Albino Strobel Michielli, lo Scoiattolo
di Piero Rossi
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, gennaio 1965
Sono i primi giorni di marzo. Il tempo è incerto e sulle Dolomiti, in alto, alberga ancora la neve. Incontro Strobel, col suo passo ciondolante e l’espressione mezzo assonnata. Quando mi vede, il suo volto si apre al sorriso: «Oh! Ciao! Astu visto Strobel?». E’ un suo tipico scherzo, che tira fuori quando la va «così». Certo che ti vedo, Strobel! Come vanno le tue cure, i tuoi malanni? Fai giudizio, mi raccomando!
«Come va la neve lassù, Strobel? Si possono fare le Torri di Falzarego?». Strobel smette di guardare un punto fisso davanti a sé e diviene loquace: «Vieni su domenica, se non mi capita qualche cliente, andiamo a fare assieme lo spigolo della Torre Piccola!» «D’accordo, Strobel, a domenica!».
Quella domenica piovve e poi avevo una cosa più importante cui pensare: era nato il mio maschietto! Ma certo, alle Torri di Falzarego ci dovevo proprio andare, con Strobel, se non altro per il piacere di fare una salita con lui, il mio migliore amico di croda…
La Torre Piccola di Falzarego: una bella punta, dalle linee ardite, la roccia sana. Ma niente più di un «paracarro», a due passi dalla strada, la tipica salita primaverile di allenamento.
Neanche tanto difficile, se si evita l’«attacco Comici». C’è quel passaggio, a dire il vero, proprio per prendere il filo dello spigolo. Niente di speciale, d’accordo, ma un po’ delicato; ecco tutto.
19 aprile 1964. Con un gruppo di amici ampezzani, fra cui suo fratello, Strobel sale alla Torre di Falzarego, «tanto per sgranchirsi». Scherzano amichevolmente e Strobel si destreggia fra gli immancabili frizzi. Una cordata è già alta, una seconda sta salendo. Strobel conosce ogni centimetro di quella Torre, dove è salito innumerevoli volte e ha anche aperto una «direttissima». Andiamo a raggiungere gli amici in vetta e a fare una cantata assieme! Strobel sale veloce slegato, incontra la seconda cordata, la sorpassa. Ecco il passaggino delicato; si tratta solo di una piccola elevazione, basta far forza sul braccio.
Una cornacchia cade, frullando, verso la Val Costeana. Strobel allunga il braccio; il braccio, che una progressiva intossicazione ha reso infermo. No, il suo braccio non lo può tradire; la sua croda non lo può tradire. Strobel vive solo per la sua montagna; la montagna non lo può tradire, proprio ora, su questo stupido passaggio, forse nemmeno di quarto grado, che lui sa a memoria.
Eppure, impietosamente, la mano si irrigidisce, il braccio si paralizza… Non è la croda che lo tradisce: essa è sempre sana, leale, salda; Strobel sente che ciò che lo tradisce è in lui. Forse è di questo che ha coscienza in quell’istante e sente che è la fine: «Il braccio non tiene!» dice, con un grido, che è più un gemito, un rantolo.
Gli amici, di sotto, alzano lo sguardo. Sono come pietrificati, impotenti. Un grande silenzio scende sulla Torre. Strobel è ancora appeso, con il corpo inarcato, quasi contemplando stupito ed incredulo quella mano che lo tradisce, la sua mano, che ha mille volte artigliato la croda, sicura come se fosse d’acciaio.
Questo provano i giovani, di fronte alla morte repentina: non dolore, non angoscia, solo stupore, come se fosse sovvertita una legge naturale, che li vuole ricolmi di vita. Per questo, tanto spesso, muoiono con un sorriso, come se fosse un brutto scherzo, una cosa non vera.
La mano ha ceduto. Il corpo di Strobel passa frullando nell’aria; istanti interminabili, eterni; poi un tonfo, come se un sacco di stracci si fosse afflosciato laggiù, al piede della Torre.
