Quel che resta di un culo – 2 (2-2)
(in continuazione da https://gognablog.sherpa-gate.com/quel-che-resta-di-un-culo-1/)
16 luglio
Anche oggi è una bella giornata e ci avviamo verso Focsani e Onesti per attraversare la catena dei Carpazi Orientali. Dopo un’ottima colazione in un bar ancora vicino a Galati, proseguiamo il nostro viaggio con la variante che abbiamo convinto Guya a mettersi al volante. La sua guida è impeccabile, ma lei si schermisce dicendo che non siamo in terreno di montagna con tante curve. I giorni seguenti guiderà ancora, anche se solo in pianura.
In attesa delle montagne, diamo il via a un nuovo gioco, che consiste nello scegliere a turno una canzone o un pezzo musicale di nostra preferenza e proporlo dunque all’ascolto di tutti. Tecnicamente ormai abbiamo a disposizione internet illimitato, dunque possiamo usare Apple Music, una specie di youtube musicale, una gigantesca, direi universale, raccolta di titoli. Scelto il brano, lo si digita nello smartphone che è collegato via bluetooth all’apparecchio JBL Xtreme che io stesso avevo regalato a Elena per il suo compleanno. Una riproduzione perfetta. L’uso continuato di questo giocattolo provoca la necessità della ricarica, che può essere praticata solo con il voltaggio di una rete fissa, mendicato dal sorriso di Elena ogni volta che si entra in un ristorante.
Rimpiangeremo di non aver tenuto traccia di una playlist che è stata entusiasmante per più giorni, ricca di idee e chicche. Per dare un’idea delle scelte (quelle che ricordo a caso): Computer Incantations for World Peace, di Jean-Luc Ponty; Mi sono rotto il cazzo, de Lo Stato Sociale; Silhouettes I, II and III, di Floating Points; Ederlezi, di Goran Bregović; Hoka Hey, di Davide Van De Sfroos; Crazy On You, di Heart; Haberin Var Mi (instrumental version), di Fikret Kizilok; Truth, di Kamasi Washington; Une belle histoire, di Michel Fugain; Maggot brain, dei Phunkadelic; Se fossi Dio, di Giorgio Gaber; The Musical Box, dei Genesis; Ommadawn-Part I and II, di Mike Oldfield; Ricochet, dei Tangerine Dream; If, dei Pink Floyd. Il tutto intervallato da centinaia di altri pezzi di band e autori, con grande prevalenza di Fabrizio De André, Lucio Dalla, Lucio Battisti e Ivano Fossati. Per non parlare di quando ci troveremo nella inquietante Transilvania mentre echeggia Sweet transvestite di Rocky Horror Picture Show.
In assenza quasi totale di acqua, causa le taniche infette buttate via, siamo su una strada di montagna dove non c’è neanche una fontana. Superiamo il valico di Oituz 866 m e scendiamo a lungo prima di trovare una stradina laterale che ci porta accanto a un ruscello. Qui almeno potremo cucinare, mettere il vino bianco in fresco e lavarci un poco. Achille ed Elena vanno a fare un giro e capitano in una casa isolata, lui ha bisogno di ricaricare il computer e nota alcune prese elettriche funzionanti. Non sembra ci sia nessuno, perciò non esita ad attaccarsi con la sua spina. I due tornano da noi, ma incomincia a piovere, quindi di corsa risalgono alla casa per timore che il computer sia esposto. Lì fanno conoscenza con il proprietario, che parla un ottimo inglese. Un adorabile professore di fisica nella vicina cittadina di Sfântu George, fiero delle sue origini ungheresi, che volentieri conversa con i nostri, che gli chiedono lumi sulle diverse etnie, e anche su come siano visti i rom in Romania. Su quell’argomento è assai competente, e si spende a difesa della fierezza dei rom, anche se sa quanto questi siano malvisti altrove. Offre loro birre a volontà, nella sua bellissima e ordinata residenza, con tappeti fatti a mano. E’ lì per dei lavoretti di manutenzione, in una casa che d’inverno è sempre inaccessibile per la gran quantità di neve. Restano parecchio a chiacchierare, aspettando che smetta di piovere. Poi, quando possono uscire, mostra loro con orgoglio i cinque tipi di rose diverse che abbelliscono il suo giardino, dotato di panchine e di jacuzzi in legno, tutto fatto a mano da lui. Fa a tempo anche a dire che di orsi lì ce ne sono parecchi e che la convivenza non sempre è scevra da pericoli.
