Quattro chiacchiere con Vincenzo “Vince” Ravaschietto e Giuliano Ghibaudo
(sulla storia e l’evoluzione dell’alpinismo)
di Valerio Dutto
(pubblicato su cuneotrekking.com il 27 settembre 2021)
Vince e Giuliano sono alpinisti, autori di prime ascensioni e raffinati pensatori. Giuliano, tipografo di professione, è una delle memorie storiche dell’alpinismo cuneese, penna pungente, marcato accento piemontese che inevitabilmente diventa la lingua con cui si esprime nei momenti clou. Vince è una fortissima guida alpina di Global Mountain e istruttore nazionale, carattere spigoloso, voce roca dovuta alle inseparabili sigarette rigorosamente rollate a mano che fuma una dietro l’altra.
Mi aiuta a moderare la chiacchierata la guida alpina Adriano Ferrero (intervista), che li presenta come i “diavoli” che si contrappongono all’“acquasanta”, cioè al perbenismo e al rigore del CAI. Come esempio porta un vecchio articolo di Giuliano che finiva con la frase “scambiamo volentieri una brutta via con un’ottima osteria”. La chiacchierata si svolge nella nuova Casa della montagna, presso la bellissima Casaregina di Sant’Anna di Valdieri.
Parlatemi di voi.
Vince: Iniziai a sciare a cinque anni, verso la metà degli anni sessanta. Subito dopo entrai nel mondo dello sci agonistico e intorno ai quattordici anni iniziai a scalare con gli amici. Nella palestra di roccia di Borgo San Dalmazzo incontrammo Giuliano che divenne il nostro mentore. Nel ’78 diventai maestro di sci e passai la selezione di aspirante guida, la prima in ambito nazionale. Nel ’79 mi chiamarono a fare il servizio militare: visto che divenni istruttore di alpinismo militare mi permisero di seguire contemporaneamente i corsi guida. Nell’‘80 diventai aspirante guida, due anni dopo guida a tutti gli effetti, quattro anni dopo istruttore nazionale. Più tardi nella cantina di Giuliano partì il primo tentativo di organizzarci, l’embrione di quello che poi è diventata Global Mountain. Nella cantina di Giuliano abbiamo fondato le basi della nostra storia.
Giuliano: Iniziai a fare sci alpinismo verso la fine degli anni quaranta quando avevo sette anni. Allora nevicava molto, andavo da Borgo San Dalmazzo a Monserrato, alcune volte fino a Sant’Antonio Aradolo. La strada era battuta dalla slitta che scavava una trincea per far passare il mulo. Iniziai a arrampicare quando entrai a far parte del celebre gruppo “Cit ma bun”, fondato nel ’62 da Gianni Bernardi. Per deformazione professionale iniziai a studiare la storia dell’alpinismo, la geografia, la geologia, tutto quello che è parallelo all’arrampicata e allo sci alpinismo. Inoltre, visto che il lavoro di un tipografo, di un giornalista, è di rendere interessante un foglio di carta bianco, mi venne voglia di scrivere. Arrampicai fino al ’94: stavo percorrendo una via a Cap d’Ail, che il caso vuole fosse chiamata Docteur fatalis, “dottor destino”, quando mi ruppi il piede: frattura dell’astragalo. Visto che il “dottor destino” non mi ha più lasciato andare in montagna da sotto, presi il brevetto di pilota di aliante e ci andai da sopra. Il volo mi salvò l’equilibrio psichico.
Negli anni Settanta hai anche scritto un libro.
G: Nel ’74 scrissi una guida dedicata allo sci alpinismo oltre il colle della Maddalena, nella zona che va dall’Enciastraia alla Tête de Siguret.
V: Chiamavamo quella zona “il reame”: «dove vai?» «nel reame.» Sottointeso: di Ghibaudo.
G: Mi entusiasmava studiare la cartina 1:100.000, andare in zone dove nella neve non c’erano tracce. Negli anni sessanta e settanta i francesi non facevano sci alpinismo, andavano in pista fino alla primavera e poi facevano “ski de printemps”, sci primaverile. Se c’era una traccia nella neve quando scaricavamo gli sci cambiavamo gita o andavamo all’osteria.
Continui a scrivere ancora oggi?
