Storia di Marcello, macchinista ferroviere – 2

Storia di Marcello, macchinista ferroviere – 2 (2-2)
(che impedì ai nazisti di portarsi via un treno carico di opere d’arte)
di Gianni Repetto
(da Siamo i ribelli: la Resistenza viene da lontano di Gianni Repetto)

Alle 07.45 del 9 febbraio del 1941 cominciò a suonare l’allarme aereo dell’Ansaldo e in pochi secondi tutta la Val Polcevera fu un suono lancinante di sirene. Giuseppe era già uscito per andare al lavoro, mentre Enrico, Velia e Piera stavano facendo colazione prima di andare a scuola.

Marcello dormiva nel lettone con Mario, il più piccolo, era rientrato alle quattro dal turno di notte.

– Presto! Prendete la cartella e preparatevi ad andare giù nel rifugio! – gridò Irma senza perdere tempo.

– Ma mamma, non ho ancora finito il mio latte! – disse Piera piagnucolando.

– Lesta, bevilo, ora c’abbiamo altro da pensare che al tuo latte! – e si precipitò in camera a svegliare suo marito.

– Marcello, prendi il bambino, sta suonando la sirena dell’allarme – gli disse scrollandolo bruscamente.

L’uomo ebbe un soprassalto, come se si risvegliasse da un brutto sogno, poi, dopo un attimo di esitazione, scattò in piedi infilandosi di corsa maglia e pantaloni. Prese Mario, che non si svegliò nemmeno, l’avvolse in una coperta e si precipitò fuori insieme agli altri.

Scesero le scale con il cuore in gola, c’era già una fiumana di gente e si sentiva un mormorio di voci, richiami, saluti frettolosi e imprecazioni. Ma nessuno che prevaricasse, che spingesse per passare per primo.

Il rifugio era nelle cantine del palazzo vicino e una folla trafelata stava arrivando da tutti gli altri palazzi intorno, finché il quartiere fu tutto quanto sgomberato. Si sentiva soltanto qualcuno che ancora questionava per convincere un anziano o un testardo ad abbandonare l’abitazione, poi in pochi minuti furono tutti dentro. Si formarono immediatamente capannelli di conoscenti, di gente che si frequentava per amicizia o per parentela, mentre i bambini si sparsero in giro per l’ampio locale nonostante le raccomandazioni dei genitori di star loro vicini.

Gli adulti discutevano animatamente di quell’allarme improvviso a quell’ora del mattino e c’era un miliziano con tanto di fez in testa che pareva la sapesse lunga.

– U nu l’è ’n ataccu de areoplani! – disse perentorio – Ne sc-paan da u ma, da è nave.

– Epüa, primma d’entrà chìe ó sentìu di bruzzi d’areoplani propriu suvia nuiàtri… – osservò un altro.

Il miliziano, facendo una smorfia di sufficienza, gli rispose: – Sun areoplani da recugnisiùn, serven pè guidà u tìu di canuìn…

E in effetti alle otto e un quarto iniziò il cannoneggiamento. Si sentirono alcune esplosioni lontano e tutti cominciarono a stare con il fiato sospeso.

– Tìen ’ntu portu – disse il miliziano ostentando sicurezza – Ma mi creddu che cumme ubietivu g’aggen l’Ansaldo… Intanto le esplosioni si avvicinavano, finché se ne sentì una fortissima proprio dall’altra parte del Polcevera. A questo punto anche il miliziano tacque, ormai le parole parevano smentite dai fatti.

Marcello Cominetti in divisa durante la Grande Guerra

Anche i bambini avevano smesso di correre e si erano rannicchiati volontariamente vicino alle mamme. Solo Mario continuava a dormire imperterrito in braccio a suo padre.

Le esplosioni dall’altra parte del Polcevera si susseguirono regolari e ogni volta che ne arrivava uno la folla sussultava, sospesa tra un sospiro per lo scampato pericolo e l’angoscia per l’arrivo della prossima. Il miliziano azzardò un’ultima considerazione, fatta però con un filo di voce: – Sc-tan bumbardandu è fabriche de là… – e le sue parole risuonarono come un ingenuo tentativo di tener lontana la cattiva sorte. Quando però un proiettile calibro 381 colpì il palazzo numero 48 di Via Umberto I facendo tremare le pareti del rifugio, tutti gridarono all’unisono, compreso il miliziano.