La nostra meta serale è la città di Braşov, dove arriviamo in un tripudio di sole quasi al tramonto. La cittadina è fascinosa, turistica ma con anima propria, e una sua architettura molto absburgica. Per certi versi sembra di essere in Austria, ma c’è sempre qualche particolare che ti ricorda che non è così. Non arriviamo in tempo per ascoltare il concerto di Bach che si tiene nella cattedrale, la Chiesa Nera (Biserica Neagră), orgogliosa di avere un mitico organo a 4000 canne. Gironzoliamo in una piacevole atmosfera, fino a fermarci in un bar con tavolini all’aperto in una stradina vicino a Piaţa Sfatului. Tra le quattro ordinazioni, la mia è la più fortunata: il miglior irish coffee da me mai degustato (in un panorama comprensivo di parecchi pub britannici…).
Parliamo di Fela Kuti, il grande musicista nigeriano che avevo visto due volte in concerto a Milano, e anche di Peter Tosh, del quale a nessuno dei quattro veniva in mente il nome.
Siccome “si è fatta una certa”, risaliamo sul furgone alla ricerca del solito posto per dormire. Il giorno dopo vogliamo andare a scalare sulla falesia Belvedere, che un sito internet dice essere bella e facilmente accessibile, una passeggiata anche per Guya. Sulla montagna rumena c’è parecchio da leggere, ma non abbiamo tempo di fare una visita approfondita per esempio alla catena dei Bucegi. Ci accontentiamo della falesia, tanto per sgranchirci un po’. Le indicazioni per raggiungerla sono assai vaghe e insufficienti, come realizziamo quando siamo nei paraggi del villaggio di Pârâul Rece, in un inspiegabile traffico notturno di camion. Facciamo avanti e indietro, con complicate e pericolose inversioni a U, alla ricerca di un cartello che ci sembra sia stato rimosso. Quando lo troviamo, semioccultato dalle piante di un bosco fitto, decidiamo che comunque lì non possiamo fermarci. Torniamo a Pârâul Rece, e alla fine, sfiniti, ci risolviamo a pernottare su terreno privato, nel cortile di una casa per nulla disabitata. Ma nessuno ci disturba.
17 luglio
La mattina seguente cerchiamo di eseguire al più presto le operazioni prima della partenza, ma non riusciamo a evitare che una signora si affacci da un cancello e ci saluti sorridendo e chiedendo se abbiamo bisogno di qualcosa. Noi a gesti facciamo capire che stiamo per togliere il disturbo: e quella invece insiste per offrirci il caffè…
– Sarebbe bello approfittarne – scherza Guya sottovoce – magari è la volta che usiamo anche i servizi, altro che caffè!
Ritorniamo al famoso cartello e ci avviamo a piedi su per una strada forestale. Quando arriviamo in posizione più aperta non troviamo la costruzione che dovrebbe esserci: al suo posto ci sono degli operai che lavorano e che ci indicano dove si arrampica. Ad ogni modo la ricerca del sito non è per nulla facile, Achille va avanti seguendo una specie di tratturo per tornare scuotendo la testa. Noi lo abbiamo aspettato fotografando le ranocchie che nuotano in pozze di acqua fangosa. Alla fine riusciamo a interpretare nel modo giusto il testo e ci troviamo sotto a un bel muro di calcare con molti spit infissi. Siamo in un normale bosco, ma sembra di essere chissà dove.