Così è morto Strobel, lo «Scoiattolo».
Era nato a Cortina d’Ampezzo, trentasei anni fa. Si chiamava Albino Michielli, ma gli avevano affibiato il nomignolo di famiglia e tutti, ormai, lo chiamavano «Strobel».
Tutti volevano bene a Strobel. Magari lo prendevano in giro, lo facevano arrabbiare, lo canzonavano, quando aveva bevuto un bicchiere di troppo, perché sapevano che non avrebbe mai alzato quelle mani di acciaio, due enormi spatole da carbone, quei due artigli da orso, perché Strobel era mite e buono. Ma tutti gli volevano bene.
E chi poteva non voler bene a Strobel? Era l’amico di tutti, sempre allegro, pronto allo scherzo, generoso, con certe sue battute inimitabili, che sparava fuori all’improvviso, condendole con una certa sua franca risata.
A trovare Strobel dopo una serata «allegra», taciturno e farfugliante certe sue indecifrabili tiritere, con lo sguardo un po’ velato, c’era, forse, da considerarlo un povero diavolo. Le sue mani: quando era conciato male, Strobel si guardava le mani, se le stringeva, come per provare se erano sempre forti. Quelle mani…
Forse qualcuno dirà: questo di Strobel non lo dovevi dire, non dovevi scrivere che beveva. Perché? Perché deformare e annegare nella retorica il suo ricordo? Se non fosse per questo, dovrei dire che Strobel era un angelo, un santo (e forse lo era). Ma, dicendo così, lo immeschinirei. Penso a un altro grande della montagna, anzi ad una figura entrata nella leggenda, un Uomo così ricco di mente, di cuore, di umana energia: l’Abbé Gorret, che aveva anche lui quella umana debolezza.
Tanti uomini, dal cuore nobile, forse perché schiacciati da sogni irraggiungibili di cose belle e grandi, così contrastanti con i vincoli e le miserie di questa terra, hanno trovato rifugi artificiosi.
Strobel non era insigne, non era illustre, era un umile e un povero, ma aveva una sua grandezza, che lo elevava ben più in su di tante mediocrità additate ad esempio. Forse, egli non era grande per le sue scalate, per le imprese alpinistiche, forse tutto ciò è trascurabile e caduco. Ma, sulla sua fredda pietra tombale, dovrebbe esser scritto dei quasi cinquanta salvataggi, compiuti spesso in condizioni impossibili; delle decine di vite umane salvate e delle povere salme recuperate, per consentire ai loro cari l’ultimo saluto e l’ultimo pianto. Certo, in questi salvataggi Strobel non era solo, ma c’era in lui uno slancio, una prontezza, una incondizionata rispondenza all’appello della solidarietà alpina e umana, che non possono non dare, alla sua figura, nobiltà e grandezza.
Per il resto, Strobel non ha mai fatto alcun male, ha sempre amato la sua montagna, trovandovi rifugio per le delusioni e le amarezze, che non gli sono mancate nella vita quotidiana. Era un professionista, viveva in un centro dove anche l’alpinismo ha una funzione pubblicitaria, aveva partecipato a film, era stato protagonista di ascensioni acclamate e ammirate da vere e proprie platee, aveva vissuto tutte le fasi più estreme dell’arrampicamento contemporaneo, era apparso sui rotocalchi. Tutto ciò era più che sufficiente per montarsi la testa, magari per corrompersi.
Eppure, Strobel era rimasto un semplice e – se il termine non fosse abusato fino alla nausea – un «puro», il più puro fra gli alpinisti che ho conosciuto.
«Strobel – gli dicevo – devi metter su famiglia. Ciò ti aggiusterà tante cose!». Allora lo vedevo diventar serio e rispondermi, con insolita gravità: «Lo so, Piero, hai ragione, ma come faccio? Se mi sposo debbo rinunciare alle “mie” montagne!». Ma, quando parlavo di queste cose, nel suo sguardo leggevo una ombra di amarezza, come il rimpianto di un sogno troppo bello, sfumato. Troppo buono e timido, ecco cos’era Strobel. E la sua esuberanza, a volte, celava proprio la timidezza.
