Sacralità della Montagna – 02
di Giovanni Widmann
(continua da https://gognablog.sherpa-gate.com/sacralita-della-montagna-01/)
Dall’altra la montagna con lo sviluppo turistico ha conosciuto un contro-movimento di ri-salita favorito dallo sviluppo del turismo, che mentre ai primordi ed originariamente era un fenomeno elitario (la villeggiatura, così come l’escursionismo e la pratica alpinistica col supporto delle locali guide alpine, che erano perlopiù cacciatori o passatori, era prerogativa di intellettuali, artisti, aristocratici, regnanti)[1] nel tempo si è trasformato nel fenomeno del turismo di massa, specie invernale, attraverso la creazione di tutta una serie di infrastrutture finalizzate soprattutto alla funzione ricreativa e alla fruizione sportiva della montagna – piste, impianti di risalita, alberghi, strade di accesso, ma anche sentieri escursionistici, attrazioni spettacolari (si pensi alla diffusione dei ponti tibetani, ai circuiti di downhill), percorsi attrezzati, vie ferrate, palestre di roccia, ecc. – per rendere sempre più appetibile e gradevole il soggiorno anche attraverso un imponente battage pubblicitario, strutture che hanno continuato a crescere e tuttora crescono in ragione del costante aumento degli ospiti[2].
«Oggi la natura selvaggia non è più solo minacciata dalle attività produttive dell’uomo, ma anche da quelle ricreative: ormai, oltre che da chi lo sfrutta, l’ambiente deve difendersi da chi lo ama»[3]. La montagna è un ambiente rilassante che favorisce il riposo e la distensione, ma anche il teatro di eccitanti pratiche ed esperienze all’insegna del brio e della tensione. A farla da padrone è naturalmente la logica capitalistica del profitto, che creando immaginari collettivi e desideri (anche attraverso lo sfruttamento dell’immagine a cui si prestano alcuni grandi nomi dell’alpinismo e free climbers) ha poi saputo soddisfarli, privilegiando però un approccio utilitario, superficiale e consumistico alla montagna, vista come un bene, una merce da sfruttare, anzi da saccheggiare per il tornaconto di pochi, con scempi ambientali che sono sotto gli occhi[4]. Il soggettivismo nichilista e relativista della tarda modernità disincantata e secolarizzata è contraddistinto da una superomistica affermazione di sé e dalla volontà di imporsi e di appropriarsi per mezzo della potenza e dell’accelerazione. Allora ogni realizzazione appare impotente a soddisfare un gusto volubile e una fruizione che vuol essere immediata e immediatamente soppiantata dall’urgenza di rincorrere altro, una volizione incontenibile che è volontà di volere, desiderio disperatamente desiderante. «Così dalla brama al piacere vado barcollando e mi struggo di brama nel piacere» (Goethe, Faust). Sapere, potere e volere sono stretti in un vincolo indissolubile che rischia di soffocare.
Anziché innalzare la montagna tr-ascendendola, la si vuol abbassare as-salendola e l’escursione si traduce in un’incursione. Il gesto alpinistico esprime una conscia volontà di predazione e inconscia esigenza di compensazione che si riassume nel principio: abbassare la cresta alla montagna – piegarla e portarla alla propria altezza – e con ciò ridimensionarla nella sua grandezza e umiliarla nella sua alterezza, negandone alterità e irriducibilità. Così la montagna non è più il luogo della trascendenza ma della più prosastica a-scendenza; violata e profanata, essa perde la sua aura sacrale e il rito misterico è degradato a gesto atletico: invero l’alpinista che sale scende e rimane alla base, senza che vi sia alcuna profonda e distesa discesa.