Qui si ripete la stessa storia vissuta in Georgia, gradi dati a caso su vie assai dubbie. Saliamo una fessura centrale e una a sinistra, e già qui prendiamo delle “buone paghe”: Achille poi s’impegna su un osso veramente duro che improvvisamente diventa malprotetto, mentre Elena demoralizzata si stende l’amaca tra due grossi faggi. Dopo un po’ arrivano dei local, con bambini al seguito. Più o meno arrampicano tutti, ma il livello è peggio del nostro. Decidiamo che “di schiaffi dalla roccia ne abbiamo presi abbastanza (Achille)”, quindi è giunta l’ora di andarcene anche dal Belvedere, per fare un turismo più normale.
Raggiunta la strada per Piteşti ci troviamo in mezzo a una coda di auto e camion dovuta a dei lavori. Un gruppetto di ragazzini ci vende due simpatici cestelli di legno, dove un letto di foglie fa da base ai lamponi. Ma la coda è proprio lenta, così decidiamo di fermarci in aperta campagna vicino a un gregge di pecore e fare siesta in attesa che il grosso del traffico defluisca. Ci prepariamo qualcosa da mangiare, accorgendoci subito che i cestelli non sono pieni di lamponi bensì solo di foglie pressate con solo uno strato di lamponi sopra! Ci consoliamo convincendoci che in realtà l’acquisto valeva la pena già solo per i cestelli (che in effetti porteremo a casa…).
Sorridendo alla fregatura che ci hanno dato quei bricconi, ci godiamo il sole e il silenzio di questo luogo incantevole, mentre il nostro pannellino solare si ricarica. Guya tenta un avvicinamento al gregge, ma viene respinta da un grosso cane minaccioso di cui solo lei può non avere paura. E’ molto più tardi che ci risolviamo a partire: così tardi che ormai le visite al castello di Dracula (Castelul Bran) sono chiuse ed è inutile che corriamo. Giunti a Bran infatti ci godiamo la giornata post-assalto-di-massa, quando gli operatori chiudono i baracchini e tutto si acquieta. Il castello con questa luce è davvero sinistro, e sembra che i suoi spalti non aspettino altro che l’oscurità per attivare un film dell’orrore. Attraversiamo il bosco che circonda il castello, così potente da calarci in una dimensione da brivido leggendario. Ma alla fine troviamo una buona accoglienza in uno dei ristorantini turistici.
Poi ripartiamo nella notte e, al tempo martellante di Se fossi Dio, troviamo un buon posto per dormire sulla strada secondaria per Sirnea.
18 luglio
In salita fino al Passo di Bran 1245 m. Ora siamo proprio in montagna: nulla a che vedere con Alpi e Appennini. Questi Carpazi hanno una personalità autonoma che non accetta paragoni. La discesa verso Piteşti (che è poi sulla strada per Bucarest) è lunga ed estremamente panoramica. Se guardate la carta geografica, vedrete che stiamo attraversando i Carpazi Meridionali da nord a sud per poi riattraversarli da sud a nord sulla famosa Transfăgărăşan, una delle mete da non perdere dell’intera Romania. Mentre scendiamo verso le piane del Danubio notiamo un gruppo di mucche che pascola proprio sotto di noi. Achille inchioda il mezzo e si precipita a prendere l’equipaggiamento fotografico spiegando concitato che non può perdere l’occasione, con quel genere di mucche pezzate e con me che casualmente indosso una t-shirt che a lettere cubitali riporta la scritta Pink Floyd, di “ricreare” la famosa copertina di Atom Heart Mother. Ci precipitiamo giù per il pascolo una trentina di metri e ha inizio un rodeo da non credere: io cerco di avvicinarmi alla mucca, ma questa non si lascia avvicinare; proviamo con un’altra ma è ugualmente difficile.
– Più vicino, Ale… più vicino!