G: Ho scritto per Montagne Nostre, per Alpidoc, ho curato la pubblicazione della guida di arrampicata di Miroglio, ho tradotto volumi dal francese. Oggi scrivo solo quando ho qualcosa da dire: mi avvicino agli ottant’anni, non sono più intonato con i tempi. Ma non ho perso la vis polemica: agli anziani non va mai bene niente.
Eravate davvero contrapposti al CAI?
V: Non ho un pensiero negativo nei confronti del CAI. Io stesso feci i primi passi all’interno del club, inteso come punto di ritrovo. Certo, ci sono stati momenti in cui era gestito da gruppi con cui mi sentivo in sintonia, altri meno. Senza dubbio per molti ha rappresentato l’unica via possibile per l’accesso alla montagna. Noi, intesi come le guide alpine di Cuneo, siamo stati i primi in zona a offrire un’alternativa.
G: Entrai nel direttivo CAI come rappresentante del gruppo “Cit ma bun”, ma rifiutavo i luoghi comuni, i personaggi carismatici. Presi posizioni scomode: quando Vince e Sergio Savio diventarono guide cercai di spostare la parte didattica dal CAI al professionismo che stava sorgendo. Cercai di chiudere le scuole di alpinismo e sci alpinismo, perché volevo che se ne occupassero i professionisti. La mia iniziativa fallì, era troppo radicale e non ha avuto molto riscontro neanche tra le guide.
V: A quei tempi le guide non c’erano proprio. Nell’‘80 io e Savio diventammo i primi aspiranti guida di Cuneo. Poi c’erano Nino Perino di Acceglio e Flavio Poggio di Dronero, fine. Chiaramente il discorso è diverso nel saluzzese, che fa riferimento a Viso, con una tradizione molto antica, e nel monregalese, dove c’erano Pucci Giusta e Gianni Comino, le cui attività però vertevano quasi esclusivamente su torinese e Valle d’Aosta.
Cosa vi ha spinto ad andare in montagna?
G: La curiosità. Ti faccio un esempio: ieri parlavo con un francese di Barcelonette che non sapeva da dove derivasse il nome del plateau Mallemorte, tra Meyronnes e Larches. Sai come si chiamava il paesino che c’è sotto quel plateau che è stato distrutto durante l’ultima guerra? Certamussat, che deriva dal latino “certamen satis”, ossia “ce le siamo prese”. Lì sopra ci fu una battaglia delle truppe romane. Lui, che è del posto, non lo sapeva. Io sono curioso.
V: La curiosità è uno degli elementi trainanti dell’andare in montagna. Dal mio punto di vista l’alpinismo non è che un mezzo magnifico per sviluppare la mia curiosità dei luoghi, delle persone che vi abitano. Perché si fanno spedizioni? Mica per pubblicare: se hai un animo “green” la cosa migliore che puoi fare per lasciarlo immacolato è tenertelo per te. Il viaggio deve avere uno scopo. Se hai come obiettivo una salita, ma per farla devi andare dall’altra parte del mondo, girare tra le strade di città che non conosci, organizzarti, conoscere persone, camminare con i portatori, tutto questo diventa la parte centrale del viaggio. L’alpinismo è un gioco per conoscere delle cose, in primis te stesso.
Per molti l’importante è apparire, dimostrare di essere più bravi degli altri.
V: Chi è senza peccato scagli la prima pietra. È insito nell’ambiente, l’importante è rendersene conto e cercare in qualche modo di superarlo. Grazie al cielo le vere molle sono altre, più importanti. Riguardano valori importanti tipo solidarietà, ricerca, scoperta, fascino dell’ignoto. Una “prima” si basa su questo.
G: Mi torna in mente quando nel ’74 partecipai alla prima spedizione alpinistica di un gruppo cuneese in Groenlandia, ad Akuliaruseq. Una bella avventura. Non avevamo alcun tipo di collegamento con la civiltà, all’epoca non esistevano telefoni cellulari e tantomeno satellitari. Nino Perino era il capo spedizione, Toni Caranta l’organizzatore. Aveva degli agganci con una società di studi danese che ci mandò delle foto aeree e delle cartine del tutto approssimative. Visto che c’era sempre luce non avevamo mai diritto di dormire. Un giorno, dopo trenta ore di cammino, mi beccai l’appendicite. Eravamo a quindici ore di navigazione dall’ospedale più vicino. Il medico della spedizione, il pediatra Ambrosiani, mi mise a dieta e mi imbottì di antibiotici. Sono ancora da operare adesso.