Contemporaneamente andò via la luce lasciandoli nel buio. Ora i bambini piangevano a dirotto e a niente valevano le rassicurazioni di madri e di padri anch’essi atterriti. Intanto Mario si era svegliato e, avvolto da quelle tenebre inaspettate, si spaventò a tal punto da mettersi a gridare come un ossesso e ci volle Irma per riuscire a calmarlo.

Le esplosioni ripresero sulla sponda opposta, ripetute e incalzanti; poi man mano si fecero più rade, fino a cessare del tutto. Ritornò anche la luce, accolta da un’ovazione. Ma bastò un’altra esplosione vicina, perché tutti gridassero nuovamente gettandosi a terra d’istinto. In silenzio, trepidanti, speravano forse in cuor loro che quell’ultima esplosione poderosa fosse come il botto che segna la fine dello spettacolo dei fuochi di artificio.

Il suono delle sirene arrivò come una liberazione. Allora cominciarono ad abbracciarsi e a scambiarsi battute spiritose, dato che il pericolo ormai era passato. Poi però qualcuno fece notare che da qualche altra parte nella città forse non era andata così bene e magari c’erano stati dei morti.

Ma per quanto alla maggior parte di quella gente potesse dispiacere, il fatto di sentirsi vivi e vegeti personalmente continuava ad essere per loro la cosa più importante. Soltanto quando quelli del numero 48 scoprirono che la bomba esplosa lì vicino aveva sventrato il loro palazzo, allora per loro cominciò la tragedia.

– A l’è zà anèta bèn – disse il miliziano guardando le macerie – Mènu male che ghémmu de bèlle baterie de canuìn che ne difenden, se no ti u sé quantu g’avièivimu da cianze de ciü…

– Eh, sci, gh’émmu propriu de bèlle baterie… – disse un vecchio che si muoveva zoppicando appoggiato al suo bastone da passeggio. Poi si fermò e, agitando il bastone verso il miliziano, gli disse infuriato:

– Va a dìghelu a quèli lì che bèlle batterie che gh’émmu, scémmu chi ti n’è âtru… Va a dìghelu a luiàtri… Il miliziano a quelle parole trasalì e rigirandosi con uno sguardo minaccioso gli rispose: – Nu te basc-tóu sc-ta derèntu in mèize pè u tö mugugnà? Sc-tann-i aténtu perchè mi tè ghe fassu anà turna, sciù bandiera rossa…

– E mi té u diggu turna che t’è scemmu, se no t’aviessci u bun sensu de sc-ta sittu!

Nel frattempo Marcello si era avvicinato al vecchio e, dopo averlo preso per un braccio, lo aveva trascinato via.

– Lascialo perdere – gli disse sussurrando – lo sai che è vendicativo…

– Eh, belìn, nu ghe a fassu ciü a sentì è belinate che dìxen quèli crovi lì, nu ghe a fassu… – continuava a brontolare il vecchio – Propriu lu che n’an purtou ’nti sc-ta belìn de guêra… ma u venià nu bèllu giurnu che s’é levémmu da ’nte balle, u venià scì o no?

– Sì, sì, verrà… stai tranquillo, verrà… – e lo accompagnò fino al portone del suo palazzo.

Mentre Irma saliva le scale del numero 36 con Mario in braccio, Enrico le chiese: – Mamma, ci andiamo a scuola?

Lei lo guardò severa, poi addolcendo lo sguardo disse: – Per oggi l’avete fatta qui la scuola, e penso che basti.

Ci fu un urlo di gioia e i bambini le saltarono addosso coprendola di baci.


Scampato il pericolo del bombardamento navale inglese, Marcello e Irma, convinti che ce ne sarebbero stati altri, presero una dolorosa decisione: per sicurezza lei doveva trasferirsi con i bambini a Tambra d’Alpago, a casa dei suoi, finché fosse durata la guerra, mentre Marcello e Giuseppe sarebbero rimasti a Genova e avrebbero cercato di raggiungerli ogni tanto con ferie e permessi. Così fecero e furono per entrambi anni difficili, loro esposti al rischio dei bombardamenti (Genova subì da allora in poi ben 86 incursioni aeree che provocarono circa 9.000 vittime) e la famiglia lontana raggiunta solo qualche volta con viaggi massacranti e talora anche pericolosi.

Finché il 25 luglio 1943 spazzò via il fascismo come un ciclone. Giuseppe, che frequentava il Partito Comunista clandestino, ne aveva parlato con suo padre di ciò che si diceva al Partito, che presto ci sarebbe stata una crisi, ma la notizia ufficiale che campeggiava sui giornali quella sera andò oltre ogni aspettativa: Mussolini era stato destituito dal suo stesso Gran Consiglio e il Re aveva nominato capo del governo il maresciallo Badoglio; il partito fascista, fino ad allora tronfio e tracotante, era già allo sbando, sciolto come neve al sole; i capi fascisti delle città venivano arrestati dai Carabinieri.

