Sesto grado in assemblea – 1

Sesto grado in assemblea – 1
Torino, 27 novembre 1976
Relazione di Alessandro Gogna

Dovete scusarmi, la mia voce in questi giorni è molto bassa. Visto che mi è stata data la parola sul tema dei materiali, cioè i mezzi che si usano per andare in montagna, vorrei trattare questo argomento soprattutto dal punto di vista di ciò che i mezzi, i materiali rappresentano nella problematica dell’alpinismo.

Una delle prime cose che mi insegnarono non appena cominciai ad andare in montagna fu di dare la giusta importanza ai mezzi e all’equipaggiamento con i quali essa doveva essere affrontata. Ho sentito e ho partecipato a innumerevoli discussioni sui chiodi, ad esempio. Sono sicuro che nessuno di noi potrebbe affermare di non aver contribuito, magari anche solo in minima parte, a quei discorsi. Non mi riferisco qui ai convegni specializzati come questo, ma ai gruppetti di giovani e meno giovani alpinisti che si formano ogni sera nelle sezioni del CAI o nei rifugi, che trovano un comune interesse a parlare su questo argomento.

In discesa nella bufera dal Cerro Muraillon. Foto: da “Ragni around the world”.

E giustamente se ne parla anche qui, posto che si è riscontrato e si sta riscontrando una notevole confusione. Si è sempre dato per certo che l’equipaggiamento, in duecento anni di storia dell’alpinismo, è sempre migliorato: da una parte si lavorava sugli attrezzi già esistenti, alleggerendoli o migliorando e quindi diversificando le loro funzioni; dall’altra se ne inventavano addirittura di nuovi, che rispondevano alle nuove esigenze o le creavano. È sempre stato indiscutibile che da una parte, con l’uso appropriato di nuovi attrezzi, si migliorava la sicurezza e dall’altra si producevano imprese sempre più stupefacenti.

È stata, a questo punto, sostenuta da alcuni la pretesa che in altri tempi l’alpinismo fosse più puro e quindi più eroico, proprio perché allora non si poteva usufruire di tanti ammennicoli di recente introduzione.

Io ho sempre difeso la tesi che, tranne leggeri spostamenti di brevissima durata, il livello psicofisico dell’impegno umano tra le imprese di una volta e quelle odierne sia rimasto inalterato. Se ora mi si chiedesse, però, di dimostrare ancora una volta questa tesi, andrei certamente fuori tema, perché qui si tratta di discutere l’attrezzo nell’alpinismo futuro e non nei rapporti con quello passato.

Ho voluto riportare il concetto di uguaglianza dell’impegno psicofisico solo come base al mio discorso. Senza questa base esso non si reggerebbe.

Passo quindi ad indagare sulla tendenza attuale. Oggi il campionario del rappresentante di articoli per alpinismo si è ingigantito rispetto solo a venti anni fa; così pure il nostro corredo personale. Le ditte sono impegnatissime a studiare sempre più elaborati prodotti, sempre più specializzati, più fun­zionali e bisogna riconoscere che lo scopo è più volte raggiunto. Bastereb­be osservare l’evoluzione che hanno avuto le corde, i ramponi, i chiodi, le piccozze. In risposta ai consigli tecnici, a coronamento delle innumerevoli esperienze delle spedizioni, si fabbricano oggetti che spesso si possono defi­nire perfetti. Una volta l’alpinismo era classificato uno sport economico, oggi nessuno più si sente di sostenere ciò e il primo paragone che sorge spontaneo viene con lo sci da pista.

Anche se non è possibile in questa sede elencare tutto ciò che di più inconsueto è apparso nell’armamentario degli arrampicatori, vorrei comun­que accennare alle varie novità. È ormai tre anni che, dapprima timida­mente, poi in maniera sempre più perentoria, si sta diffondendo l’uso della salopette. Ciò che prima era riservato alle necessità himalayane, lo ritrovia­mo adesso, anche se in versione ridotta, sulle nostre Alpi.