Ma non c’è verso, queste mucche sono proprio dispettose… Ogni volta che accenno ad avvicinarmi loro si allontanano e costringono tra le imprecazioni soffocate il fotografo a modificare l’inquadratura e me a zampettare di qua e di là. Alla fine uno scatto è rimediato anche se non è esattamente ciò che aveva in testa l’ideatore. La scena è stata ripresa con l’i-phone di Guya ed è davvero comica.
A Campulung decidiamo di non scendere ulteriormente su Piteşti e di tagliare per una strada secondaria fino nei pressi di Curtea de Argeş. Da lì cominciamo a risalire la valle del torrente Argeş che gradualmente diventa sempre più incassata e selvaggia. Nei pressi di Corbeni notiamo a lato strada un assembramento di auto e di gente: non ci sfiora neppure il sospetto che stiano guardando… una mamma orsa con due cuccioli che attraversa un prato sottostante! Dimentichiamo ogni regola di prudenza e tutti e quattro pian piano scendiamo al prato, dove l’orsa sta rovistando in un cassonetto della spazzatura. E’ buffo come entra dentro con quell’enorme culo, scomparendo. Intanto i cuccioli si agitano nei pressi. Poi uno dei due in qualche modo si arrampica e riesce a entrare pure lui; quindi è uno spassosissimo entra ed esci. Noi siamo ormai a una decina di metri, rispettosi, silenziosi. Un cane di taglia assai modesta abbaia fastidiosamente lì vicino.
Certo, non siamo in una foresta dell’Alaska. Non stiamo assistendo a come l’orso caccia il salmone o altra preda. Siamo in una valle europea, in una zona attrezzata a picnic. E la famiglia di orsi sta frugando nella spazzatura. Ma l’incontro con questi animali è un’emozione forte, non tanto per il timore che ne abbiamo quanto per la splendida espressione di forza selvaggia e di goffa grazia che loro producono in chi li osserva con amore.
Finito di frugare nel cassonetto, l’orsa, seguita dai due piccoli, si allontana. Noi ci fermiamo a fare picnic proprio lì: pensiamo “magari ne vediamo un altro…”.
La strada ora si arrampica decisamente su un terreno roccioso, scosceso, con qualche galleria. Qui è anche la Cittadella di Poienari con il vero castello di Dracula, quello dove regnò Vlad Ţepeş.
Si traversa la diga (alta 168 metri) del bacino artificiale di Vidraru, poi costeggiamo il lago tra mille curve al suono di New Golden Age dei Simple Mind; ora la montagna diventa decisamente alpina, la vegetazione termina: siamo nel pieno della Transfăgărăşan. Quando fu costruita negli anni Settanta, questa strada fu derisa come uno dei tanti progetti megalomani di Nicolae Ceaușescu. Quattro anni e mezzo di lavori, 38 soldati morti, 60.000 quintali di dinamite per far saltare 3,8 milioni di metri cubi di roccia. Già in alto facciamo sosta poco dopo una bancarella dove Achille acquista un salame di cervo (che rifiuto di assaggiare). In cima alla valle sembra che non ci sia alcun passaggio possibile: e infatti lasciamo questa stralunata Valacchia e passiamo dall’altra parte (in Transilvania) grazie a una galleria di quasi un chilometro a una quota di circa 2100 m. L’altro versante è purtroppo invaso dalle nubi, non ci fermiamo neppure al tanto decantato specchio d’acqua glaciale del Bâlea Lac 2034 m, invaso dai turisti, giunti fin qui o in auto o con la funivia che parte dalla cascadă. Raggiungiamo questa scendendo per gran numero di tornanti, recuperiamo il sole, facciamo acqua a una fonte e alla fine siamo inghiottiti da altri tornanti nella foresta che ci portano alla valle del fiume Olt.