Il discorso della famiglia lo faceva soffrire, lo capivo. Preferiva tornar a parlare delle sue montagne: «Sai, comincio ad esser stanco di andar su per le “bestialità”. Ma cosa vuoi, quando è il momento non so resistere e parto. Ma è dura, sai, ore ed ore in parete, a batter chiodi». Quando mi diceva così, lo vedevo stringere i denti e le mani, quelle forti mani, come per contenere tutta una lotta, una sofferenza interiore, fatta di amore, di giovinezza e di debolezza umana.
«Ma forse la pianterò con le “bestialità”. Continuerò a far la guida e ad andare in montagna, sulle vie classiche, per divertimento mio, ma senza bestialità».
«Ecco, Strobel, vedi – gli dicevo io – hai ragione. Ci sono tanti che si sposano e vanno in montagna. Puoi farlo anche tu. Le due cose si possono conciliare!».
Forse era proprio questo che voleva dire, ma, ormai, non mi ascoltava più e il suo tormento lo sopraffaceva di nuovo: «L’Eiger: una bestialità di montagna! E poi, che tempo, pareva proprio “il Festival del Maltempo”! È una montagna che non mi piace l’Eiger. Però ci vorrei tornare; perché non si potrebbe organizzare una spedizione veneta? Forse questa estate…».
Strobel sembrava l’uccel di bosco, l’uomo senza pensieri, qualcosa di mezzo fra l’anarchico e lo svitato. E invece era un’anima sensibile, tormentata. Il suo tormento erano gli affetti mancati, le banalità della vita, la passione (mai termine è più appropriato), la passione per la montagna, la decadenza di quelle sue forze fisiche, un tempo di leggendaria potenza.
Strobel, in un mondo di furbi, era fuori del tempo. Alle volte, mi sembrava di rivedere in lui qualcuna di quelle vecchie, gloriose guide barbute dell’800 che dopo aver conquistato come aquile tutte le vette della loro valle, chiudevano la loro esistenza, sole e dimenticate, in un ospizio.
Qualche volta mi chiedevo: «E se anche Strobel finisse così, in un ospizio? Cosa sarà di lui, quando la montagna gli sarà negata?». Certo, mi rispondevo, non gli sarò meno amico per questo, ma come sarà penoso, per me, assistere alla sua decadenza e in quale abisso di infelicità sarà precipitato!
La morte ha risolto questo problema: Strobel è morto sulla sua montagna, con la mano sulla sua corda e attorno l’aria libera delle sue Tofane, mentre ancora risuona la storia – e un giorno diverrà leggenda – di Strobel, lo «Scoiattolo», l’umile figlio di Cortina, che fu grande, grandissimo, sulla montagna ed ebbe il cuore di antico cavaliere di ventura.
Non bestemmiamo il valore della vita umana, affermando che è stato meglio così; ma forse, talora, il destino è pietoso.
Strobel fu un grande, sommo alpinista. Egli portò valorosamente le insegne di quella Società «Scoiattoli» di Cortina d’Ampezzo, che, degna erede della più alta tradizione alpinistica delle Dolomiti, è, da varie generazioni, ai vertici dei valori, tanto dell’arrampicamento, che dell’eroica solidarietà umana con le vittime della montagna.
Onorare Strobel, vuol dire anche onorare gli «Scoiattoli» e l’alpinismo di Cortina in generale. Fin dai primordi, i cortinesi furono alpinisti, prima che guide, appassionati della montagna, prima che professionisti. Anche per Strobel, quella di guida era una manifestazione accessoria della sua attività. Tutte le sue massime ascensioni e gran parte delle altre, furono compiute per puro, appassionato amore della montagna.