«Bisognerebbe prima di tutto pensare le Alpi svincolandosi dalla messa in scena proposta nella comunicazione più conformista. Le Alpi costantemente associate a categorie come “purezza”, “armonia”, “tipicità”, alle quali si accompagnano gli immancabili “paesaggi mozzafiato”, “santuario della natura”, “natura incontaminata”, che sono sintesi di uno spazio di vita ridotta a messaggio pubblicitario.»[5] Infatti è seguendo precise logiche di marketing che è stata costruita l’immagine bucolica delle Alpi modello «Heidi», un ambiente alpestre e un costume montanaro stereotipati e idealizzati allo scopo di intercettare un reale bisogno di evasione dalla routine quotidiana e dal disagio esistenziale di larghe masse di popolazione che vivono nelle aree metropolitane[6]. Così l’”ospite” nel pacchetto-vacanza trova offerte commerciali all’insegna del cliché della genuinità e della «retorica della salubrità new age» postmoderna, che affiancano all’ormai immancabile centro benessere per il recupero psico-fisico anche esperienze esotico-esoteriche tese a recuperare l’armonia e l’equilibrio interiore a contatto con la natura. Ma si tratta di un arricchimento e di una “cura dello spirito” organizzata, strumentale e interessata, che dunque tradisce lo spirito col quale si dovrebbe e potrebbe vivere un’autentica esperienza di crescita spirituale in montagna, in modo spontaneo, raggiungendo una cima o passeggiando da soli nei boschi. È proprio questo spirito che manca molto spesso nel turista disavvezzo e che gli stakeholder dell’economia turistica di massa non hanno certo interesse a favorire.
È evidente quindi che l’atteggiamento contemplativo e stupefatto del viandante solitario che romanticamente era in cerca di esperienze profonde e spiritualmente appaganti a contatto con una natura di struggente bellezza, da condizione dell’anima con forti connotazioni estetiche, ma anche etiche e spirituali, si è via via trasformata in una fruizione (termine ormai d’uso comune che tradisce la sua derivazione dall’ambito economico, infatti fa riferimento al disporre, utilizzare e consumare) turistica più prosaica, frettolosa e banalizzante da parte del turista-consumatore, che come altre merci o prodotti tipici locali messi in vendita dagli operatori turistici allo stesso modo consuma – pagando – anche rappresentazioni, emozioni e sensazioni, desideri e piaceri più o meno fuggevoli in uno scenario ammiccante, artificioso e kitsch di inautentica autenticità, patetismo, finta rusticità esibita, rusticismo – con ciò semplificando e snaturando il rapporto con la montagna – sia nella sua dimensione paesaggistico-ambientale che culturale, sociale e comunitaria – che così è diventata un grande mercato a cielo aperto, con riti consumistici e pratiche omologanti e uniformanti[7]; la moda della montagna possibilmente sulla montagna alla moda, esclusiva, mondana, dove trovare gli svaghi, i dilettevoli soggiorni e gli sport di montagna vissuti però secondo lo spirito del cittadino di pianura, ma così eclissando la montagna vera e non da cartolina, che incompresa nella sua essenza rimane sullo sfondo o addirittura è invisibile, ideale per una foto o un selfie nel frastornante circo delle stazioni turistiche dove tutto si consuma ed espelle lasciando intorno una desolante distesa di scorie e di rifiuti (reali e metaforici), non-luoghi e luoghi comuni, alla portata di tutti e per tutti, ma anonimi, non più singolari, né reali né ideali: località localizzate su mappe, esibite su cataloghi illustrati come pittoreschi e ameni ambienti locali. Invece «la montagna deve tornare a poter essere vista come l’emblema dello spazio elevato e sacro, del luogo dell’aprirsi, reale e simbolico, di una dimensione la cui alterità e distanza, anche fisica, dall’usuale, mostra una dimensione di verticalità essenzialmente estranea al mondo del nichilismo»[8].
