Ricordando Gian Piero Motti, un principe dell’alpinismo (RE 023)
di Emanuele Cassarà
(da Tuttosport, 9 luglio 1983)
Gian Piero Motti era nato alpinisticamente in via Barbaroux, antica e storica sede del CAI a Torino, depositarla inflessibile della tradizione culturale dell’alpinismo. La rivista del Club Alpino fu orgogliosamente gestita fino a pochi anni fa dai torinesi… Torino più di altri centri italiani resistette prima e con riluttanza si adeguò poi al concetto dell’alpinismo anche come sport.
Gian Piero Motti fu allievo e istruttore della rigorosa scuola Gervasutti e di Gervasutti fu da molti ritenuto un naturale continuatore filosofico: l’alpinismo come fatto esistenziale senza altre alternative di vita quotidiana, un po’ viaggio, anzi, fuga.
Per tentare di capire bisogna rifarsi a quell’atmosfera di idealismo sconfinante nell’irrazionale, di onori dovuti agli eletti, persine di superbia.
Prevalentemente praticato da ambienti sociali ben definiti e ristretti, l’alpinismo tuttavia rapidamente si massificava, richiamando giovani di ogni estrazione sociale. Ma via Barbaroux conservava il proprio stile elitario.
Motti, dotato di cultura e di intelligenza speciali, approfondì, studiò (curò l’Enciclopedia per la De Agostini), si aggiornò con le pubblicazioni inglesi, e francesi, e poi statunitensi. Scrisse molto e accompagnò la ricerca con la pratica sulle rocce, sulle quali eccelse per doti naturali sino a diventare il “principe”. Visse una breve stagione di grande alpinismo (la Walker, la Noire, la prima solitaria del Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul, le Dolomiti); poi 12 anni fa colse lucidamente il mutamento e rilevò la gioiosità dell’alpinismo francese, contrapposto alla caparbietà austro-tedesca. Introdusse in Italia il concetto dell’arrampicata senza la vetta quale “totem” e senza conquista a tutti i costi e a qualunque prezzo. Ci illuminò tutti, ci aiutò a capire.
Ma intanto gli anni passavano… Il nuovo movimento avanzava. Giampiero, quasi d’improvviso, si arrestò nelle sue analisi, preoccupato che la “sportività” eccedesse e distruggesse le basi stesse della Storia delle Montagne e dei suoi protagonisti. Si caricò deliberatamente delle contraddizioni e delle trappole (reali) di questo periodo di transizione; si allarmò per la minaccia di imbarbarimento, temette la banalizzazione dell’allenamento specifico. L’ultimo Scandere, annuario del CAI di via Barbaroux, si apre troppo timidamente alla realistica interpretazione del nuovo alpinismo, tollerante e umanissi-mo gioco sportivo col rischio controllato.
Motti vi scrive un articolo accigliato: lui che aveva anticipato il primato della gioia delle rocce sui riti sacrificali, non riesce più a scherzarci, ritorna alle origini, alla ricerca angosciata dei “perché”, così allontanandosi nuovamente dalle sue stesse meravigliose scoperte e dunque nuovamente rifacendosi alla ineluttabile presenza della Morte, al valore prevalente del rischio, il quale, come i giovani ormai sanno, è soltanto un valore egoistico. Giampiero rimane imprigionato nell’alpinismo romanticamente inteso, cioè drammatico, cioè pessimista.
Motti è scomparso vittima della propria autodistruzione lunedì 20 giugno, a 37 anni. La tragedia di questo giovane uomo si sarebbe nobilitata se si fosse consumata sulle rocce? Non c’è in qualche modo un nesso “alpinistico” con la scomparsa dei Ribaldone e dei Comino, dei Lomasti e dei Cozzolino?
C’è da domandarsi, tristemente e criticamente, se abbiamo tutti fatto il possibile per aiutarlo – e Dio sa quanto fosse difficile dialogare davvero con Gian Piero – soprattutto chi l’aveva eletto a voce indiscussa e ufficiale e, oggi, “non si meraviglia” – magari per ripagarlo degli stimoli culturali che per anni ci aveva offerto.
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Un grande ideologo che ha accompagnato la nostra crescita di alpinisti ma soprattutto di uomini pur nelle sue contraddizioni…ma d altronde tutto in questa vita é contraddizione basta gestirla e/o accettarla cercando di mantenere i propri ideali.
Tutte le volte che leggo, scritti, di Giampiero Motti o che lo riguardano, non posso che provare gratitudine e malinconia nei confronti di quest’uomo, personaggio che sicuramente ha permesso alle generazioni future di cogliere un’eredità di consapevolezze che altrimenti sarebbero rimaste sopite chissà per quanto tempo ancora. Esattamente la stessa sensazione la provo nei confronti di Alessandro Gogna testimone, al di là della contemporaneità, di emozioni rivelate in tanti dei suoi libri e scritti che i giovani potranno cogliere, se vorranno in un futuro sempre più esigente e spettacolarizzato…in questo contesto, momenti come il – Nuovo Mattino – hanno assunto una valenza storica proprio per il modo con cui si sono propagati, e soprattutto per gli attori di quei momenti, giovani e meno giovani alpinisti appassionati e caparbi. Un manipolo di guerrieri che combatteva la battaglia della propria esistenza, aggrappati a nuove strutture rocciose seminascoste o davanti agli occhi di tutti, ma comunque trascurate e che avevano come obbiettivo primario la capacità di giocare, di sentire sia le proprie debolezze così come con le proprie capacità, escludendo tutta la prosopopea sulla lotta con l’alpe o la conquista della vetta o della parete. A loro valorosi guerrieri del mucchio selvaggio che riuscivano ad interrogarsi anche sulla loro esistenza e sulle loro ambizioni va il mio ringraziamento.
Storie di quando il Cai era ancora un Club e non un’associazione parrocchiale.
Con tutto il rispetto per le associazioni parrocchiali.