A Genova, città operaia dove era nato il Partito Socialista, il giorno 26, a partire già dal primo mattino, ci fu un’ondata di manifestazioni spontanee antifasciste che partirono dalle fabbriche e dai quartieri popolari per andare ad attaccare le “Case del Fascio” e le altre sedi fasciste, ma anche le case dei gerarchi e dei loro finanziatori. Apparvero scritte ovunque, sui muri della città e nelle fabbriche, e vennero distrutte le immagini del Duce e i simboli del regime. Improvvisamente sembrò che tutti i genovesi fossero stati antifascisti, anche coloro che il distintivo fascista se l’erano portato anche a letto. Ma più che altro la gente festeggiò la presunta fine della guerra che nella sua immaginazione voleva dire anche la fine dei bombardamenti e di tutti i disagi subiti nei tre anni precedenti.

La sera del 26, una sera con un po’ di brezza di monte dopo il caldo afoso dei giorni precedenti, Marcello stava preparando il minestrone nella cucina della casa al n. 36 di via Umberto I e lo faceva con le poche verdure che era riuscito a trovare al mercato nero di Sampierdarena: qualche patata, un pugno di fagioli secchi, un altro di fave e una cipolla. Il prezzemolo ce l’aveva lui nel vaso che teneva sul balcone e lo stava tritando sul tagliere proprio nel momento in cui Giuseppe rincasò.

Il ragazzo entrò fischiettando allegramente una canzone ed era scarmigliato e tutto acceso in viso come se tornasse da una scampagnata.

– Pa’, avresti dovuto esserci, ti saresti tolto un sacco di soddisfazioni! – disse il ragazzo andando dritto a bere alla canna del rubinetto della cucina – Avessi visto… come scappavano… i fascisti… gettavano le divise… si nascondevano dappertutto… ne abbiamo trovato anche nelle fogne! Marcello non rispose, continuò a tritare il prezzemolo sul tagliere.

– Noi ci siamo divisi in due gruppi: io e una ventina di altri siamo andati all’Universale e, dopo aver fatto scappare i guardiani, abbiamo buttato giù dalle finestre tutta la propaganda fascista che c’era là dentro e ci abbiamo fatto il falò; gli altri sono andati a dare una scrollata a quel fascista che vende vini in via Mazzucco e, dal momento che aveva ancora il coraggio di minacciare, gli hanno sfondato una botte e il vino correva giù per la strada che pareva un torrente… Marcello taceva, ma si vedeva che era nervoso. Intanto Giuseppe continuava a raccontare senza posa.

– Mi hanno detto che anche a Rivarolo hanno bruciato tutto quello che c’era nel castello Foltzer e hanno anche suonato due fascisti che cercavano di impedirglielo. E che a Pontedecimo hanno devastato la sede del fascio e poi sono andati nello studio del dottor Bologna e hanno buttato tutta l’attrezzatura che c’era giù nella strada, pensa, perfino un pianoforte, che dopo essersi fracassato sull’asfalto ha cominciato a suonare da solo… A questo punto Marcello accentuò i colpi di mezzaluna sul tagliere.

– Ma che c’è, pa’, non lo sei contento? – gli disse Giuseppe sconcertato per il suo atteggiamento.

Marcello finì di tritare il prezzemolo, pulì minuziosamente il coltello con uno straccio, lo rimise nel cassetto e infine guardò suo figlio con un’espressione di sconforto.

– Capisco il tuo entusiasmo e quello di tanti genovesi – disse – ma non mi piace questo clima di caccia all’uomo che rischia di degenerare in atti violenti… Giuseppe guardò suo padre perplesso.

– Ci sono fascisti e fascisti – continuò Marcello – non sono tutti uguali: c’è chi ha approfittato del regime per fare i suoi interessi o per fare il prepotente e chi si è semplicemente adeguato alla situazione oppure ci ha creduto veramente. Ecco, il dottor Bologna è uno di quelli, uno che ha sì l’idea sbagliata del fascio, ma che è sempre stato generoso con la povera gente, curandola anche gratuitamente…

– Ma pa’ – lo interruppe Giuseppe deciso – dappertutto c’è un clima di rivoluzione e tu capisci che è difficile fare delle distinzioni e non commettere qualche ingiustizia… ci sono un sacco di teste calde che se mai provi a trattenerle ti accusano di stare con gli altri… Marcello scrollò la testa ripetutamente.

