Presentazione di Sacre vette. I simboli sulle cime, di Ines Millesimi e Mauro Varotto.
Sacre vette
Le croci di vetta e le immagini sacre in montagna (Madonne, Cristi, edicole votive), soprattutto in alta quota, sono da anni oggetto di accesa discussione. Molti affermano che fanno parte della nostra tradizione, altri dicono che dovrebbero essere tolte o limitate per salvaguardare la purezza del contesto, altri ancora le considerano un segno di orientamento irrinunciabile per chi arriva in cima. Questo libro mette a confronto punti di vista e significati storici, geografici, antropologici, religiosi, giuridici delle croci e dei segni del sacro sulle vette. La croce diventa così, più che elemento divisivo, punto d’incontro e ponte tra dimensione umana, ambientale e spirituale nel senso più ampio del termine. Una descrizione multi e transdisciplinare fatta di voci autorevoli, che invitano alla riflessione e al dialogo, oltre il mito e la rivendicazione identitaria (dalla presentazione dell’editore).
All’introduzione di Ines Millesimi seguono i contributi (in ordine alfabetico) di Luigi Casanova, Marco Cuaz, Ciro De Florio, Fausto De Stefani, Antonio Toni Farina, Marco Albino Ferrari, Oscar Gaspari, Pietro Giglio, Fabienne Jouty, Pietro Lacasella, Jon Mathieu, Antonio Mingozzi, Fulvio Marko Mosetti, Claudia Paganini, don Paolo Papone, Giovanna Rech, mons. Melchor Sánchez De Toca e Marco Valentini.
Claudio Mafrici riassume a modo suo alcuni di questi capitoli: “ricordo di una preghiera costante (mons. Sanchez de Toca), “segno di sopraffazione ideologica (Fausto De Stefani), marker culturale (Marco Albino Ferrari), appropriazione del territorio (Mauro Varotto), conquista nazionalistica (Ines Millesimi) o, ancora, specchio dell’evoluzione della società alpina (Fabienne Jouty). Conclude la postfazione di Mauro Varotto.
In questo confronto, che a volte si fa scontro, si inserisce il bel volume Sacre Vette. I simboli sulle cime (Cierre Edizioni, pp. 149, 24 euro), curato da Ines Millesimi, dottoranda in Gestione sostenibile delle Risorse ambientali all’Università della Tuscia, e da Mauro Varotto, professore di Geografia all’Università di Padova.
Ai testi si aggiunge un inserto fotografico di Fausto Zoller con le immagini delle croci di vetta delle Dolomiti: una prima mappatura e documentazione completa di questi manufatti oggi presenti su 34 delle 86 cime dolomitiche oltre i tremila metri di quota (https://edizioni.cierrenet.it/volumi/sacre-vette/).
Cosa è una cima? Comunque, una strada lunga due secoli e mezzo
E’ vero che il volume, come scrive Ines Millesimi, “è stato pensato come un ‘concerto grosso’ di taglio dialogico, inclusivo e non divisivo”. La presenza di ben 18 autori, ciascuno con il suo pensiero e il suo taglio culturale, lo dimostra ampiamente.
Ed è proprio sul tentativo di definire un punto d’incontro per tutti convincente che si concentrano gli sforzi dei due autori.
Fino a che le cime furono generalmente considerate luoghi impervi e paurosi da cui rifuggire, nessuno pensava di apporvi alcun genere di testimonianza umana.
Poi (a parte qualche episodio storico dei secoli precedenti che qui non è il caso di ricordare) seguì la contemplazione estetica dove le cime facevano da sfondo al “paesaggio”. Positivismo e Illuminismo presero in considerazione le cime come oggetto di interesse scientifico: in ciò era insita una grande contraddizione. Perché, fino a che Horace Bénédicte de Saussure si limitava alla traversata dei ghiacciai, l’interesse scientifico era certamente dominante, ma concepire e poi realizzare la conquista del Monte Bianco andava ben oltre il mero interesse di fenomeni misurabili con anemometri, termometri e barometri.
Fu il Romanticismo a fare piazza pulita di quest’ambiguità. E così nacque l’alpinismo che “guardava alle vette ‘inviolate’ come a un rebus da risolvere. Si propagava il mito della ‘conquista’, essere i primi a calpestare nell’ascesa verticali e aspri suoli rocciosi (Millesimi)”.