I vantaggi portati da questo indumento sono molteplici ed è auspicabile l’introduzione di un nuovo modello che non si fermi all’altezza del ginoc­chio ma che scenda fino alle caviglie. Sempre rimanendo nelle novità signi­ficative, è recente la comparsa della moffola Cecchinel a cinque dita, che permette una presa totale ed è calda quanto una moffola classica e pratica come un guanto. È imbottita di pura lana e rexo-therm. Ma il punto sul quale i cervelli tecnologici più hanno combattuto è stato il famoso rapporto impermeabilità-condensazione. Ora sembra finalmente che ci sia una riso­luzione, infatti gli americani hanno realizzato giacche imbottite e sacchi piuma di una leggerezza incredibile, completamente impermeabili e con una buona dose di traspirazione. La giacca duvet ha l’interno di gore-tex, un nuovo tessuto, l’esterno in nylon antistrappo.

Per assicurare il calore qui non è necessaria una grande quantità di piu­ma: solo 170 grammi. Peso e ingombro, anche per ciò che riguarda il sacco piuma, che pesa solo un chilo e mezzo, sono eliminati e pure la traspirazione è assicurata. Anche nelle tendine d’alta quota si sono sentiti gli stessi problemi, ma forse la soluzione definitiva non esiste ancora.

Zaini: le attenzioni sono rivolte ormai alla forma e alla traspirazione della parte a contatto con la schiena. Ormai i modelli di punta, come il nuovo Millet Nanda Devi, hanno il dorso in pelle; alcuni modelli sono anatomici, cioè sposano la linea della schiena, oltre che essere forniti in più misure.

Ormai scontata è la regolazione manuale della parte superiore degli spal­lacci.
Per i fornelli la Camping Gaz ha, dai tempi dello Sperone Ovest del Makalu, introdotto l’uso del propano che dà più calorie ad alta quota che non il bu­tano. Invece i fornelli a benzina o ad alcol, ad esempio le marche Primus e Optimus, hanno creato piccoli capolavori di leggerezza e di compattezza.

Una cosa ho osservato: negli ultimissimi anni, ormai pochi usano scende­re a corda doppia con i metodi semplici di una volta. L’uso del discensore, e particolarmente del Fameau o similari, è diventato generale. La discesa ha dimezzato con esso i suoi tempi, anche la fatica è diminuita e con lei il pericolo. Questa abitudine è collegata con la diffusione dell’imbragatura la quale, per altro, non ha ancora raggiunto soluzioni ottimali che contem­plino insieme sicurezza, comodità e funzionalità d’uso, sia nella normale arrampicata che nella risalita delle corde fisse.

Grosse rivoluzioni pure nei singoli terreni. Su ghiaccio, dopo il via di Walter Cecchinel e Claude Jager sul Couloir Nord del Dru, le ditte si sono scatenate e sfor­nano sempre nuove forme per la risalita con la tecnica della piccozza e del martello.

Il chiodo da ghiaccio ultimissimo è quello Chouinard, in quattro differenti misure, che di pregevole presenta un occhiello ellittico perché il carico del moschettone sia disposto in una sola direzione, una filettatura più tagliente, un tubolare più spesso per avere maggiore carico di rottura e minor spostamento di ghiaccio dalla sua sede. In più, quattro dentini all’inizio della filettatura, invece dei due tradizionali, penetrano il ghiaccio dolcemente, con spreco minore di energia, senza romperlo. Alla fine dei dentini un semplice congegno fa in modo che il ghiaccio non penetri all’interno del tubolare ma fuoriesca tutto lungo la filettatura. Il modello da 22 centimetri pesa 142 grammi. Compaiono già i primi chiodi da ghiaccio al titanio, come già si è visto per i ramponi. Per questi ultimi la novità consiste nel modello Charlet Moser da arrampicata su misto.