La Società «Scoiattoli» e il corpo guide alpine di Cortina, anzi Cortina tutta, debbono molto a Strobel ed alle sue imprese e molto deve Strobel alla magistrale scuola dalla quale è uscito. Onore a entrambi!
Nato a Cortina il 4 novembre 1928, giovanissimo cominciò a conoscere tutte le cime della sua meravigliosa conca natia. Elencare tutte le sue ascensioni è impossibile. Sono centinaia, forse migliaia, di ogni grado di difficoltà.
Nel 1950, apre la sua prima via nuova, dedicando la Punta Armando del Pomagagnon ad un altro grande «Scoiattolo», morto giovanissimo, come il fratello, in un incidente stradale.
Nel 1951, con l’inseparabile amico Guido Lorenzi, una delle maggiori speranze dell’alpinismo italiano, anch’egli morto giovanissimo, per un incidente sul lavoro e con Beniamino Mescolìn Franceschi, apre un’elegante via di estrema difficoltà, sulla Cima Fanis di Mezzo.
All’inizio dell’inverno 1953, con vari compagni, fra cui Lino Lacedelli, il futuro conquistatore del K2, la seconda cima del mondo, sale la Croda Rossa d’Ampezzo e la parete sud della Tofana di Rozes. Al ritorno a questa impresa, si congela un piede. Qualche settimana più tardi, giunsi a notte a casa sua, dopo una paurosa caduta, ferito, febbricitante e con le mani congelate. Mi accolse come un fratello, mi lavò e medicò, mi aiutò a prendere il cibo e mi dette il suo letto. Solo al mattino, mi accorsi che lui, ancora convalescente, aveva passato la notte su una seggiola, per me. Anche di questi ricordi, era fatta la nostra fraterna amicizia e questo era il cuore di Strobel!
In quel 1953, egli colse la sua prima, grande vittoria: la rossa parete sud-est del Taé, quattrocento metri di difficoltà estrema, vinti assieme al Mescolìn. L’avevamo guardata insieme, dalla cima della Punta Fiames, l’anno prima, quella parete (1).
Nel 1955, tutta una serie di belle e difficilissime conquiste: le Punte di Col Becchei, il Torrione Scoiattolo, la parete sud-est della Cima del Burèl, nel mio caro gruppo della Schiara, la via Savina del Col Rosà, tutte prime assolute.
Nel 1959, con due grandiose imprese, Strobel doveva balzare di prepotenza ai massimi valori dell’alpinismo dolomitico.
A quell’epoca, alcune scalate clamorose – particolarmente la «direttissima» di Hasse, Brandler, Lehne e Löw sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo – imposero un superamento in senso tecnico, se non assoluto, dei limiti fino allora raggiunti. Ad onore degli «Scoiattoli», bisogna dire che non furono essi i primi a prendere l’iniziativa di forme di arrampicamento, che, sebbene di indubbia validità, hanno anche in sé germi negativi.
Tuttavia, il prestigio della scuola di Cortina d’Ampezzo imponeva che gli «Scoiattoli» non restassero secondi ad alcuno sul piano tecnico e ciò li indusse a partecipare alla vera e propria gara, apertasi per la conquista delle «superdirettissime» della Cima Ovest di Lavaredo. Epica, anche se, sotto certi aspetti, discutibile, fu la gara fra una cordata svizzera e quella degli «Scoiattoli», per la «superdirettissima» della Cima Ovest di Lavaredo, che si svolse fra paurosi strapiombi e nere lavagne di roccia, fino allora ritenuti inaccessibili.
Entrambe le cordate giunsero in vetta, per itinerari in parte diversi. Primi, comunque, sulla cima, furono gli «Scoiattoli». Strobel non era con loro, avendo rinunziato alla fase finale, per consentire una maggiore rapidità ai suoi due compagni. Tuttavia, egli aveva partecipato a un arditissimo tentativo, di decisiva importanza, nel corso del quale era sopraggiunta una tremenda bufera ed era stata effettuata una «ritirata» sotto i tetti, con incredibile rapidità e maestria.