La lotta che l’uomo aveva ingaggiato era quella contro il mistero (cioè tutto ciò che non era conosciuto ma solo sperimentato tramite il timore); e al tempo stesso si trattava di esplorare se stessi, mettersi in ‘gioco’ per la conquista della vetta inviolata, al limite anche a costo della propria vita. In questa sfida alla Natura (derivante dalla divisione operata dal Romanticismo tra Io-uomo e Natura) non tardarono a inserirsi anche aspetti trans-individuali, dunque collettivi e alla fin fine nazionalistici.
Come giustamente osserva Millesimi “Nell’assalto alla vetta, a una a una le cime furono ‘conquistate’ e il successo degli alpinisti-scalatori, senza lo scenario di conflitti e reggimenti, rappresentava il traguardo del primato nazionale nella gara tra gli Stati”.
Dopo la conquista di tutte le cime alpine, anche le più secondarie, allorché l’alpinismo giunse al culmine di ciò che in qualche modo era considerato possibile (gli Ultimi tre Problemi delle Alpi), contemporaneamente o quasi alla conquista delle più alte montagne del mondo, si fece largo l’illuminante visione di Lionel Terray che definiva gli alpinisti “i conquistatori dell’inutile”.
“Superato il concetto di “conquista dell’inutile” a vantaggio di quello del rispetto, oggi una cima si dice semplicemente raggiunta. Nel rovesciamento dei ruoli, talvolta si precisa che la montagna si è lasciata salire (Millesimi)”.
Ma il rispetto, quello vero, è sempre stato osteggiato e tuttora lo è, in campo alpinistico, dalle moltiformi spinte dell’interiorità dell’animo umano, a dispetto dei propositi coscienti e razionali. Voglia di apparire e di emergere, voglia di successo, talvolta di dominio, e soprattutto competizione aperta (o, peggio, strisciante) allontanano la cima da soggetto principale a sfondo teatrale delle proprie piccole epiche egoiche.
Fino a che non ci si è ritrovati a raschiare il fondo dell’esperienza ormai piccina, quando “al salitore spetta l’onere della prova alle quote più alte. Nella foto di vetta a volte fa così apparizione un gagliardetto, si sventola la bandiera della pace o dei diritti umani. Tuttavia, se la cima è vuota, sempre più spesso la fotografia non mostra segni ma la felicità mista a fatica nel volto del salitore. La felicità dunque come messaggio unico (Millesimi)”. Il selfie dunque è il punto d’arrivo, mentre il rispetto è fermo sulla linea di partenza…
Ed è sorprendente notare quanto siano pochi quelli che notano l’illusorietà della felicità di vetta, in genere molto più spesso base per futuri progetti piuttosto che per una duratura serenità. Una soddisfazione temporanea senza alcuna parentela con l’estatico nirvana che ogni più piccola cima potrebbe riservarci, se solo lo permettessimo.
In tutti questi diversi approcci al sentimento delle vette che l’alpinismo è stato in grado di produrre, si inserisce la vicenda delle croci di vetta come indicatori della divinità ma anche come semplici segni del passaggio e del dominio umano. Al momento dell’erezione, pura testimonianza di fede; in seguito specchio delle differenti visioni di ciò che una cima suggerisce ai nostri animi o rappresenta nella biografia umana; e infine indifferenza determinata dai selfie.
Millesimi suggerisce: “Se la montagna nella sua interezza si caricasse di un significato simbolico antidogmatico, tutte le cime diventerebbero “sacre vette” a prescindere, per un’etica e una spiritualità ecologiche sulla cura della casa comune, come indica la lettera enciclica di papa Francesco Laudato si’(24 maggio 2015). Non si fa riferimento a una sacralità artificiale e laica, imposta da regolamenti o leggi, ma ad una riconsacrazione data dalla pratica, quella dell’autodeterminazione razionale e del senso della responsabilità il più possibile condivisa”.