Le cose più impensate le scopriamo nell’equipaggiamento per l’arrampicata su roccia. Dai tempi in cui si vide il primo Cliff-Hanger, specie di uncino per attaccarsi alle piccole sporgenze, il materiale ha fatto altra strada, sia per il peso, vedi titanio, sia per le forme sempre più specializzate. Quasi si può pensare al giorno in cui ci saranno più tipi di chiodi che tipi di fessure. I dadi d’arrampicata sono sempre più diffusi, dai più piccoli, che quasi è difficoltoso tenere in mano, ai più grossi. Ormai l’abilità risiede nell’abbinarli convenientemente in certe fessure.

Famosi i famigerati «copperhead» che, con l’aiuto di un martello, vengono spalmati sulle asperità della parete e tengono solo per qualche decina di secondi il peso di un uomo, immobile e con il fiato sospeso. Con queste novità si è arrivati in California a salire tratti classificati di A5. Cosa vuoi dire A5? Significa che se si cade, cioè se qualcosa si stacca sotto il nostro peso, si deve compiere un volo di almeno venti metri, staccando tutto quanto è servito per salire. Se non sono venti metri si rimane nei limiti di A4…

Siamo al punto che oggi sono stati persino ideati i cibi per le lunghe permanenze in montagna, e quasi per ogni tipo diverso di roccia o di terreno è richiesto un diverso tipo di scarpone o di zaino. All’esperienza alpina ed himalayana si sono aggiunti le esperienze e i suggerimenti, che a volte sono i più tentatori, delle palestre inglesi e dei colossi di granito della California.

Di fronte a questo immane bagaglio le tendenze sono tre.

La prima è di comprare tutto ciò che viene suggerito, consumisticamente. Questa tendenza è seguita particolarmente da quelli che sono ancora sprovveduti, che non sanno che sarà molto difficile che su una parete normale usino per esempio i cunei allargabili a piacere, oppure non capiscono che la reale differenza tra una giacca a vento e un’altra non vale la differenza di 20.000 lire.

La seconda è di comprare e usare sempre cose nuove e eccitanti, che possono dare nuove esperienze.

La terza tendenza è propria unicamente degli ultimi dieci anni: sfrondare l’equipaggiamento delle cose la cui mancanza comporta una maggiorazione delle difficoltà in montagna. Siccome direi che è questo il punto fondamentale, vorrei riportare qui alcuni esempi. L’eliminazione del famigerato chiodo a pressione, per la quale tante battaglie furono sostenute e tanti articoli furono scritti pro e contro, ha portato come conseguenza l’eliminazione di altri oggetti. Alla caterva di tintinnanti chiodi si stanno gradualmente sostituendo i più ecologici rosari di dadi di arrampicata e di fettucce di nylon; seguendo questa strada si arriva alle prime ascensioni «hammerless», senza martello, che, quando non ci sono più chiodi da piantare, diventa inutile.

Agli scarponi pesanti si sta sostituendo sempre più, anche dove non dovrebbe, la pedulina d’arrampicata a suola liscia e porosa: qui diventa motivo di orgoglio aver salito, per esempio, la Magnone al Petit Dru con tali scarpette e ciò che prima sembrava un’evidente imprudenza (sotto sotto valutata come un’azione da duri), oggi è normalità. Stesso discorso per i pantaloni pesanti di lana, sostituiti da blue jeans che, per di più sono logori, rattoppati o meglio sbrindellati senza rattoppi. Sia ben chiaro che parlo di queste cose perché so che esistono, anche se ovviamente i meno giovani non le approvano e non le vogliono riconoscere.

E che dire poi di certi zaini ridottissimi, dei caschi che volontariamente sono lasciati a casa? Conosco anche ragazzi che non si portano più con sé neppure le quattro prugne secche d’obbligo.