La montagna non è soltanto nei miei pensieri, essa è tema del pensiero. Cosa penso della montagna? S’affaccia allora un pensiero paradossale e mi chiedo: pensa la montagna? Cosa pensa la montagna? Sente la montagna? Cosa sente la montagna? Qui non si tratta di un’ingenua operazione di antropomorfizzazione della montagna, o di una sua costituzione a soggetto anziché della sua riduzione a cosa, a oggetto. Porre la questione è già assumere un orientamento particolare, avere una diversa considerazione, nutrire una sensibilità. Ecco, non la risposta alla domanda, ma la domanda stessa è rivelativa: dell’atteggiamento di chi vuol porsi dalla parte della montagna, mettersi al suo livello, che non è semplicemente e banalmente posare lo sguardo a terra o sdraiarsi per terra. C’è bisogno di sentire al di là degli stessi sensi, sentire sentimentalmente, potremmo dire, perché «l’amore perseguito con entusiasmo è una delle strade che conducono alla conoscenza». In questo interiore ascolto delle voci della montagna che ci interrogano mentre noi le interroghiamo «si potrebbe dire che il corpo pensi»[9].
Nelle diverse mitologie e simbologie della montagna[10], sia della tradizione occidentale che orientale, essa è rappresentata come luogo sacro e sede degli dei o di creature demoniache, punto di congiunzione tra Terra e Cielo, axis mundi, ecc. In quanto all’accesso privilegiato alla montagna, che per sua natura è contraddistinta dalla verticalità e dalla severità dell’ambiente roccioso e/o glaciale, la scalata come diretta via di salita e la vetta come finale approdo sono il simbolo etico-religioso dell’elevazione conseguita attraverso un faticoso percorso di catartica purificazione. La montagna mitica è l’archetipo dell’altezza elevata che eleva. L’allegoria dell’altezza rimanda inoltre al distanziamento dello sguardo, all’introversa investigazione: lungo la faticosa via di salita si attua la discesa nel proprio segreto mondo interiore, talora nei vuoti abissali che si aprono allo sguardo introspettivo, per progressive rinunce e abbandoni facendosi leggeri. Quindi l’andare in montagna è fare esperienza della superità – super-oris-stas – già prima e ben prima della vetta. La meta è la stessa via, che sempre ha inizio e fine in basso. Con ciò si apprende questa paradossale verità: in quanto alto è profondamente basso e altro il monte, come ogni prorompente fonte. Tuttavia oggi la montagna da simbolo di severa inospitalità e dirittura (in senso etico-esistenziale) è diventata il luogo de-mitizzato dello svago e della disfida perdendo il suo carattere sacrale, ovvero il suo costituirsi come una prova che mette alla prova: non è più un itinerario di formazione – l’ascesa al monte come ascesi, la fatica della salita come catarsi, la vetta come elevazione e rivelazione – ma un culto profano dell’ebbrezza invasata ma senza incantamento, coi suoi riti e feticci aderenti alla temperie dell’epoca tardo moderna o postmoderna – secolarizzata e nichilista – che concepisce e vive la montagna secondo i canoni e le mode e modalità della pianura, ovvero funzionali a logiche economicistiche miranti ad assecondare in modo efficace ed efficiente i bisogni di evasione e di diversione dalle stesse logiche imperanti nel fondovalle durante la breve vacanza in montagna, garantendo ai clienti forme edonistiche e fondamentalmente banalizzanti di approccio all’ambiente alpino, che all’uopo viene addomesticato, reso familiare e ospitale, sicuro, democraticamente accessibile ad una sempre più larga platea di ospiti (turisti, escursionisti, alpisti sportivi, ecc.) da parte dei vari soggetti coinvolti – promoter, agenzie pubblicitarie, operatori turistici, imprenditori del settore, ecc. – in una corsa incessante ad offrire esperienze ed intrattenimenti sempre nuovi, emozionanti ed accattivanti, sfruttando e piegando lo stesso bisogno di natura e di naturalità alle esigenze del mercato e con ciò snaturandolo in omologanti ed artificiose, e perciò inevitabilmente edulcorate ed inautentiche, pratiche collettive di melenso rilassamento interiore ed esoteriche esperienze di finto romantico ed esotico primitivismo di maniera.