Poche settimane dopo, però, Strobel doveva cogliere una grande vittoria, tutta sua, scalando assieme a Lorenzo Lorenzi, Lino Lacedelli e Gualtiero Ghedina, l’impressionante spigolo nord-ovest della stessa Cima Ovest, ancora inviolato nell’asperrimo tratto centrale, una formidabile «via», che conta solo sei ripetizioni (2).
Nel 1960, Strobel saliva, in prima ascensione, lo spigolo sud-est della Punta Fiames, con tratti di grandissima difficoltà e, con quattro bivacchi, realizzava un’altra grande impresa, al limite delle possibilità alpinistiche, vincendo la parete est della Punta Giovannina delle Tofane (3).
Il 1961, vedeva la conquista del Torrione Dibona, sempre sulle Tofane. Nel 1962, Strobel, con altri «Scoiattoli», viveva un’avventura tragicomica al Passo del Furlo, nell’Appennino. Invitati a dare una dimostrazione pubblica di tecnica arrampicatoria, essi si trovarono di fronte ad una parete di estrema difficoltà e pericolo: il Monte Paganuccio da nord. Strobel commentò l’apparizione di quella scorbutica muraglia con un solenne: «Agnò porco m’aéo menà?» («Dove diavolo mi avete portato?»). Ma, ormai, erano in ballo, e, davanti a una folla di migliaia di persone, convenute per lo spettacolo, Strobel e i suoi compagni aprirono una via, che non ha nulla da invidiare alle più difficili scalate dolomitiche.
Memorabile fu il discorso che Strobel dovette improvvisare al pubblico teatro di Acqualagna (da lui ribattezzata «Alemagna»), nel corso del quale parlò di Quintino Sella e di molte altre egregie cose (nonostante l’aspetto, Strobel era molto intelligente e tutt’altro che incolto).
Al ritorno dall’impresa del Paganuccio, Strobel mi venne a trovare, affermando che si trattava di una scalata disgustosa, ma, tenuto conto del Verdicchio di Jesi, bisognava ammettere che qualcosa di buono c’era anche da quelle parti.
Qualche tempo dopo, Strobel vinceva anche la difficilissima parete ovest del Becco d’Ajal. La radio e alcuni giornali affermarono che «la nota guida Albino Michielli aveva dedicato la via al defunto rocciatore ampezzano… Strobel». «E dopo dicono che sono io che bevo!», fu il commento di Strobel!
Nel giugno del 1963, Strobel doveva compiere ancora una delle sue più grandi imprese. Con vari bivacchi, apriva la «direttissima» del celebre Pilastro di Rozes, una via fra le più dure in roccia delle Alpi.
Anche se non aveva mai avuto la possibilità di compiere lunghe campagne fuori delle Dolomiti, Strobel conosceva i gruppi del Bianco e dell’Ortles ed aveva notevole maestria anche su terreno misto e ghiaccio. Nel luglio 1963, assieme ad alcuni compagni, tentò il sogno più ambizioso: una nuova via «direttissima», sulla sinistramente celebre parete nord dell’Eiger, nell’Oberland Bernese.
Il tentativo non riuscì, a causa del maltempo ostinato, ma, anche su quel terreno inconsueto, Strobel e gli altri «Scoiattoli» dimostrarono eccezionale abilità e sicurezza, tornando incolumi, sotto la bufera, dai pressi del primo nevaio.
Oltre a questo, Strobel aveva aperto ancora un’altra mezza dozzina di vie nuove e aveva ripetuto le più difficili vie delle Dolomiti, come la Ratti-Vitali della Cima Su Alto, la Costantini-Apollonio del Gran Pilastro di Rozes, la Soldà-Conforto della Marmolada, la Cassin-Ratti della Cima Ovest, la «direttissima» della Cima Grande di Lavaredo e moltissime altre.