Come organizzavate le uscite in montagna negli anni Settanta e Ottanta?
G: Erano più le gite che combinavamo sotto ai portici di corso Nizza che alla sede del CAI.
V: Combinare l’uscita non era particolarmente diverso da adesso. È il mondo intorno a essere differente, cambiano i sistemi per informarsi. Tantissimi non usano più i libri, ed è un peccato. Oggi c’è internet che ha pro e contro: trovi tante informazioni, magari sbagliate. Internet è così, questo ragionamento non è limitato alla montagna. Comunque la sostanza rimane quella: ci informavamo e andavamo.
Un tempo c’era meno gente che andava in montagna?
V: C’erano meno appassionati, ma in compenso c’era maggiore socialità. Oggi quando salgo a un rifugio incontro un sacco di gente ma non conosco nessuno, un tempo ne incontravo un decimo, ma li conoscevo tutti.
Perché è aumentato il numero di chi frequenta la montagna?
G: Intanto per l’incremento demografico: sessant’anni fa, quando avevo vent’anni, eravamo in tre miliardi sulla Terra.
V: Poi un contributo pazzesco l’hanno dato i media, la facilità dell’approccio. Ma il vero aumento esponenziale arrivò con i materiali, che negli ultimi vent’anni sono cambiati in maniera radicale.
Negli anni è cambiato il tuo lavoro di guida?
V: È cambiato, si è evoluto. È cambiata l’utenza. Se trent’anni fa la maggior parte delle persone faceva una, due attività sportive, oggi c’è chi gioca a tennis, calcetto, arrampica, fa pesca subacquea e le vacanze alle Maldive. Il tempo che dedicano a una certa attività è minore, più concentrato, quindi vogliono andare al punto. Una volta era diverso: c’era chi lavorava e faceva l’alpinista, punto. Al massimo a fianco ci metteva un po’ di passione per il calcio.
Poi ci sono le mode. Per qualche anno una via è super gettonata, poi non ci va più nessuno, e avanti così. Nel nostro lavoro ce ne accorgiamo: tralasciando le punte che hanno un loro valore a sé stante, come Monte Bianco, Monviso, Cervino, ci sono anni in cui finisco dieci volte nello stesso posto. Poi magari nessuno me lo chiede più, devo essere io a proporlo. Che poi è uno dei nostri grandi punti di forza come guide. Conoscendo tante mete possiamo dire: «piuttosto che fare la coda lì andiamo là dove non c’è nessuno ed è altrettanto bello».
E i clienti si fidano o preferiscono scegliere loro?
V: Sono i due atteggiamenti opposti: c’è chi non ha una meta specifica e si affida alla nostra competenza, mentre c’è chi vuole fare una gita ben precisa.
Come guida immagino sia più soddisfacente il primo caso?
V: No, assolutamente. Chi ha una grande aspettativa raggiungerà un suo sogno e soddisfare un sogno è un aspetto non indifferente del nostro lavoro. La scorsa settimana sono arrivato in cima al Monviso con una ragazza che voleva farlo da un sacco di tempo. Arrivata su era veramente emozionata. Queste sono cose bellissime.

Uno dei protagonisti dell’alpinismo cuneese nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale è indubbiamente stato Matteo Campia. Eppure Mauro Manfredi nel suo recente libro 80 anni sulle mie montagne parla dell’ombra che gettò frenando i giovani degli anni Cinquanta e Sessanta. Vi riconoscete in questa affermazione?
G: Non ho conosciuto Campia in montagna, ha smesso abbastanza presto. Ero molto più giovane, ma Manfredi, Olivero, Cavallo, Bollati, Prandoni hanno fatto parte di quella generazione che ha subìto la sua ombra. Sono stati frenati perché dovevano chiedergli il permesso. Chi andava con Campia racconta che quando gli chiedevano dove sarebbero andati rispondeva «in montagna». «E cosa portiamo?» «Tutto». Non aveva molti amici.
V: Campia è stato indubbiamente fortissimo, ma allo stesso tempo ha fatto grandi danni perché ha frenato l’evoluzione. Come un padre che, pur con i migliori motivi al mondo, tarpa le ali ai figli. Un atteggiamento che, forse a causa sua, si è ripresentato anche nella generazione successiva.
Poi chi è arrivato?
