sul ponte, ma parcheggiare in uno slargo a sinistra di fronte al ponte (sotto l’evidente parete con grandi erosioni).
Accesso: Prendere il sentiero a destra (faccia a monte) che parte dalla cappelletta e dopo pochi minuti svoltare a destra (ometti) e triangoli, seguirlo fino a quando ci si trova contro la parete. Se si è seguita la traccia principale, si scende fino ad arrivare alla parte più bassa della parete (10’). individuare una linea di fittoni in centro ad un muro compatto compresa tra Joe falchetto a sinistra e la Grimonett a destra.
Note: via “avventurosa” che era chiodata con alcuni spit, chiodi e cordini nelle clessidre. Anni fa avevo sostituito i vecchi spit, e soprattutto le vecchie piastrine, con del materiale nuovo (non fittoni resinati) ed in qualche punto che ritenevo pericoloso avevo aggiunto qualche protezione. Può essere utile avere dietro un paio di friend piccoli (0,5 – 0,75 BD) e qualche cordino per le clessidre. Resta una via da percorrere con più cautela rispetto a quelle interamente resinate. E’ sicuramente un itinerario di grande soddisfazione proprio al centro del Paretone.
Le soste sono state poi resinate da Mirco Picollo e Angelo Ferrando che raccontano così la loro giornata in parete:
“Con Angelo, un giorno siamo saliti sino a lassù con 25 kg di materiale che Chicco ci aveva fatto avere tramite un negozio di Alessandria; ci siamo calati ed abbiamo rifatto sette soste, mettendo dei fittoni resinati da 12 X 135 mm, abbiamo poi sostituito quattro chiodi, altri li abbiamo ribattuti, e due li abbiamo rinforzati con la resina, nel frattempo abbiamo stretto tutte le piastrine che si muovevano, ma soprattutto, trascinandolo tre metri più in alto in modo di poterlo assicurare ad una pianta, abbiamo rimosso il masso su L5 che ormai era pericolosamente in bilico. Una giornata lunga ma appagante dove fatica, tempo, energie e risorse spese sono nulla in confronto a quanto riceviamo indietro.“.
Itinerario
L1 6a; corto muretto e sosta su albero, volendo si può facilmente concatenare con la lunghezza seguente, occhio al tiraggio delle corde;
L2 6a+; muro a buchi, alla cengetta spostarsi a destra, cordone e sostare sull’albero (in comune con la Grimonett) sotto un bel pilastro con evidenti cordini;
L3 6b; inizio della parte non “resinata”, scalare il bel pilastro protetto da cordini in clessidre, 1° fix a metà tiro. Sosta su masso incastrato in comune con la Calcagni (originariamente Via dell’Amicizia, NdR).
L4 6a; portarsi al margine sinistro del grottone e seguire solo i primi 2 resinati, poi dritti per strapiombo a buconi, fix; superatolo portarsi gradatamente verso destra, chiodi, per placca appoggiata, alla sosta. Sosta su fittoni resinati;
L5 6a+, placca, ancora un po’ sporca, dopo il 2° fix andare a sinistra ad un chiodo con cordone e salire in mezzo alla vegetazione sin sotto ad un marcato strapiombo con un fix sul bordo. Sosta su catena e resinati;
L6 6b in partenza strapiombante, ostica, poi ribaltamento su bel muretto e seguire i cordoni a sinistra, 5c, aggirando un bello spigolo. Sosta in un grottino su due fittoni resinati nuovi, da collegare;
L7 6b; partenza spettacolare a destra (i golfari resinati a sinistra sono della Calcagni), primo fix nuovo, seguito da uno recente, difficile entrata sul bellissimo muro seguente e proseguire verso destra! A metà chiodo con anello. Sostare a sinistra su pulpito con alberello, due fittoni resinati nuovi da collegare;
L8 6b+; spostarsi un paio di metri a destra al fix e difficile spostamento a destra, 2 chiodi su bel muro di continuità ed un fix portano al grottone sotto uno strapiombo/tettino di roccia rossa con cordone rosso penzolante. Sosta in comune con la Calcagni. Due fittoni resinati nuovi da collegare;
L9 6b+; ribaltarsi sopra il tettino e seguire i fix a destra, allungando bene il 2°, aggirare il vago spigolo e diritti sin sotto un tettino fessurato sino ad un chiodo nero, utile un friendino. Sosta su fittoni resinati da collegare;
L10 6a, bel muro dolomitico. Sosta su piccola cengia con alberello su due fittoni resinati nuovi da collegare;
L11 6a, passare tra roccia ed alberello e salire lo spigolo, 7 chiodi (L10 ed L11 concatenabili) sosta su due fittoni resinati da collegare;
Da qui due possibilità: utilizzare l’uscita a destra (resinato evidente) della Calcagni, 4c, oppure trovare il chiodo nascosto in alto un po’ a destra della sosta e salire con un passo delicato, 6a, la placchetta finale. Sosta su alberi.
Discesa: a piedi, risalire verso est fino a raggiungere un sentiero, prenderlo in direzione nord e dopo circa 500 m fare caso ad una deviazione a sinistra (ometto) che con rapida discesa porta alla base del Paretone (20’).
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Mario e il nostralino nella sua cantina in una piovosa mattina…mi si é sbloccata una nostalgia etilica meravigliosa. Carletto mi hai fatto commuovere!!!
Un bastardo di buon gusto se sapeva cogliere i dettagli . 🙂
Le più gnocche a Finale scalavano con l’imbrago TSA con le farfalle!
A parte che Gogna dovrebbe pubblicare i commenti dello “scalatore dai capelli dritti” dal libro delle vie di Finale (dovrebbe avercelo Andrea Gallo), perché erano di una crudezza inarrivabile per la loro scorrettezza che però diceva la verità, volevo aggiungere che i personaggi come Carlo Voena e altri citati nel racconto si meritano un monumento.
Fossimo in Trentino, la PAT finanzierebbe una targa commemorativa che verrebbe scoperta alla presenza delle autorità sulla Piazza dei Cannoni (non quelli da fumare) di Finale. Ma da quelle parti macaiose non si usa.
Se lo meritano perché hanno prodotto dei capolavori facendo divertire milioni di scalatori senza cercare minimamente la popolarità o qualche complimento. Atteggiamento tutto ligure, che bada alla sostanza trascurando volutamente quei fronzoli che tanto piacciono oggi a molti chiodatori seriali senza poesia. Questi (io no, anche se sono nominato, ma di vie ne ho aperte pochissimissime) almeno la poesia ce l’avevano e continuano ad avercela. Chapeau!
Io lo scalatore dai capelli dritti l’ho conosciuto molto bene: un bastardo!