Ed è sempre nella pura luce di fine pomeriggio che c’inoltriamo nelle stradine stupende di Sibiu, alla ricerca delle più belle atmosfere in questa cittadina i tetti della quale sembrano, con i loro abbaini, altrettanti occhi. Troviamo anche, in un suggestivo cortile interno di Strada Mitropoliei, un ottimo ristorante, lo Jules Bistro.
La notte ci fermiamo nei pressi del giardino zoologico, meta peraltro di molti giovani del posto, si vede che è un buon luogo per farsi le canne in pace.
– Ho i capelli che sembrano una padella d’olio – conclude la serata Guya.
19 luglio
Al mattino, mentre un furgone di un’antipatica coppia svizzero-grigionese lascia quel luogo senza neppure un cenno di saluto, vediamo Guya che si allontana fino a diventare un puntino alla ricerca di un luogo solitario. Aveva messo in pratica, per favorire l’evacuazione, il consiglio di bere acqua come un cammello il giorno prima.
La giornata è di trasferimento, vogliamo chiudere in bellezza con la visita a Cluj-Napoca, la cittadina studentesca, a sentire la guida di lonely planet ricca di cultura e fermento giovane, cuore pulsante di eventi musicali. Verso le 10 di mattina approdiamo a un’altra meta turistica, Alba Julia, dove visitiamo il complesso della Cittadella Alba Carolina senza peraltro trarne grande soddisfazione. Indubbiamente interessante per le informazioni storiche sulle varie epoche della Romania, durante la tortura termica delle ore più calde della giornata ci rendiamo conto di non essere il tipo di turisti giusti per queste cose. Mancato un turistico e banale cambio della guardia in costume, troviamo un attimo di relax accanto a una chiesetta di legno molto appartata in un orto con mele e pollaio. Dopo un lunch accanto alle vecchie mura, ripartiamo per Cluj-Napoca dove arriviamo a metà pomeriggio. Memorabile la passeggiata nel bellissimo centro storico dove Achille viene fermato da un fotografo con un cappello a mezzo cilindro che gli chiede se può ritrarlo, per un reportage a soggetto “gente per strada”. Achille si presta volentieri, salvo poi essere un po’ deluso quando questo gli mostra il suo profilo instagram con ritratti secondo il nostro orribili, perché sature e troppo contrastate. Ridendo sguaiatamente di questo episodio, e vagheggiando che quello era un casting per una sua prossima scrittura porno, finiamo da Humana Second Hand a curiosare tra vestiti di ogni genere usati, a volte vintage, e a prezzo stracciato. Siamo vicini al corso d’acqua del Canalul Someşul Mic. Elena compra un vestitino a fiori, Guya una camicetta azzurra e una violetta. Interrogato se ho visto qualcosa per me, rispondo che io vesto solo Armani…
– Tu Armani? Ah ah ah – sghignazza Guya – tu sei più un tipo da Dolce&Gabbana…
– Quei due lì, io? Guarda, a me piace solo Mango, un brand catalano…
– ???
– Sentite, qui ci siamo stati abbastanza. Adesso fatemi bere.
Camminando Elena, che eccezionalmente si è messa del rossetto sulle labbra, ricerca in affanno un qualche evento cultural-musicale per la serata, ma sembra che sia tutto fermo a causa dell’importante Electric Castle Festival che si sta svolgendo a Bonţida, a una trentina di km da qui. Ci sono grossi nomi della musica progressive, tipo i Nightmares on Wax, che Guya ed io mai abbiamo sentito nominare ma che gasano Elena e soprattutto Achille. Però decidiamo di non andare dopo aver visto il costo dei biglietti, decisamente alto. C’intriga uno spettacolo, tipo wine & music, previsto per le 21, in Strada Memorandumului. Nell’attesa, visitiamo vari locali, indecisi se fare solo aperitivo o mangiare anche qualcosa, scegliendo tra il futurista Joben Bistro o l’affollatissimo Insomnia, ma anche altri. Alla fine scegliamo Enigma Café, in Strada Iuliu Maniu, famoso per le sue sculture cinetiche: un orologio gigante in movimento che dà l’impressione che si sia al suo interno, ruote piroettanti, fiori metallici che si aprono sul soffitto, un uccello in movimento e persino un robot che si rifà alle atmosfere dello svizzero Giger Bar.
