Sacralità della montagna – 01

Sacralità della Montagna – 01
di Giovanni Widmann

Che cosa significa dire che l’alpinismo e, più in generale, la pratica non banale, ludica, della montagna apre alla dimensione spirituale del sacro? Per tentare di rispondere all’impegnativo quesito è opportuno innanzitutto analizzare alcuni significati del termine “sacro”: a) ciò che appartiene o pertiene alla divinità e come tale partecipa della potenza divina; b) ciò che per la sua maestosità e/o potenza incute timore e rispetto e nello stesso tempo attrae, generando un senso di riverenza e attonito stupore; c) ciò che è inviolabile e non può essere fatto oggetto di qualsivoglia intervento profanatorio, sacrilego e dissacrante, ossia atto a negarne il carattere sacrale (fonte: Dizionario Zingarelli 2000, Zanichelli).

Machapuchare, Nepal

Ora, considerata nella sua prima accezione, la sacralità della montagna e della sua ascesa verso la vetta rimanda chiaramente ad un significato religioso e spirituale e apre ad una prospettiva etico-esistenziale dell’esperienza alpinistica, che si connota simbolicamente come un itinerario di perfezionamento interiore caratterizzato da forti accenti intimistico-sentimentali. In questo senso la scalata fisica diventa un’esperienza metafisica di ascesa-ascesi e l’ascensione è elevazione, ovvero catartico sforzo teso alla purificazione morale e finalizzato al progressivo ricongiungimento all’origine e scaturigine del creato, all’Assoluto e a Dio (unio mystica) e al vero bene, per cui la vetta suprema è oltre la vetta estrema, un cammino in vista della stazione finale nella regione iperuranica, oltre il cielo, verso l’entità trascendente e divina; la salita è rito di spoliazione, espropriazione ed estirpazione (di desideri e piaceri mondani e carnali), fiducioso abbandono, atto di devozione[1]. Quali esempi paradigmatici di tale concezione mistica e sacrale della montagna, si possono annoverare la salita al Monte Ventoso del Petrarca e La Salita del monte Carmelo di San Giovanni della Croce[2]. In questo senso l’esperienza alpinistica assume anche una valenza teoretica, in quanto rappresenta la faticosa via di ri-salita che dal mondo sensibile conduce alla superiore conoscenza della realtà soprannaturale intellegibile, ovvero alla verità.

Invece, nella sua seconda accezione, la montagna con la sua sublime imponenza e conturbante bellezza rimanda al soggetto che la contempla in uno stato di estasiato e commosso rapimento, subendo la potente attrazione per la primordiale ed ancestrale Wildnis, spettatore partecipe e incantato della mirabile magnificenza e meraviglia della natura nella sua elementarità, che provoca esaltazione e godimento estetico misto ad una condizione estatica di oblio di sé, della propria individualità, per con-fondersi armonicamente nella totalità organica della Natura vivente di cui si sente parte. Il soggetto avverte la recondita sublimità della montagna, ma anche la sua smisurata potenza, è affascinato dall’amenità del solare paesaggio campestre ma anche inquietato dalla terribilità dei recessi oscuri, dal mistero delle foreste ombrose, dalle frastagliate irregolarità e abissali profondità delle balze rupestri e dei precipizi. «Nah ist / Und schwer zu fassen der Gott» (Hölderlin, Patmos). Vicino è difficile da afferrare il dio, ma lontano, tra le guglie e i pinnacoli sferzati dal vento pungente, noi sentiamo alitare il respiro degli dei, eco di voci sussurrate, che in un tempo remoto intendevamo e che ora abbiamo disimparato a comprendere perché abbiamo perduto la nostra naturalità, ci siamo paradossalmente smarriti nel mondo artificiale della funzionalità misurante e razionalizzatrice. Tale sentimento contemplativo nel mentre dona pace interiore e un senso di serafico distacco dalle brame mondane, pieno di ammirazione e venerazione e insieme di timore e terrore, avverte la segreta presenza di forze vitali che travalicano la mera dimensione fisico-meccanica degli elementi e percepisce negli eventi naturali l’avvento di ciò che chiama misteriosa sacralità della natura vivente, «quel volto e quella voce ogni volta singolari e unici, attraverso i quali la Terra si dona a noi, chiamati a custodirne, inviolato, il mistero»[3], un sentimento panico che è espressione d’una religione naturale o religiosità pagana, nel senso che può coinvolgere anche chi religioso in senso proprio non è, non è credente ma sente in sé, nel suo spirito, la manifestazione spirituale del divino, la sua pervasiva potenza generativa e ad essa si converte: è l’aprirsi ad un’esperienza esoterica, estatica: la ierofania e la cratofania della montagna vissute ed esperite attraverso il fiducioso abbandono alla montagna, la disposizione ritrovata all’ascolto della lingua che parla nel silenzio enigmatico, lingua loquente e rivelativa che rinveniamo andando e sostando comprensivamente sulla montagna, ovvero abbandonando il gesto prensile, la nostra postura ap-prensiva[4].