Tutti questi ingombranti aggeggi fanno parte del cerimoniale di una volta. Oggi il rito si consuma per mezzo di altri gesti: allacciare alla perfezione, con una cura che rasenta la fissazione, le proprie scarpette; il sacchetto di «poff», polvere di magnesio, alla cintola, la benda per tenere su i capelli, le cinture da polso, i guanti di seta per le ruvide arrampicate in fessura…

Si dirà che tutto questo non ha niente a che fare con l’alpinismo d’alta quota, ma io dico che non è vero, primo perché già nel gruppo del Monte Bianco succedono spesso queste cose, lo provano da una parte i risultati e i tempi record, le solitarie, dall’altra alcune tragedie cosiddette «inspiegabili», e secondo perché questa tendenza ha ormai influenzato anche le salite andine, patagoniche e himalayane. Ai chilometri di corda fissa, alla congerie di campi d’alta quota si stanno sostituendo piccoli gruppetti di alpinisti che hanno oltrepassato questo stadio e bivaccano in piccole tendine trasportabili oppure in buche nella neve.

Anche qui i risultati si fanno vedere, vedi i tre ragazzi americani che salgono il Cerro Egger, vedi i recenti exploit al Tirich Mir, all’Hidden Peak, al Changabang, all’Annapurna 4 e altri ancora, come quello di Charlie Porter che sale da solo lo sperone Cassin al Mount McKinley.

A questo punto interviene la domanda: quali materiali permettono un vero passo avanti rispetto a ieri?

Nella lettera di invito a questo convegno, che sicuramente tutti avete ben letto, ci si chiede se può essere «umanizzato» l’alpinismo. Se può essere o no trasformato in una equilibrata attività spirituale e tecnica, non necessariamente visionaria, angosciosa, incomprensibile alla pubblica opinione. Nessun «perché» si va in montagna, ciascuno sapendo rispondere da sé. Io non sono dell’opinione che ciascuno di noi sappia dare una verosimile risposta a questa domanda, d’altra parte è nello spirito del convegno di collaborare per un discorso in questo senso utile e concreto, quindi non troppo filosofico o moralistico.

Quando però ci si chiede se è possibile un’umanizzazione dell’alpinismo, non è più possibile dimenticare le ragioni arcane per cui lo pratichiamo. Quale «equilibrio» è possibile se continuiamo a sognare «passi avanti rispetto a ieri»? Non ci può non essere visione o angoscia finché si mira all’alto.

Ma a me è stato chiesto di scrivere una relazione sul problema del rapporto tra i materiali e i progressi in montagna. Mi premeva solo di appurare che non si può tentare di risolvere questo problema nell’ambito di una «umanizzazione». I dislivelli psichici continueranno ad essere conservati fino a che ci interesserà il progresso tecnico.

Ma cos’è un vero passo avanti? Se vogliamo imprese sempre più mirabolanti in se stesse occorre proseguire, oltre che in tecnica di roccia e di ghiaccio, anche sulla strada degli ultimi ritrovati del materiale. Se invece diamo maggiore importanza al soggetto, all’alpinista e quindi alle condizioni in cui egli opera per ottenere imprese che sempre più accentrino l’interesse sull’uomo, allora non rimane che diminuire la quantità di materiale. Classico esempio: l’Everest senza ossigeno. In questi termini noi dobbiamo porci il problema se ci interessa più l’uomo o la parete, senza sperare però, in entrambi i casi, che l’uomo possa averne un beneficio di umanizzazione e di serenità.

Vorrei qui parlare non alle vostre coscienze, ma più propriamente a quella parte di noi che non è sottoposta al raziocinio, quella parte che è molto ben nascosta e inconfondibile e che io ho e sento, e non sono il solo, perché se fossi solo allora sarei diverso io e probabilmente pazzo.

Vorrei dare un’immagine a ciò che io sento come il problema reale. Ci si possono immaginare alcuni uomini completamente al buio su una grande cengia. Uno di loro accende una lampadina elettrica e così riesce a vedere gli altri senza essere visto. Ma costoro, a quel chiarore vago, riescono a procurarsi delle altre lampade. E così tutti insieme fanno a gara a chi corre più forte sulla cengia e ogni tanto qualcuno inciampa e cade nel vuoto. I più bravi decidono che per divertirsi di più è meglio correre al buio senza l’aiuto di alcuna luce.