Verso le 21 ci avviamo in Strada Memorandumului dove al preciso indirizzo di cui disponiamo corrisponde una banca ovviamente chiusa. La ricerca dura mezzora, tra citofoni sospetti e informazioni chieste ai passanti. Poi rinunciamo.
Un po’ indispettiti riguadagniamo l’ampia Piaţa Unirii dove mestamente ci sediamo con alle spalle un monumento. La decisione di Achille di andare a comprare una buona bottiglia di vino al bar di fronte ci risolleva dalla depressione: inoltre aspetteremo l’una di notte per andare a un rave party previsto in qualche bosco vicino alla città, ancora non si sa dove per questioni di permessi e di polizia. Le coordinate per poter trovare la location con gli smartphone saranno fornite all’ultimo momento. Intanto, sempre con in sospeso dove fare cena, sorseggiando il vino in bicchieri di plastica, ascoltiamo un musicista di strada che suona il suo enorme violoncello. Dire che ci piaccia molto, no. Non perché non sia bravo: è proprio il tipo di musica che non ci prende. Lui è di fronte a noi, a una decina di metri: fino a che, pago delle monete raccolte, si alza e si dirige da noi.
– Sento che siete italiani… mentre suonavo avevo giusto voglia di un bicchiere di vino. Me lo offrite?
– Ma certo – gli risponde Elena – e io posso farmi una sigaretta con il tuo tabacco?
Iniziamo una piacevole conversazione. Ci racconta che lui trascorre un bel po’ di mesi all’anno a Roma, a suonare per le strade. Quando Elena gli riassume il nostro viaggio, lui l’ascolta rapito. Poi veniamo ai problemi pratici, il rave party e soprattutto la cena. E’ un po’ tardi, ma lui conosce un posto dove possiamo ancora mangiare qualcosa. Si carica del suo violoncello, ben imballato, e ci avviamo. Dopo non molta strada ci infiliamo in un vicolo a galleria e sfociamo in un cortile pieno di gente: tutti abbastanza matti. Amico del violoncellista è un cuoco di dimensioni enormi che da solo occupa una cucina ridicola; poi i tavoli fitti, il vocio, la musica. Un indefinibile cameriere, che si occupa dei clienti in modo casuale e più che altro è indaffarato con una lampada che fa le bizze, ci sembra il factotum Riff Raff di Rocky Horror Picture Show. Con i nostri vicini scambiamo qualche battuta su Istanbul. Ci avventiamo sull’unica cosa rimasta, cinque porzioni di polenta e merluzzo. Siamo esattamente dove volevamo essere, nel posto giusto. E nel frattempo Elena recupera le coordinate del rave party.
Più o meno è l’una di notte quando usciamo dal locale e quindi salutiamo il nostro amico musicista.
20 luglio e 21 luglio
Usciti dalla città, il raggiungimento del rave party non è difficile, anche se la location è molto isolata e sperduta in sinistri boschi collinosi. Posteggiamo molto vicino alla scena che si sta svolgendo, quasi ci vergogniamo della nostra impudenza: una ventina di ragazzi si agitano al suono di una musica ipnotica in un buio appena rischiarato da un faretto e da un grande fuoco circondato da un’altra ventina di giovani seduti sull’erba. Il dj, nascosto all’interno di una specie di camper, produce questa musica hardcore a un volume forte ma non estremo. Qualcuno si dà il cambio, in piena trance, per dondolarsi sui piedi con l’orecchio incollato a una delle due gigantesche casse. Ci agitiamo un poco anche noi assieme agli altri, poi ci si divide: Achille va a fotografare il dj, Elena si siede accanto a una ragazza per socializzare vicino al fuoco, Guya ed io rallentiamo per osservare con maggiore distacco ciò che sta avvenendo. Elena torna da noi per riferirci una grande notizia: parlando con la ragazza, questa le ha riferito di una vecchia storia di quel posto: pare che in un tempo imprecisato vi sia stata ritrovata una bambina, prima rapita e poi uccisa. Il suo spirito ancora aleggia in quel luogo, anzi è proprio per quel motivo che gli organizzatori hanno deciso di fare il party proprio lì. Al che Guya impallidisce, decide che il suo rave è finito e va a continuare le sue osservazioni da “giornalista”, ma ben asserragliata all’interno di Cielo, senza volerne uscire più. Invece Elena ed io ritorniamo nella mischia dopo un’altra golata di vino.