Solo liberandoci dal condizionamento mentale operato dalle nostre sovrastrutture culturali, dai pregiudizi, dalle credenze di senso comune e dagli schematismi del pensiero logico-analitico, che agiscono come specchi deformanti e riflettenti una realtà illusoria, è possibile raggiungere una superiore visione e illuminazione e intuire il «senso cosmico della montagna»[5]. Qui il divino non è più entità trascendente, ma totalità organica ed immanente che panteisticamente compenetra tutta la natura; è l’Uno-Tutto di G. Bruno. Nel dinamismo della natura inorganicam, ed ancor più nelle manifestazioni e nello sviluppo autopoietico della natura organica, l’uomo sente la presenza palpabile e segreta dello Spirito. Nella storia delle idee tale concezione ha trovato la sua massima espressione nel panismo e titanismo romantico e nell’idealismo di Schelling, che concepì l’identità di Natura e Spirito.

La terza accezione consegue naturalmente alla seconda: se la natura non è soltanto determinismo e materia, ma viene divinizzata e spiritualizzata, ovvero sacralizzata, ne deriva la necessità di non profanarla né violarla, ma di preservarla e venerarla. La sacertà della natura così concepita la rende “intoccabile”, inviolabile, inaccessibile, «poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato» (Sap 11, 24). Ma anche l’analisi etimologica del termine latino sacer offre ulteriori spunti di riflessione per la nostra disamina del carattere spirituale dell’esperienza della salita alla montagna (alpinistica, ma non solo, infatti essa può riguardare anche la frequentazione escursionistica; molto meno quella del turista occasionale, che cerca altre emozioni: lo svago, il divertimento, la distrazione, l’evasione dalla routine, il rilassamento, ecc.). È interessante soprattutto questo significato del termine sacer, colui che è consacrato alla divinità per essersi macchiato di una grave colpa e perciò è esecrato, esecrabile, infame e maledetto, abominevole (fonte: Bianchi-Lelli, Dizionario illustrato della lingua latina, Le Monnier, Firenze, 1974). In questo senso l’etimo rimanda al diritto romano arcaico. L’homo sacer, colpevole di un atto sacrilego o di un delitto contro lo stato, veniva «abbandonato alla vendetta degli dei» e bandito dalla compagine sociale. La vendetta non consisteva in un sacrificio di carattere religioso; il reo perdeva lo statuto di civis e con ciò poteva essere ucciso o fatto schiavo da parte di chiunque (fonte: Treccani).