G: La generazione di Tranchero e Bernardi, che nel ’62 fondò il “Cit ma bun” di cui poi farò parte, un’associazione giovanile di alpinisti indipendente da Campia. Nel frattempo c’erano Musso e Fraschia, che fecero una strada propria. Poi Tommaso e Tarcisio Martini. Successivamente arrivarono Poggio e Brunetto.
Voi eravate il nuovo.
V: Con la mia generazione c’è stato un cambio netto: Morgantini, Savio, qualche anno dopo mio fratello Cege [Cesare, n.d.r.], di cinque anni più giovane di me, che ha seguito il mio stesso percorso professionale diventando uno dei più grandi alpinisti della nostra zona.
G: Io ero già abbastanza vecchio. Finito di lavorare andavo nella palestra di roccia a Roccavione o a Borgo. I benpensanti si chiedevano perché perdessi tempo lì, perché ad arrampicare si andava solo in montagna. Per loro già la Castello era solo una palestra un po’ più grande.
Allora non si concepiva che si potesse andare in montagna a divertirsi. Si andava per faticare: più faticavi più aveva valore.
Il famoso alpinismo eroico?
V: Tutta retorica, anche allora si andava in giro per divertirsi. Già la parola “eroico” abbinato a un’attività ludica come l’alpinismo è un controsenso. Eroico è quando uno mette la propria vita a repentaglio per salvarne un’altra, non per divertirsi.
Vince, parlaci della tua Via dell’Aspirazione sulla parete nord-est del Corno Stella, che potremmo definire una pietra miliare.
V: Dopo Campia ed Ellena ci fu un periodo di stasi. Pur essendoci della gente molto brava gli alpinisti locali da una parte erano frenati, dall’altra forse meno motivati. Il nuovo periodo, inconsapevolmente, parte proprio nel ’78 con l’apertura della “via dell’aspirazione”, costruita su un precedente tentativo di Allario e Perotti: è stata la decisione di riprovare a mettere mano ai grandi problemi. L’abbiamo aperta in uno stile molto tradizionale io e Mario Morgan Morgantini, uno dei più forti della nostra zona. L’abbiamo chiamata così perché tutti e due stavamo per fare le selezioni come aspiranti guide o le avevamo appena superate. Nell’arco di pochissimo si produsse un grande cambiamento.
Com’è stato il passaggio da Roccavione, palestra di roccia storica per allenarsi per l’alpinismo, alla falesia di Andonno, dove si fa un’arrampicata più fine a se stessa?
V: La palestra di roccia era un campo prova, inteso esclusivamente come un allenamento all’alpinismo in montagna. Oggi tantissimi fanno solo arrampicata in falesia o indoor, non prendono in considerazione niente che non sia quello, con la stessa attitudine mentale che avrebbero ad affrontare una delle tante forme di attività fisica.
G: Da quanto mi risulta c’è sempre meno gente che va a arrampicare in montagna e sempre più che va in falesia. E quelli che vanno in montagna scelgono più le vie attrezzate che non quelle storiche.
V: Le cose però stanno cambiando. Come per i pantaloni: prima vanno a zampa di elefante, poi stretti, prima si usano colori sgargianti, poi solo più grigi. Con l’avvento del trad [uno stile di arrampicata classico in cui non si può contare sulla presenza degli spit e chi sale posiziona l’attrezzatura necessaria per proteggersi dalle cadute, NdR] si stanno cominciando a ripetere vie che da anni non venivano più richieste. Con i materiali attuali diventano allettanti, si procede veloce. Fino a qualche anno fa la via non protetta significava da una parte aleatorietà, dall’altra portarsi dietro un sacco di materiale. Poi c’è l’elisoccorso, ci sono dispositivi satellitari che ti permettono di chiamare dappertutto. Ti portano in una dimensione differente.
Andonno la conosco bene perché l’ho vissuta in prima persona intorno alla seconda metà degli anni settanta con Flavio Poggio, Mario Morgantini e Giorgio Ferrero. C’erano già passati altri che avevano decretato che facesse schifo, che la roccia era pessima. È venuta fuori una delle più belle palestre di roccia d’Europa. È stato però veramente impegnativo aprire le vie, visto che erano concepite in maniera classica. Un conto è arrivare su un sasso: butti giù la corda, sistemi, provi, pulisci, pianti gli spit. Un conto è partire dal basso e mettere i chiodi con il martello, al massimo qualche dado.
Quindi Andonno, la falesia per eccezione, è stata aperta con uno stile alpinistico?