Dopo un ultimo ballo scatenato cui, rimangiandosi le sue decisioni, partecipa anche Guya, sudati e paghi decidiamo di abbandonare la festa e di andare a dormire, anche perché sappiamo che il viaggio di ritorno comincerà domani e sarà una tirata unica fino a Milano. Dopo pochi chilometri, ancora nei boschi, troviamo una deviazione che ci porta in una radura, bellissima al chiaro di luna. Trovata la posizione orizzontale, nell’euforia mettiamo su la nostra musica, precisamente Kalashnikov di Goran Bregović, e balliamo tutti e quattro come scimmie indemoniate. Più o meno alle 3.30 crolliamo nei nostri giacigli.
Di mattino presto ci alziamo, accorgendoci di quanto bello sia questo luogo e realizzando quanto magico sia questo momento. Guya è radiosa perché ha fatto finalmente amicizia con quelli che per lei erano standard igienici nuovi e non amichevoli: le dispiace perfino che domani tutto sarà finito.
– Avevo proprio trovato un bel posticino… – conclude.
Ci dirigiamo verso Oradea e il confine con l’Ungheria. Ancora parliamo della notte precedente, tutti d’accordo a dire che è stata la nostra festa finale, un momento “libero”, dove, in mezzo a gente che sta per i cavoli propri, “trovi sempre qualcuno più fuori di te (Achille)”. Sapevamo che quell’incontro era momentaneo, che c’era comunque l’ostacolo della lingua e di una musica che certamente ci è estranea: eppure siamo riusciti a stare bene in quella dimensione non nostra. Abbiamo avuto la consacrazione della giornata, senza approvare né riprovare ciò che il mondo giovane ci stava dando.
– Certo, giovane, giovane mi sentivo… e non volevo morire come quella bambina! – scherza Guya.
– Sta tranquilla, che a te nessuno ti scambia per una bambina…
In un’area di servizio c’è l’episodio di un cane affamato che Guya ed Elena provano a uccidere dandogli etti di pane che gli si gonfieranno nello stomaco.
Poi da qualche parte, più o meno a metà strada, ci accorgiamo che sulla destra c’è molto movimento di persone. Capiamo subito che c’è una festa zingara, decidiamo di fermarci, con qualche esitazione per il dover lasciare incustodito il furgone. La fauna umana è fantastica, oltre una certa giovane età sono tutti enormi, uomini e donne. I maschi esibiscono con fierezza la propria pancia tirandosi su la maglietta o la canottiera, che così arrotolate di certo non riescono più a scendere. Sembra di essere in un film misto tra il surreale di Tim Burton e il grottesco di Emir Kusturica.
Ci sono tante roulotte, molti cavalli. La gente è disposta ai lati di un nastro terroso lungo 70-80 metri e largo 20, in fondo al quale campeggiano un trattore e un tronco d’albero colossale. Dall’altra parte invece è un palco con un’orchestra, dove si alternano a cantare un uomo e una ragazza. Sul lato est del tutto c’è una serie di tre o quattro baracchini che vendono salsicce d’ogni genere in piatti di plastica.