Note
[1] «Soprattutto nella prima stagione esplorativa, quando è fortemente implicato con la ricerca scientifica, l’alpinismo resta appannaggio dei ceti colti, solitamente urbani e di estrazione, prima aristocratica, poi borghese. Perché il mondo popolare faccia la sua autonoma comparsa sulla scena alpinistica dovremo attendere più di un secolo. Per tutto l’Ottocento e per parte del Novecento i montanari prendono parte alle spedizioni, ma nei ruoli subalterni delle guide e dei portatori, attratti dalle prospettive di guadagno che la bizzarra passione dei Messieurs sta dischiudendo (Franco Brevini, L’invenzione della natura selvaggia, cit., p. 104)».
Sul tema cfr. però la tesi controcorrente di Andrea Zannini nel suo recente saggio Controstoria dell’alpinismo, Laterza, Bari-Roma, 2024. Secondo l’autore, che ha utilizzato fonti primarie e secondarie quali diari, cronache locali dell’epoca, resoconti di testimonianze orali, studi e ricerche dedicate all’argomento, la pratica alpinistica non è stata un fenomeno che ha coinvolto esclusivamente le élite intellettuali borghesi e cittadine, quantunque queste abbiano fornito un importante stimolo al suo sviluppo. Piuttosto sono stati gli alpigiani appartenenti a tutte le classi sociali, i montanari – locali cacciatori di camosci, pastori, cercatori di cristalli, marrons – ben prima della nascita dell’alpinismo (dapprima nella sua fase pionieristica ed esplorativa sostenuta da interessi scientifici e poi come pratica sportiva) a salire sulle montagne da tempi immemorabili, in un intreccio di bisogni e di motivi, dalla sfida alla curiosità, dalla necessità materiale al puro diletto, fino alla competizione tra valligiani. Ma delle loro “prime” non è rimasta traccia perché essi non appartenevano a nessuna associazione alpinistica e non scrissero nessuna relazione su giornali o riviste specializzate, anche perché spesso non sapevano proprio scrivere. Così come tra Settecento e Ottocento è rimasto in ombra il loro contributo determinante in qualità di guide e portatori al successo delle spedizioni scientifiche ed esplorative sulle Alpi da parte di eminenti scienziati, o nella seconda metà dell’Ottocento allo sviluppo dell’alpinismo sportivo, i cui protagonisti furono soprattutto gli inglesi. Quei montanari possedevano la necessaria esperienza e conoscenza del territorio, avevano adeguate doti fisiche e psicologiche per affrontare gli ambienti aspri e ostili dell’alta quota, inoltre già avevano approntato e utilizzavano le tecniche e le attrezzature che poi sarebbero state dominanti nella prima fase dell’alpinismo classico.
[2] Sul tema cfr. Marco Albino Ferrari, Assalto alle Alpi, Einaudi, Torino, 2023; Enrico Camanni, La montagna sacra, Laterza, Bari-Roma, 2024.
[3] Franco Brevini, cit., p. 285.
[4] A questo proposito cfr. Nereo Zeper, Narcisi di montagna, Nordpress Edizioni, Chiari (Bs), 2004, pp. 155 e ss.
[5] Marco Albino Ferrari, cit., p. 49.
[6] «Il turismo manifesta una singolare vocazione necrofilica. In fondo chi viaggia oggi, lo fa alla ricerca di qualcosa che è morto, qualcosa che non c’è più e che viene artificiosamente riesumato solo per lui. Danze folcloriche, feste popolari, cavalcate storiche, antiche tradizioni, palii, fiere, carnevali, sfilate e sagre, appartengono più all’illusionismo di Disneyland che alle culture che vorrebbero testimoniare. Così viaggiamo sotto la stella della malinconia, solo per sperimentare che è tutto finito, che il mondo è dovunque uguale a se stesso e che l’obiettivo del turismo è spesso una goffa evocazione di fantasmi (Franco Brevini, cit., p. 257)».
