I Social influenzano le decisioni sulla neve
di Jason Blevins (jblevins@denverpost.com)
(pubblicato su www.denverpost.com il 10 ottobre 2016)
BRECKENRIDGE – Un video di Emery Rheam ci mostra dei teenagers che fanno acrobazie nella neve polverosa di una zona di distacco valanga sul Teton Pass (Wyoming). Nel centro conferenze di Breckenridge, sono circa mille le persone che vi assistono: sono nivologi e guide alpine che si sono incontrati lì per l’annuale International Snow Science Workshop (ISSW). Tutti trasalgono e mormorano scuotendo la testa.
Quei ragazzi, dice la Rheam, hanno fatto a gara giù per il pendio e hanno postato online il loro exploit, alimentando una partita di esagerazione che li mette in competizione non solo uno con l’altro ma con la rete intera. E’ uno scenario che si gioca nel social virtuale che però ha tali conseguenze nella pratica da impensierire gli educatori e chi si occupa di previsione di valanghe.
E’ troppo facile per la vecchia generazione condannare i social media. Ciò è davvero normale per istruttori e previsori di una certa età che spesso giudicano male ciò che vedono nei filmati o su Instagram, Facebook o Twitter.
Scott Toepfer, a destra, ripercorre la tragica valanga del 20 aprile 2013 dello Sheep Creek (vicino al Loveland Pass, Colorado). Foto: Helen H. Richardson, The Denver Post.
“Dire che questi ragazzi sono solo un branco di idioti, è l’approccio sbagliato” ci dice Scott Toepfer, un previsore del Colorado Avalanche Information Center “Bisogna educarli e quindi bisogna portarli a comprendere che è davvero figo saperne di più sulle valanghe e sulla sicurezza”.
Negli USA ogni anno muoiono circa 27 persone per valanga. Il Colorado è di gran lunga il paese più “mortale”, con 62 morti registrati tra il 2005 e il 2015. E tra i 270 morti in Colorado, a partire dal 1950, la grande maggioranza è costituita da persone di circa 29 anni, l’età nella quale l’uso dei social media è al suo picco.
“I social giocano una parte fondamentale nel loro prendere decisioni” dice Emery Rheam, una ragazza di 16 anni di Jackson (Wyoming) che ha studiato gli sciatori più giovani per come questi vedono la sicurezza di fronte alle valanghe “ma il terreno sul quale sono, quello che possono raggiungere e sciare, alla fine vince”.
L’istruzione sulla sicurezza da valanga è a un bivio. Gli esperti che erano soliti preoccuparsi soltanto che gli appassionati di backcountry e sci potessero abituarsi a riconoscere la struttura della neve, le condizioni meteo e il terreno, ora devono considerare anche i modi con i quali gli onnipresenti filmati, fatti con i cellulari, con la GoPro o con altri sistemi di documentazione, stanno facendo pressione sugli stessi appassionati quando devono prendere delle decisioni.
“Questo fenomeno dei social ha davvero aggiunto complessità al messaggio che la previsione valanghe deve dare” dice Toepfer, ricordando quelle poche volte in cui, giungendo alla fine di qualche cresta, aveva trovato sciatori che si preparavano alla discesa postando foto online “Oggi lo vediamo sempre più spesso. E’ un misto di tecnologia del gioco e scienza: una sfida tremenda”.
Il prestigioso ISSW, un seminario che annualmente riunisce dozzine di scienziati di fama mondiale che portano relazioni approfondite e casi da tutto il mondo della neve, per lungo tempo si è focalizzato sui dati concreti come la previsione del tempo, l’analisi dei cristalli di neve o nuove strumentazioni. Il workshop è tornato a Breckenridge dopo 24 anni di assenza, giusto quando sulle montagne del Colorado è caduta la prima neve della stagione 2016-17, formando lo strato di neve che determinerà la stabilità degli strati successivi fino alla prossima primavera.
Nell’ultima decade il seminario è andato oltre la scienza specifica, affrontando temi di comportamento e di psicologia con i relativi esperti, visto che un crescente numero di incidenti rivelava che backcountry travelers, pur ben preparati e addestrati e spesso in azione in gruppo numeroso, quando erano su terreno valangoso prendevano decisioni sbagliate.