Il dito e la luna
Mauro Varotto scrive: “Il punto di partenza di questa riflessione può essere l’antico e noto proverbio orientale: ≪Quando il saggio indica la luna con il dito, lo stolto guarda il dito≫. Possiamo senz’altro considerare la croce alla stregua di uno strumento (il “dito”) che rimanda a un significato e ad una dimensione trascendente (la “luna”), ma anche di un segno necessariamente connotato in termini culturali, l’espressione di una società e del suo modo di esprimere la sacralità in un dato momento storico, allo stesso modo in cui il saggio che indica la luna con il dito ha una carnagione, una forma della mano, una postura diversa da tutte le altre. Ma la “luna”, ovvero la dimensione trascendente, è la stessa per tutte le religioni e per tutti i popoli della Terra, per quanto ciascuno tenti di indicarla secondo le proprie capacità, intuizioni, categorie interpretative.
Le dita sulle cime sono “a volte in forma precarissima e quasi commovente nella loro semplicità (due pezzi di legno uniti dal fil di ferro, probabilmente recuperati da resti del primo conflitto mondiale), altre volte con croci imponenti che assolvono alla loro funzione indicativa in maniera più decisa, tralicci di acciaio visibili anche a chilometri di distanza che diventano un vero e proprio landmark nel paesaggio”. E’ senz’altro in questi casi che “più che un richiamo discreto alla trascendenza assumono il ruolo di un segno di appropriazione del territorio; le prime sono probabilmente l’esito di iniziative individuali di qualche alpinista, le seconde di una progettualità avviata da istituzioni, amministrazioni pubbliche, associazioni di alpini o alpinisti, insomma sono il risultato di un pensiero collettivo più strutturato. Ma sempre “dita” rimangono, e come tali dovrebbero continuare ad essere non segni autoreferenziali, ma rimando a una “luna” che è altro da sé, e a cui ciascuno è invitato a tendere”.
Quando si pretende la rimozione delle dita? Quando alla trascendenza dell’esperienza dell’umanità in terra (religiosa o meno) è stata sostituita una visione del mondo antropocentrica che considera semplice “ambiente” l’altro da sé, rinunciando dunque a qualunque forma di sacro, sia religiosa che laica. Perché oggi, appunto, è importante la nostra presenza sulla cima, non la cima stessa: il dito “rischia” di indicare qualcosa che non siamo noi. Questa è l’epoca in cui l’unico dito accettato è quello che punta a noi stessi.
Quando Varotto scrive, relativamente a coloro che hanno una visione terra terra, disinteressata alla luna, di “coloro che non riescono ad elevarsi dal ‘particolare’ del segno e a cogliere il suo messaggio universale”, dimentica di dire che nei contesti odierni la luna non è più trascendente né universale: è diventata “ambiente”, asettico e immanente, nel nome del quale si va impunemente dal green washing alla sostenibilità e dal disinteresse totale al bieco estrazionismo.
Ma in ogni caso Varotto sottolinea che le vette dolomitiche, “le più instagrammate del pianeta” (ma per estensione anche le altre), sono assolutamente distanti dall’”invito quanto mai attuale e urgente a dare profondità alla nostra esistenza individuale, rendendola parte di un Tutto di cui farsi carico e prendersi cura; al contrario, sono “celebrazione di performance sportive o sfondo per selfie autoreferenziali e ripetuti all’infinito”.
E conclude: “Per trasmettere questo messaggio davvero basterebbe il minimo dei segni, anche due semplici assi di legno incrociato, per trasmettere il massimo di significato, il nostro essere in fondo piccoli piccoli. Togliere, cancellare, sostituire, aggiungere, illuminare, ingrandire, ricoprire di miriadi di altri oggetti o simboli è l’esito triste di un pensiero ancorato a terra, incapace di librarsi e farci volare”.
Ces croix ne diminuent pas mon plaisir d’arriver au sommet.
Et heureusement, il n’y a en a pas partout !
Concordo che le dimensioni rendano le croci più fenomeni da Guinnes dei record che religiosi…detto questo molto belle le croci piccole anonime, discrete e discoste. Spesso non si conosce il nome di chi le ha concepite e messe…l’ esempio dei reticolati e resti della prima guerra è bello e calzante ,vengono in mente anche le croci fatte con le assi dei tanti naufragi nelle nostre coste..
Diversa è la storia della croce in quel Vedorcia ,non su una cima ma appartata e discosta poco visibile .Fatta artisticamente da Romano Tabacchi di Sottocastello saldando assieme grandi schegge di bombe d’aereo americane già spolettate e quindi pericolose per l atterraggio, sganciate al rientro da missione in Austria o Germania…al margine dei crateri giganti da loro causate al bivio tra camposcorz e pian dei laresc verso f.lla Spe negli Spalti, è li a testimoniare quanto siamo cattivi.