[7] «Nelle alte valli conquistate dal turismo invernale, la moda e il business dello sci ricoprono con una patina di benessere i paesi e gli abitanti, spogliandoli però dell’identità e dell’unicità alpine, e inducendoli spesso a vendere la terra e cambiare lavoro. Il tema del Novecento è la propagazione della nuova cultura consumistica, smaniosa e imprevidente, in grado di erodere in pochi decenni il tessuto della civiltà preesistente. Quel che non era riuscito in diecimila anni di popolamento delle Alpi alle valanghe, alle frane, agli inverni, alle alluvioni, alle epidemie, agli eserciti e agli invasori, riesce nell’ultimo minuto dell’orologio alpino a un modello così forte e persuasivo da cancellare in un colpo la storia precedente, che ripudiava ogni forma di consumo ed era fondata sul risparmio delle risorse [Enrico Camanni, Storia delle Alpi, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 2017, pp. 86-88 («La colonizzazione urbana»)]».
[8] Luisa Bonesio, “Pensare come una montagna”: prospettive geofilosofiche, in Oltre le vette. Metafore, uomini, luoghi della montagna, cit., pp. 17-32.
[9] Nan Shepherd, La montagna vivente, Ponte alle Grazie, Milano, 2018, pp. 46; 170. Sul superamento del dualismo cartesiano mente-corpo e sull’elaborazione di una fenomenologica concreta che considera il soggetto-corpo e il rapporto tra percezione sensoriale e comprensione del mondo, cfr. Maurice Merleau–Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), un’opera che per la sua rilevanza teorica e per le prospettive inedite che ha aperto nella considerazione di concetti quali corpo, soggetto, coscienza, intersoggettività, costituisce ormai un classico della filosofia novecentesca.
[10] Sul tema cfr. Paolo Costa, Che cosa c’è di sacro nelle montagne? Una spiegazione preliminare, «Annali di studi religiosi», 19, 2018, pp. 9-24; Sul simbolismo ascensionale cfr. inoltre Samivel, Il simbolismo dell’altezza e Le suggestioni dell’altezza, in Julius Evola – Samivel, Il sorriso degli dèi. Note su uomini di montagna e montagne degli dèi, Società Editrice Barbarossa, Milano, 1996, pp. 73-77; 85-91.
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Se auspichiamo la montagna sacra (o le monrtagne sacre, tutte le cime lo possono essere), dobbiamo spingere per la fuoriuscita del consumismo dalla montagna. In parole povere: più montagna per pochi. La Montagna sarà tanto più sacra quanto più sarà ristretta a un numero limitatissimo di individui, che apprezzano e ricercano la sacralirtà della montagna. orde fameliche di cannibali sono l’esatto contrario della Montagna sacra. Il punto è che le orde di cannibali alimentano il business dei valligiani. Difficile quindi che questi ultimi accettino serenamente di privarsene. occorre un lento ma inesorabile lavorio culturale, in modo tale da puntare a un turismo meno (molto meno) invasivo, più “eletto”, più affine alla montagna sacra. c hi vincerà? Difficile dirlo, oggi. La speranza è che l’evoluzione della natura produce eventi negativi che renderanno sempre più rischioso frequentarla. in questo modo le orde di cannibali, che cercano semplicemente delle 2piste2 su cui realizzare le loro performance tecniche e atletiche, andranno alla ricerca di altri contesti e abbandoneranno le montagne.
Nella domenica la chiesa cattolica oppone il sacro al profano, ovvero ricorda agli uomini che la vita vera ed autentica consiste nella preghiera e rifiuta il lavoro, e in questo senso la domenica acquista un valore simbolico che trascende le forme tradizionali della liturgia. In modo analogo anche la montagna diventa un luogo dello spirito che invita alla contemplazione della bellezza, come il mare ovviamente o la campagna. Un richiamo che vale per tutti: il sacro è un luogo di partecipazione e di elevazione mistica che non esclude nessuno. Come la domenica non ci sono chiese a numero chiuso così non avrebbe senso chiudere le montagne o il mare. Non è possibile pensare che qualcuno possa essere pienamente uomo e un altro no. Si tratta piuttosto di proteggere il viandante solitario dalle aggressioni della tecnica, a cominciare dalle biciclette.