E così avanti e indietro, che nelle teorie più eroicistiche, chi trotterellando per allenarsi, chi soltanto per giocare magari a rialzo o a mosca cieca, chi parla di crisi, che esiste ma che purtroppo è ritenuta superabile con il semplice mutare i fattori della moltiplicazione, chi s’inquadra al passo dell’oca e allo squillo delle fanfare, chi propone di fermarci tutti e fumare il calumet della pace. Visto che nessuno vuole ritornare in città, chi per primo di loro si deciderà a salire verso la fine della parete? Occorre proprio aspettare l’alba? Ma quando questa arriverà, probabilmente saremo tutti stanchi di correre. Siamo tutti prigionieri di quella cengia e credo che non ci sarà nessun mezzo, nessun attrezzo e nessun sistema nuovo che ci servirà mai a qualcosa se non a perpetuare il nostro ormai vecchio bel gioco. Probabilmente dovremo spogliarci non solo di tutto il nostro corredo, ma anche dei nostri vestiti per poter affrontare la vera parete che ancora dobbiamo scalare.

Sarei tentato di terminare a questo punto e sarebbe facile. Prima di concludere vorrei però dire due parole sul problema didattico. Non credo che dovrà mai nessuno dire ad un giovanissimo che vuole scalare di non farlo oppure come deve farlo. A tutti noi è aperta la nostra strada in montagna e dovremo servirci dei mezzi e degli strumenti che via via riterremo più opportuni, consigliando i nuovi venuti nella maniera più evolutiva, mostrando al massimo una direzione, lasciando che questi scoprano le loro mete e i loro cosiddetti «veri» passi avanti. Proprio perché sull’ultima vera parete non ci si può legare a nessuna corda, non si può essere spinti dal di dietro né tirati da sopra. E, secondo il mio parere, chi ha attaccato, chi è impegnato non parla con nessuno, non può sprecare energie a parlare a quelli che corrono di sotto sulla cengia. Ha bisogno di tutta la sua energia vitale, deve richiamare dai vari oggetti ogni sua attenzione e deve concentrare la sua violenza psichica soltanto sulle sue proprie cellule.

L’eroe è tale solo perché c’è chi lo applaude e chi lo fa morire. Questa non è la filosofia, è solo AZIONE, un tipo d’azione che noi ancora non conosciamo, tranne rare eccezioni.

Ognuno deve procedere da solo. Finché c’è la disponibilità a giocare in montagna è inutile, anche se varie volte può essere giudicato opportuno, mutare le regole del gioco: queste non modificheranno mai la nostra buona o cattiva fortuna nel gioco o le nostre reali attitudini verso l’ultimo vero ostacolo.

(Applausi prolungati)

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Sesto grado in assemblea – 1 ultima modifica: 2024-08-16T05:48:00+02:00 da GognaBlog

3 pensieri su “Sesto grado in assemblea – 1”

  1. Due punti sopra tutti: relazione che ci riporta ai tempi del passaggio tra l’alpinismo “di prima” e quello moderno, con un’apertura verso quest’ultimo inserita nella temperie “culturale” di quegli anni (d’altronde era un’assemblea, e allora se ne facevano miriadi, su tutto…), e poi l’immagine della cengia, che mi ha ricordato quella della grotta di Platone. Pezzo profondo, quasi visionario, lettura affascinante!

  2. Ma perché “moffole”? Non si dice “mUffole”? È così peraltro anche in latino (muffola=guanto), da cui tra l’ altro la parola “muffa”

  3. Credo che su “Intelligenza artificiale” di Elli & Pezzoli del 2016 (presentato su Gognablog nel dicembre di quell’ anno) sia specificato il ‘modus operandi’ del fissaggio dei copperheads. Se si utilizza il solo martello dubito fortemente che possano tenere più di 1 o 2 secondi… L’artificiale difficile (dall’ A3 moderno in su) prevede la conoscenza accurata di tecniche specifiche, altrimenti farsi tanto male è inevitabile.

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