La valanga di Sheep Creek, 20 aprile 2013 (5 vittime)
Quegli incidenti, incluse la valanga di Tunnel Creek del 2012 che uccise tre persone e quella del 2013 che dal Mount Sniktau rovinò sullo Sheep Creek vicino al Loveland Pass e che fece cinque vittime, avevano costretto gli istruttori ad andare oltre a quegli aspetti dell’escursione in zona pericolosa che possono essere sotto controllo, come l’analisi della neve, la scelta dell’itinerario e le previsioni del tempo: verso capacità di prendere decisioni, difficili da insegnare.
Quest’anno si sono ascoltate relazioni non solo di studiosi della neve, ma anche di neurologi, studiosi del comportamento e psicologi nella certezza che la capacità intuitiva di prendere decisioni in fretta sia essenziale per ridurre il rischio. Una variabile importante come la meteo, il terreno e la stratigrafia del momento.
Travis Brock, direttore dell’Eldora Mountain Resort Ski Patrol. Foto: Jeremy Papasso, The Daily Camera.
Nel 2002 il famoso nivologo Ian McCammon segnò un momento di spartiacque all’ISSW quando riportò la sua meticolosa analisi di circa 600 incidenti da valanga, mostrando che le scorciatoie mentali (di solito regolette empiriche o euristiche) che ciascuno di noi normalmente adotta sono assai pericolose in ambiente da valanga.
McCammon concludeva che i grupponi di gitanti sono maggiormente esposti al rischio che non i gruppetti. Identificava sei trappole euristiche responsabili in buona parte delle cattive decisioni prese da un gruppo: familiarità con quel luogo, membri del gruppo in cerca di riconoscimento da parte degli altri, impegno ad una meta ben precisa, il cosiddetto “alone d’esperto” che avvolge di fatto il leader del momento, la gara per la “prima traccia” e la mentalità competitiva in generale.
Nell’ultima decade gli educatori hanno cercato di far riconoscere quelle trappole, predicando in favore di maggiore capacità di ascolto, di buona comunicazione e di riconoscimento delle dinamiche di gruppo per ottenere la maggior comprensione possibile in ambito di sicurezza. Non è stata una transizione facile.
Se le nostre azioni sono influenzate dalla compagnia in cui siamo, allora gli odierni gitanti connessi ai social non sono influenzati solo dai propri compagni ma dalle migliaia di persone che sono lì presenti grazie ai social.
Corsa contro il tempo in un’esercitazione al Vail Pass, Colorado. Foto: Helen H. Richardson, The Denver Post.
L’esperienza oggi è al tempo stesso individuale e condivisa, anche sulle montagne più remote.
“I partecipanti a una gita devono essere consci che le decisioni prese in ambienti remoti non sono più prese in totale autonomia” dice Jerry Isaak, un professore universitario e guida alpina che ha studiato il ruolo dei social media nella presa di decisioni in backcountry e outdoor “Tecnologia e social hanno radicalmente cambiato la natura di solitudine e lontananza. Ora i nostri “amici” della rete e le comunità social possono viaggiare ovunque assieme a noi sui nostri smartphone. Sono un’audience sempre presente che influisce con forza sulle nostre decisioni in modi non certo possibili in epoca pre-digitale. Per molti ragazzi è la sola realtà di loro conoscenza”.
Mark Kelly, di Haines (Alaska), guida veterana di eliski, ha esposto una sua ricerca che tratteggia un parallelo tra dipendenze, come il gioco d’azzardo e l’alcolismo, e i backcountry travelers che cercano la neve fresca e ripetutamente si vanno a cacciare in situazioni pericolose e potenzialmente catastrofiche.
Kelly dice che il problema è l’immane quantità di filmati di sci, snowboard e motoslitte che ci fanno vedere bravissimi atleti che dominano linee impossibili e scivolano accanto a vere e proprie valanghe. “Prendiamo ad esempio i video che appaiono su Google digitando avalanche ski aggiunge Kelly: “Saltano fuori più di 193.000 risultati… I nostri ospiti sono subissati da queste immagini. Perciò arrivano in Alaska e sembrano proprio dire “E’ qui la figata”. Noi abbiamo ben poco tempo, poche ore, per avvertirli che “No, qui c’è da stare tranquilli e la figata bisogna guadagnarsela”… Il nostro consiglio da istruttori se la deve vedere con ciò che la gente ha già assimilato: video, produttori di materiale e località sciistiche che presentano il territorio sciabile come un qualcosa che non richiede attitudini particolari. Oggi la gente impara sci e snowboard molto in fretta, ma non altrettanto il basilare senso della montagna. Pochi sanno come davvero è là fuori, come trovarsi la via, valutare i rischi e prendere le decisioni giuste”.