Ma dove Strobel e i suoi compagni hanno accoppiato maggiormente la loro altissima classe tecnica alla generosità eroica, è nei salvataggi. Come abbiamo detto, Strobel ha partecipato ad una cinquantina di salvataggi, nelle Dolomiti e nell’Appennino, alcuni dei quali di eccezionale difficoltà. Di essi, almeno cinque sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo e due sulle «direttissime» della Cima Ovest di Lavaredo.
Il più arduo salvataggio cui egli abbia partecipato – certamente uno dei più difficili mai compiuti nelle Alpi – ha avuto luogo nell’inverno 1961, sulla via Desmaison e compagni della Cima Ovest di Lavaredo.
Il salvataggio riuscì per l’eroismo dei soccorritori e per l’eccezionale tempra della cordata in difficoltà: in quelle ore, sulla montagna, si trovarono solo uomini degni di essa! Lo scatenarsi della bufera (si era nel mese di febbraio!) creò una situazione drammatica, che avrebbe pienamente giustificato un ripiegamento dei soccorritori, anch’essi trovatisi nel più grave pericolo. Solo autentico eroismo ed eccezionale qualità tecnica permisero a tutti, soccorritori e soccorsi, di raggiungere incolumi la base. Fra i più decisi, sempre pronto a stimolare i compagni e sempre in testa alla cordata, vi fu appunto Strobel. Basterebbe questa pagina a fare la gloria di un alpinista e di un uomo! E non è che una, fra tante scritte, nelle condizioni più ingrate, nello slancio di un’operazione di soccorso, quasi mai remunerata.
Chi fosse Strobel, lo vedemmo ai suoi funerali. Una cosa incredibilmente toccante, un plebiscito d’affetto, cui parteciparono, fianco a fianco, tutte le glorie dell’alpinismo internazionale, assieme a tutti i valligiani di Cortina. Mai si era vista tanta commozione, mai tanto unanime rimpianto e mai, come allora, ci siamo accorti che Strobel, delle nostre Dolomiti, era il figlio migliore, il più puro.
Le sue grandiose prime ascensioni, resteranno scolpite sugli eterni monumenti delle Cime di Lavaredo e delle Tofane. Il suo eroismo, nel cuore delle madri, alle quali ha riportato un figlio, vivo o morto. La sua sorridente bontà, nel ricordo di tutti noi, che gli fummo amici.
Strobel non ha epoca. Egli non appartiene all’era dei chiodi ad espansione più che a quella dei pionieri. È uno di quei grandi che resta tale per ogni luogo e per ogni tempo, accanto ai Carrel, ai Boccalatte, ai Crétier, ai Gervasutti, ai Comici, ai Tissi, figli delle nostre Alpi e agli altri grandi alpinisti di ogni Paese.
Il suo spirito, finalmente svincolato dalle miserie terrene, viaggia certo, oggi libero, fra le vette delle sue Dolomiti, alle quali si accostava, al termine della vittoriosa scalata, nel vincere l’ultimo strapiombo, cantando affettuosamente: «O montagna, sei bella e perduta».
Così, Strobel, con un gesto possente da dominatore e un sorriso buono da fanciullo, così ti ricorderemo.
Note
(1) v. Rivista Mensile del CAI 1954, pag. 153.
(2) v. Rivista Mensile del CAI 1959, pag. 304.
(3) v. Rivista Mensile del CAI 1961, pag. 248.
Le belle creazioni alpinistiche restano nelle memorie degli alpinisti e vengono tramandate.
Ciò che viene detto dai media appare e scompare velocemente senza lasciare memoria.
Fahrenheit 451
Tra le nuove generazioni, quanti sanno di “Strobel”? quanti sanno di innumerevoli altri che li hanno preceduti nel passato?
“Ma tutti quei momenti finiranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.”