V: Il passaggio da palestra di roccia a falesia non dipende da come ci siamo mossi nel primo momento. Andonno è nata come una parete alta, non ancora sfruttata, che ci dava più possibilità rispetto a Roccavione. Cercavamo un modo per divertici quando avevamo solo mezza giornata a disposizione, ottimizzando i tempi. Poi è arrivata altra gente, sono stati aperti nuovi settori. La trasformazione è iniziata intorno ai primi anni ottanta.
Cosa ha dato avvio al cambiamento?
V: L’arrivo dello spit è stato un cambiamento importante. Si passa dal chiodo al pianta spit [un attrezzo per piantare gli spit a mano, n.d.r.]. Ma il vero sdoganamento è stato nel passaggio al tassellatore. Cambia radicalmente la salita. È un discorso etico, una scelta che fai.
Da che parte state?
V: Con tutto quello che c’è già non vedo la necessità di barare. Sul Corno Stella c’era una via strepitosa che è stata letteralmente rovinata dal mondo degli spit e dalle quattro che gli hanno messo accanto, costruite male, che non significano niente. Han fatto perdere per generazioni a venire un campo di battaglia.
Come si sta evolvendo questo mondo, dalla palestra di roccia alla falesia?
G: Qualche anno fa avresti pensato delle gare di dry-tooling [ossia la scalata di una parete di roccia utilizzando l’attrezzatura da ghiaccio, NdR]? Non so dove si andrà a finire.
V: Per la prima sulla via The Nose di El Capitan ci misero 47 giorni, nel 2018 sono scesi sotto le due ore. È chiaro che non esiste il paragone, è naturale evoluzione determinata dall’attrezzatura, dalle tecniche, dall’allenamento, dall’alimentazione, dalla ricerca di persone che lo fanno sin da bambini. In che direzione si evolverà? Si faranno cose sempre più estreme, sempre più mediatizzate. Che è un grandissimo problema per il nostro mondo.
Ormai si è fatto buio. Come sempre la nostra chiacchierata ha preso pieghe inaspettate ed è andata ben oltre l’orario che avevamo previsto. Non abbiamo che sfiorato la superficie e ci sarebbe ben di più da farsi raccontare. Torneremo su questi temi nelle prossime Cuneotrekking Stories.
Valerio Dutto
Ha fondato Cuneotrekking insieme a Elio nel 2007. Ingegnere informatico, appassionato di montagna, di sport all’aria aperta e di tecnologia, si occupa delle recensioni e delle guide. I suoi articoli sono stati pubblicati su quotidiani come La Stampa e riviste di settore come Skialper. È pilota drone con attestato per operazioni critiche. Nel 2011 ha co-fondato Delite Studio, la società informatica che si occupa del “dietro le quinte” di Cuneotrekking.
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Se c’era una traccia nella neve quando scaricavamo gli sci cambiavamo gita o andavamo all’osteria.
Ma ragazzi, vi rendete conto di che palle morali erano dotati certi alpinisti del passato???
Vince co ha lasciati poche ore fa. Lo ha fatto con la discrezione che lo ha sempre contraddistinto. Nonostante abbia salito vie difficilissime e pericolose in vita sua, si era imbattuto in una di quelle che non danno scampo.
Arrivederci grande uomo, guida, maestro di sci e di vita liquida scorrente.
Tanti anni fa nella nebbia di Crissolo eravamo piombati, sci ai piedi su una strada asfaltata, durante un corso guide. Tutti si erano preoccupati di rovinare gli sci e lui, che era uno degli istruttori, disse mentre strisciava verso il lato opposto dove proseguiva la neve gli sci non sono che due assi di legno e plastica…. faceva curve che sembrava volare.
Fa proprio piacere ascoltare qualcuno che riesco a capire , grazie.
grazie per questa bella intervista. Belle persone, belle storie che profumano di casa.
Belle storie e bella gente; da conoscere.
I cuneesi, mmmhhh, oltre a buonissimi cioccolatini sono anche schietti alpinisti e superlative guide. Lo dico perché ne conosco. E anche perché nelle valli della Provincia Granda mi sono divertito molto agli inizi del mio alpinismo.
Bello, leggendo questa bella intervista sembra di essere tornati a casa!
Ecco un esempio di persone solide concrete essenziali e quindi Signori Alpinisti a tutto tondo….mia bale..come direbbero i Trelilu