Il cane Rosie trova una “vittima” seppellita durante un’esercitazione al Cameron Pass, Colorado, 11 febbraio 2001. Foto: Rich Abrahamson.
Russell Costa, studioso del comportamento in backcountry skiing e professore al Westminster College di Salt Lake City, dice che l’industria deve impegnarsi di più quando tocca il tema delle decisioni da prendere. Egli ha preso in considerazione le dodici pubblicazioni più di successo al riguardo della sicurezza da valanga, quelli più letti e comprati su Amazon o altri siti. Ha analizzato i contenuti, pagina per pagina. Ha riscontrato che l’89% di quanto scritto è centrato sull’analisi fisica della neve, sulla pendenza dei pendii, sui modelli meteo e altre componenti dello studio delle valanghe. Solo l’8% è dedicato alla presa delle decisioni, che quasi si dà per acquisita. Se qualcuno eccelle nello sci, in alpinismo o anche come nivologo non è detto possa prendere sempre le sagge decisioni. “L’arte del decidere dovrebbe essere insegnata separatamente” dice Costa “e non credo che basti il solo tempo passato nella wilderness per apprenderla”.
Come primo step per il riconoscimento che i social sono anche loro responsabili dell’educazione alla sicurezza da valanga si deve ammettere che essi sono l’ultimo capitolo dell’umana necessità che ci ha sempre spinto a condividere una storia in quanto membri di una comunità, continua Isaak, mostrando un graffito norvegese vecchio di 5.000 anni che raffigura uno sciatore, forse il primo esempio di sci da social media… “Le discussioni in un contesto social, i racconti e le identità sono molto più incasinate e più complesse da tratteggiare che non quando si analizzano gli strati di un manto nevoso. Ma bisogna farlo se vogliamo effettivamente indirizzare le sfide sulla neve del XXI secolo”.
Istruttori e meteorologi devono spingere affinché le grosse aziende come la Red Bull o i grandi istituti come il Teton Gravity Research usino i filmati e il materiale social per mostrare il lato figo della sicurezza da valanga, non solo la sua necessità.
Come far vedere ai ragazzi che le mirabolanti evoluzioni acrobatiche vanno d’accordo con il preventivo scavo nella neve per scoprire eventuali strati pericolosi? La risposta della sedicenne Emery Rheam: “Prenderla come uno strumento, non come una minaccia… gli anziani ci hanno provato a ignorare questo fenomeno, ma siamo a un livello tale di uso e dipendenza da non poter più far finta di niente. E’ una realtà, ed è tramite questa che dobbiamo cercare di entare nella mente della generazione dei più giovani”.
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Ciao Andrea, nel 2014 pubblicai questo commento riguardo gli airbag, in sintonia con la tua osservazione e venni coperto di guano sui vari social, soprattutto da addetti ai lavori.
“Il segreto è creare il bisogno, anche quando non serve
Ecco che puntualmente il supermercato della sicurezza dovuta e pretesa ad ogni costo propina al consumatore la soluzione.
Eccellenti gingilli tecnologici di indiscutibile valore intrinseco, che potrebbero trovare qualche applicazione al termine di un lungo percorso di conoscenza, attirano le mosche sul miele, ora illuse d’esser adeguate (e uniformate) alla montagna”.
http://www.stilealpino.it/2014/10/il-segreto-e-creare-il-bisogno-anche-quando-non-serve/
Io non credo che sia solo un problema di social, quelli a massimo amplificano la tendenza.
Oggi in montagna ci vanno più persone, tutto è più semplice e vengono meno quelli che una volta erano i filtri dell’addestramento. I giovani che vanno a mettersi nei guai secondo me non lo fanno per finire su Youtube ma molto più banalmente perchè non conoscono bene i rischi e come valutarli.
Aggiungiamoci poi che l’intoduzione degli Air-Bag ha fatto passare l’idea che di valanga non si muore più, meccanismo già visto nella subacquea con l’introduzione del Nitrox.
Per assurdo credo che oggi stasticamente ci siani meno morti rispetto al volume dei praticanti ma che siano invece aumentati gli incidenti facilmente evitabili.
Come risolvere il problema ? Non lo so ma mi piacerebbe che i maghi del free-ride iniziassero ad utilizzare la loro posizione di opinion leader per parlare di queste cose e far entrare nella testa dei ragazzi che la montagna è un ambiente complicato che richiede conoscenza e preparazione.
Voglio sperare che quella di Matteo sia la classica boutade, ancorché macabra, e che in fondo al cuore la pensi diversamente.