Possiamo leggere analogicamente, e secondo una duplice prospettiva, quest’accezione negativa della sacertà officiata come rito sacrificale, espiatorio o propiziatorio: il mons sacer, il monte sacro, esige il sacrificio non come pratica ascetica ma come tributo di sangue offerto agli dei, soprattutto quando l’alpinista-vittima-sacrificale è stato immolato poiché ha voluto sfidare la montagna andando oltre i propri limiti e oltre i limiti consentiti dalle inviolabili e necessitanti leggi di natura, sfidandole attraverso un atto tracotante di hýbris. Si tratta di una figura archetipica: l’uomo che viene punito perché ha voluto sfidare gli dei, o il Destino, Dike, l’Ordine cosmico, Giustizia e Necessità. «Et eritis sicut Deus» (Gen 3,5). Conquistando l’estrema cuspide sommitale, «diventereste come Dio» conoscendo quel che c’è al di là della suprema elevazione, al di là del bene e del male. Ma ecco la tremenda visione che si apre all’occhio arrogante dell’alpe-miles: «Terra autem erat inanis et vacua, et tenebrae super faciem abyssi» (Gen 1,2). L’impresa sacrilega dell’alpinista che, animato da spirito di conquista, scala la montagna come via d’accesso al cielo per spodestare gli dei e dire a se stesso “Io sono Dio!”, l’atto profanatorio di Prometeo, l’archetipo dell’eroe che sfida la potenza di Zeus affermando il potere tecnico e titanico degli uomini, la loro auto-noma (dare a sé e per sé la legge e l’ordine) capacità d’azione, è punito: il fuoco che fu rubato, come l’ardimento, ora è spento e davanti agl’occhi si spalanca una terra informe e deserta, e le tenebre a ricoprir l’abisso. «Tracotanza occorre spengere più che incendio» DK 22 B 43.

Più interessante e originale è, però, la seconda lettura che si può darne, rovesciando la prospettiva: qui la “divinità” non è più la montagna nella sua sacralità ma l’uomo, che sacrifica a se stesso la montagna; l’uomo qui è il prototipo del moderno imprenditore turistico che ne sfrutta le risorse naturali e paesaggistiche, costruendo strutture e infrastrutture a beneficio di un turismo di massa che in montagna non cerca la dimensione spirituale, ma anzi quella più prosaicamente materiale ed epidermica, corporale: il piacere, la piacevolezza, dunque un rapporto sensuale ed edonistico con l’ambiente montano, superficiale e poco o per nulla consapevole della sua storia, ignaro dei valori che hanno caratterizzato le un tempo austere genti di montagna, i montanari (frugalità, sobrietà, fatica, sacrificio, tenacia, ecc.), ormai anch’essi pressoché scomparsi dalla scena, ridotti a macchiette folkloristiche e perciò false e artificiose comparse ad uso e consumo dei turisti curiosi di pittoresco e di antiquaria vetustà, di archeologia etnico-culturale kitsch e a buon mercato. Una predominante rappresentazione edulcorata e oleografica del paesaggio montano e una concomitante trasformazione antropologica, che ha comportato il sacrificio della montagna, della sua natura, della sua memoria.

Questa, naturalmente, è una ricostruzione sommaria e schematica di un tema che è assai più complesso e articolato, perciò non ho certamente la pretesa di essere stato esaustivo. A questo proposito, è il caso di fornire una breve chiarificazione anche del concetto di “montagna”, visto che si tratta di un termine abusato e spesso usato in modo irriflesso, senza definirne con esattezza la sostanza, i contorni e le implicazioni, omettendo, trascurando o mescolando inconsapevolmente e confusamente i suoi vari e diversi significati. Che cos’è dunque la montagna? Anche in questo caso la montagna ha varie declinazioni: a) orografia e struttura geofisica dei monti: quindi origine e conformazione geologica e morfologica (rilievi e loro disposizione, altitudini, catene montuose, ecc.), caratteristiche ambientali e paesaggistiche, climi, varietà di fauna e flora, ecc. b) regione montuosa presso la quale vivono comunità montane, le quali hanno una storia secolare di rapporti con la media e alta montagna, hanno sviluppato usi e costumi, tradizioni, forme di religiosità, elementi simbolici e pratiche ritualizzate, cultura materiale, rapporti, scambi, identità. Un ambiente duro e severo, la montagna, che ha implicato lo sviluppo di un’economia agricola e d’allevamento che per molto tempo è stata di mera sussistenza, ma anche arti e l’artigianato, lo sfruttamento delle risorse naturali (idriche, agro-silvo-pastorali); c) con lo sviluppo dell’industrializzazione, soprattutto a partire dagli anni Sessanta e con la concomitante nascita della società dei consumi, la montagna da una parte si è spopolata, infatti molti giovani attratti da migliori condizioni di vita, comodità e benessere hanno trovato occupazione in pianura e vi si sono trasferiti, spesso rimuovendo o rinnegando le proprie origini montanare.