Dopo sommaria indagine capiamo che saranno i cavalli i protagonisti di questa kermesse. Sono tutti da tiro, selezionati per questo gioco che consiste nel far tirare alla povera bestia il tronco gigantesco da dove è fino a dove ce la fa prima di schiantare, in direzione del palco musicale, mentre il trattore serve a riportare il carico alla partenza per il successivo concorrente equino.
Il lavoro fotografico di Achille è complicato: ci sono pochissimi individui fieri del loro essere, la maggior parte sono schivi, quasi “loschi”. Le donne hanno un’attitudine al comando notevole, s’impongono aggressive e decise in ogni discussione (disputa, scommesse, vendita cavalli) ed è per colpa loro che il servizio fotografico non va per il verso giusto.
– Quando ho fatto a una di loro una foto in più, quella si è incazzata davvero… e io mi sono spaventato… con quei denti d’oro, sputacchi per terra e mani che mi spingevano via! – ci racconterà.
C’è un caldo feroce, noi non possiamo neppure bere qualcosa perché dobbiamo guidare: dopo un’ora e mezza di attesa ce ne andiamo, perdendo così lo spettacolo, anche l’inizio.
Non c’è molta storia, d’ora in poi. Passata Debrecen ed evitata Budapest, ci concediamo un po’ di relax nei pressi di Siofók, sulle rive del gigantesco lago Balaton. Altro bagno di Elena e Achille. Poi, dopo la birra di aperitivo e la cena in furgone, guidiamo tutta la notte fino a ritrovarci, dopo aver traversato un po’ di Slovenia, in un autogrill vicino a Trieste. Non senza comunque un bel andirivieni di una ventina di km in più, visto che a un certo punto, a Lubiana ho preso l’autostrada per Zagabria invece che per l’Italia.
Quando Elena e Achille prendono in comando, sbagliano il bivio di Palmanova, forse per cattiva segnalazione di una coda in atto. Se ne accorgono e ne parlano a bassa voce per non svegliarci, ma anche per nascondermelo. Invece io con la coda dell’occhio vedo che c’è qualcosa che non va.
– Belin, qui siamo sull’autostrada per Tarvisio. Per conferma ci fermiamo a un autogrill, dove anche altri capiscono di aver sbagliato:
– Come, cazzo, ma noi dobbiamo andare Milano – esplode un milanese con accento tipico che si proclama anche lui ingannato dalla segnaletica.
– Non siete i primi – dice la barista – dev’esserci qualcosa di sbagliato nei cartelli a Palmanova.
Dopo aver spiegato a una che viene dalla Bosnia come recuperare la sua strada per Verona, dobbiamo tutti continuare fino a Udine prima di poter tornare indietro. Ma a quel punto decidiamo di tagliare per Latisana su strada statale, salvo accorgersi che lì non si poteva recuperare l’autostrada per Venezia. Con un po’ di imprecazioni possiamo guadagnarla solo a Portogruaro!
Ma è solo l’ultimo ostacolo alla nostra marcia trionfale su Milano, dove arriviamo alle tre del pomeriggio sfatti per la calura. Ed è qui, davanti a casa nostra, che Guya pronuncia, massaggiandosi le natiche, la frase storica: “ecco quel che resta di un culo”, riferendosi ai 15 giorni d’inattività passati in macchina, ma soprattutto al mangiare e al bere cui non ha saputo rinunciare.
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Un”diario di spedizione” divertente, ironico quanto basta, di chi ha ben radicato lo spirito di avventura. Con sorpresa finale della dichiarazione della seria Signora Gogna. Complimenti !
Grandioso giro! Ho sempre considerato le avventure on the road come le più complete e appaganti, ti danno modo di rapportati con i soci e gli stranieri che incontri, ti consentono o ti obbligano a calarti in situazioni inusuali, curiose, critiche, e di solito ci regalano i ricordi più piacevoli.
Bel racconto!! Facile capire, nella serata musicale, chi ha proposto “The Musical Box” dei Genesis e simili 😉
Bello per il rapporto padre-figlia.