Per il resto concordo sul fatto che ci sia una carenza considerevole in merito alla capacità di prendere decisioni. Credo altresì che tale capacità non possa essere insegnata come materia a sè stante, nel senso che rientra nel più ampio insegnamento di come ci si deve comportare nella vita, non solo per sopravvivere ma per potersi realizzare come persone.
La condivisione attuale attraverso i social (che costituisce in ogni caso un’evoluzione di precedenti forme di comunicazione alle quali i nostri nonni e molti dei nostri padri manco erano abituati) non va demonizzata ma sicuramente non aiuta alla formazione seria e completa di un essere umano. il motivo è semplice, si tratta di una condivisione di tipo orizzontale e non verticale. Manca cioè di un percorso formativo che solo una condivisione di tipo verticale può garantire.
Un tempo si insegnavano i mestieri e, fra questi, anche i mestieri ludici (in questo caso il termine mestiere non è appropriato ma va da sè che quando un’attività viene vissuta in un certo modo diventa quasi un mestiere). Oggi, con la condivisione orizzontale, tutti credono di poter fare tutto.
Matteo, Fabio ti ha risposto per me.
Sull’educazione al tecnicismo e alla mania di protagonismo a tutti i costi per mostrarsi ti do ragione . Ma sul resto mi dispiace , NO!
Per dirla come te, meno male che tra mafiosi si sparano, così si tolgono di mezzo tra di loro e la polizia risparmia fatica e cartucce….
Quando un giovinastro ubriaco si uccide per una bravata a 200 km/h in autostrada, la parte peggiore di me mi spingerebbe a pensare: “Ha avuto ciò che si meritava”.
Però la ragione mi frena: “Non si deve essere contenti per la morte di qualcuno, fosse anche un bullo imbecille”. Vogliamo provare indifferenza? OK, questo è comprensibile. Ma non contentezza.
x Alberto Benassi: francamente mica tanto. La mia empatia e comprensione per un imbecille che si ammazza solo per farsi vedere su un social o fare quello che ha visto su youtube è estremamente bassa. Vale per tutti, sciatori, base-jumper, arrampicatori, motociclisti o chi vuoi tu.
Se è un problema sociale, trattiamolo come tale, ma non è di certo legato alla montagna (se non come accidentale terreno d’azione) e a me non commuove per nulla.
Trovo diverso il discorso per quello che è tranquillo, convinto di non correre alcun rischio perché si è studiato le tecniche e il meteo. Come dice Michele Comi è il frutto di un’educazione al tecnicismo di cui siamo tutti vittime e che alla fine tende alla deresponsabilizzazione personale, perché non ti stimola ad accendere il cervello.
“l’89% di quanto scritto è centrato sull’analisi fisica della neve, sulla pendenza dei pendii, sui modelli meteo e altre componenti dello studio delle valanghe. Solo l’8% è dedicato alla presa delle decisioni, che quasi si dà per acquisita”.
Un dato inequivocabile che interessa tutti e descrive l’attrazione fatale che mostriamo verso l’approfondimento e la ricerca di solidità tecniche, razionali, scordandoci l’importanza delle altrettanto fondamentali e complementari competenze non tecniche legate al fattore umano.
” Il massimo della mia preoccupazione a loro riguardo è che non mi si spiaccichino sull’auto mentre passo davanti al bar delle placche zebrate ad Arco! ”
Spero che la tua sia solamente una battuta un pò ironica.
Mi sembra che parlando del tema di come vengano prese le decisioni e di quali fattori influenzino il processo decisionale (argomenti interessantissimi) , l’articolo faccia un po’ di confusione tra l’influenza inconscia (del gruppo, dell’esperto, del social network) e quella imitativa e cioè in qualche modo conscia (cerco di rifare quello che ho visto su youtube oppure il “se l’ha fatto lui, lo faccio anch’io”).
Il primo punto merita sicuramente un approfondimento e un presa di coscienza: il fatto che i gruppi più numerosi siano quelli più a rischi è sicuramente il contrario del sentire comune.
Il secondo punto secondo me merita al massimo del compatimento e riguarda la nostra società in generale non certo solo la montagna o lo sci. Era ben chiaro nel post di qualche giorno fa sui base-jumper e il fatto che il 99% non lo farebbe se non ci fossero le go-pro e i social.
Il massimo della mia preoccupazione a loro riguardo è che non mi si spiaccichino sull’auto mentre passo davanti al bar delle placche zebrate ad Arco!