Questo dopo l 8 settembre ed è quello che si racconta in paese sul bombardamento, ma mi piace pensare anche alternativamente ad un pilota che salva un paesello sconosciuto tra i monti che non sia solo un altro obiettivo, un punto con le nemiche formichine nere…
Ringrazio Gogna dell’articolo critico e stimolante, ringrazio gli autori dei commenti che ho letto e continuerò a leggere. Una cosa mi sento di dire, il libro andrebbe letto se non altro perché approfondisce il tema ben oltre l’opinionismo Social e quello emozionale-personale. Ci sono due contributi di ecclesiastici, per niente scontati (vanno in montagna, sono due alpinisti), uno colpisce perché spiega come mai il Cristo crocifisso di vetta è presente in minor misura rispetto alla croce. C’è spiegata la polemica che ha avuto un contraccolpo nel CAI italiano e in quello austriaco (lo ha spiegato bene la docente universitaria di Monaco di Baviera). Si parla di una montagna italiana “sacra” (un progetto culturale sostenuto da un gruppo, che non è uno qualsiasi) nella quale non solo le croci di vetta sono assenti ma si propone l’astensione simbolica e non regolata da disposizioni conservazioniste della salita in cima. C’è la cartografia delle Dolomiti 3000 m con i segni di vetta, così uno si fa un’idea della distribuzione geografica (quanti segni oltre i 3000 m, e molti in aree naturali protette!) e della presunta qualità del manufatto.
Perciò buona lettura del volume e attendo in seguito i vostri commenti per approfondire il tema senza paraocchi.
Una grande croce è simbolo di impotenza e ignoranza.
La religione, secondo me, non c’entra niente.
Su una montagna in provincia di BG ce n’è una alta 32,5 metri con le braccia di 12 metri.
#5 Notari …se qualcuna… Un concetto di quantità almeno opinabile.
#7 Bertoncelli Sottoscrivo e condivido ogni parola. Da noi, provincia di Cuneo, abbiamo un profluvio di croci grandi sulle vette, che ben poco ispirano meditazioni, riflessioni, magari fede. Il massimo, forse, è quella sul Bric Mondino, 25 metri. Difficile “difenderla”.
Io purtroppo sono agnostico.
Però accetto volentieri una piccola e umile croce, segno di devozione; per esempio quella, davvero minuscola, che fa capolino timidamente fra le rocce vulcaniche del Sasso Tignoso, nell’Appennino Modenese.
Se si è soli, invita alla preghiera o, per chi come me non crede, alla meditazione, a riflettere sui perché della vita, persino a cercare una via che conduca alla fede.
Ma mi disturba il mastodontico traliccio a forma di croce sul Corno alle Scale (Appennino Bolognese), alto una dozzina di metri o piú, visibile da molti chilometri di distanza. Non invita alla preghiera. Non invita alla meditazione.
È un simbolo di potenza (“Qui comando io”), di esibizionismo, di chi grida piú forte. Il messaggio di Gesú non mi pare che sia quello.
P.S. Dimenticavo: le cime sono di tutti, credenti e no.
Siamo alla canna del gas.
Le cime sono tante milioni di milioni…..ma che te ne cale se qualcuna raggiunta da un credente ha in vetta una croce……mahhhh….vai su altre se cio’ ti disturba!!
@3, Tosi. Sono socio CAI da sessant’anni, mai vista una cosa del genere. In quale sezione del CAI si usa organizzare funzioni religiose per benedire corde, inizio corsi etc.?
Tutte le cime dovrebbero essere segnate da un bastone,privo di significato religioso- spirituale. Io sono tollerante dunque non mi preoccupo, ma rifiuto di partecipare alle funzioni religiose istituzionali organizzate dal CAI per benedire le corde, inizio corsi,ecc
Franco tosi
Questa cosa del dito e la luna si è incaprettata subito in una metafora, analogia, similitudine esempio che mi ha fatto pensare che il.suo estensore fosse fabbro ferraio del CAI, aduso a chidature ferrigne sul mitico VI grado. Un tipo dalle dita grosse, nelle çui mani la penna scivolava tra pollice e indice, ribelle alla grozzolanita, quasi a disagio.
Invece scopro essere docente universitario. Accipicchia!
Spunti di riflessione utili e condivisibili