Note
[1] «Non stupisce che molte culture abbiano prescelto le cime dei monti come dimore degli dei o come luoghi dell’incontro tra l’uomo e il divino, ovvero come teatri di eventi prodigiosi che con la divinità avevano comunque a che fare. Pressoché in ogni civiltà incontriamo la montagna associata all’elevazione, al sacrificio, all’ascesi. La vetta si proietta verso l’alto, è un luogo intermedio tra cielo e terra, è il punto in cui le due dimensioni si incontrano, è il vertice più alto che l’uomo possa toccare nella sua tensione verso Dio (Franco Brevini, L’invenzione della natura selvaggia. Storia di un’idea dal XVIII secolo a oggi, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, pp. 138-139)».

[2] A questo riguardo di segnalano i saggi di Bortolo Martinelli, Tra escursionismo e letteratura: il Petrarca sul Monte Ventoso e di Giuseppe Mazzocchi, Le montagne di san Giovanni della Croce, in Ascensioni umane. La montagna nella cultura occidentale, Grafo edizioni, Brescia, 2002, rispettivamente alle pp. 54-60 e 67-81.

[3] Caterina Resta, La radura del pensiero: Heidegger e la montagna, in Oltre le vette. Metafore, uomini, luoghi della montagna, Il Poligrafo, Padova, 2000, p. 78. Per una concezione esoterica del paesaggio, vissuto come esperienza rivelativa e disvelante, come luogo di apertura e di donazione del senso riposto della natura, compreso al di là di un approccio meramente estetizzante, o anche tecnico e scientifico-oggettivante, cfr. Luisa Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano, 1997.

[4] «Sentirsi lasciati a se stessi, senza aiuto, senza scampo, vestiti soltanto della propria forza e della propria debolezza, senza altro che sé a cui chiedere, e portarsi innanzi di roccia in roccia, di appiglio in appiglio, inflessibilmente, per ore, e il senso dell’altezza e del pericolo imminente, inebriante, e il senso della solitudine solare, e il senso di indicibile liberazione e di respiro cosmico alla fine, all’attingere le vette, quando la lotta è vinta, l’affanno domato e si schiudono orizzonti voraginosi di centinaia di chilometri – tutto più in basso di noi – in ciò vi è veramente una catarsi, uno svegliarsi, un rinascere in qualcosa di trascendente, di divino (Julius Evola, Meditazioni delle vette, Edizioni Mediterranee, Roma, 2003, p. 43. Corsivo nostro)».

[5] Domenico Rudatis, Liberazione, Nuovi Sentieri, Belluno, 1985.

(continua in https://gognablog.sherpa-gate.com/sacralita-della-montagna-02/)

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Sacralità della montagna – 01 ultima modifica: 2024-09-19T04:50:00+02:00 da GognaBlog

3 pensieri su “Sacralità della montagna – 01”

  1. Lucido, a me non sembra, visto che mette insieme tantissimi pensieri propri e conoscenze note senza svilupparli.
     
    Mi è parso di leggere come un diario di liberi pensieri. 

  2. Ormai neppure Dio ci può salvare. Se il dio della creazione e della bellezza è anche il dio della distruzione e della tecnica, allora ci serve un altro dio.

  3. Molto interessante e lucido. Da vecchio alpinista, che ha anche una laurea in Filosofia e una tesi di Antropologia Culturale sulla religiosità dei primitivi alle spalle, mi “ritrovo” molto in questa riflessione. In effetti il rapporto coi monti ha, proprio nelle culture “primitive”, un’importanza decisiva, che sia in termini di trascendenza o in termini di immanenza panteistica; questa struttura culturale si ritrova a livello planetario nelle culture che non hanno ancora sviluppato le sovrastrutture, più o meno illusorie, delle civiltà “evolute”; si può dunque considerare una struttura originaria del rapporto tra l’uomo e la potenza della natura meno “addomesticabile”.

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