– Ciò che mi dici conferma la mia idea che da queste violenze non può venire nulla di buono… perché questo non è un clima di rivoluzione… le rivoluzioni non sono vendette personali, mirano a cambiare la società rendendola più umana… non si possono quindi fondare sull’odio e sulla violenza. Che deve essere minima, quella indispensabile per punire giustamente coloro che si sono macchiati di delitti inaccettabili. E ci sono, e devono essere arrestati e giudicati… Ma, vedrai, non succederà nulla di tutto questo, altro che rivoluzione…

– Cosa vorresti dire – disse Giuseppe in tono quasi risentito – che tutto quello che stiamo facendo è assolutamente inutile, lo sfogo di quattro stupidi che credono che le cose cambieranno?

– Ascolta, Giuseppe, ne ho vissuto tante situazioni del genere, lo sai, e ho maturato la convinzione che quelli che gridano più forte sono anche poi i più lesti a passare dall’altra parte…

Marcello Cominetti, Irma Svalduz e il primogenito Giuseppe

– e qui fece una pausa. – Vedrai che il nuovo governo non affronterà seriamente la questione del fascismo, ma, appena la gente si sarà sfogata, riprenderà in mano la situazione con lo stesso atteggiamento del governo fascista, magari senza più simboli o colori di camicia. Ciò che hanno fatto in questi giorni giù a Roma è solo il tentativo di salvare il re e tutta la sua cricca dalla catastrofe in cui sono finiti a causa della guerra. A loro non interessa niente degli italiani, vogliono solo mettere le mani avanti per conservare ancora il loro potere.

Giuseppe guardava suo padre incredulo, ferito nel suo entusiasmo.

– Credi, dunque, davvero che non cambierà niente e che tutto resterà come prima? E che la nostra è soltanto un’illusione, un fuoco di paglia? Marcello aggrottò la fronte e si morse le labbra. Poi, annuendo, disse: – Credo proprio di sì. Anzi, credo anche che la guerra non sia ancora finita e che non finirà tanto presto. Di sicuro ne vedremo ancora delle belle…

Poi, dal momento che l’acqua nella pentola bolliva, prese le verdure dal tagliere e ve le gettò dentro.

Ciò che aveva previsto Marcello si verificò puntualmente: il 27 luglio il governo Badoglio emanò la cosiddetta “circolare Roatta”, rivolta a tutti i reparti militari e alle forze di polizia, tesa a reprimere sul nascere, anche con l’uso delle armi, ogni manifestazione popolare che rischiasse di turbare l’ordine pubblico. La repressione che ne seguì fece cinque vittime e parecchi feriti e fu introdotto lo stato d’assedio nella città con coprifuoco notturno. Il governo, per lo più costituito da militari, riprese dunque in mano la situazione in modo autoritario e i partiti antifascisti, che erano venuti allo scoperto il giorno 26, dovettero tornare ad agire nell’ombra tramite le loro strutture clandestine.

Nel frattempo la guerra continuava, Badoglio l’aveva dichiarato esplicitamente. Il nuovo governo cercava di prendere tempo e di trovare una soluzione per uscire indenne dal conflitto. Ci lavorò tutto il mese di agosto, cercando di ingannare i tedeschi, ma, quando l’8 settembre la radio diffuse la notizia dell’armistizio con le forze alleate firmato a Cassibile, le divisioni della Wermacht avevano già occupato i punti strategici del nostro paese.

Pochi giorni dopo, il 23 settembre, Mussolini, liberato da un commando tedesco a Campo Imperatore e portato in Germania, fondò nell’Italia centro-settentrionale occupata dai nazisti un nuovo stato fascista, la Repubblica Sociale Italiana. Il nuovo stato emanò il 9 novembre un bando di chiamata alle armi per le leve del 1923, 1924 e 1925, che riscosse, però, uno scarso successo. Per questa ragione fu reiterato il 18 febbraio 1944 con la disposizione “pena fucilazione al petto” per gli eventuali renitenti e ciò determinò – nonostante i tentativi di dissuasione da parte di parroci e podestà che si appellavano all’onor di patria – l’esodo di molti giovani delle leve interessate dai paesi e dalle città pedemontane verso i distaccamenti partigiani già costituitisi sull’Appennino.

Anche Giuseppe, che non aveva ottemperato al primo bando continuando a lavorare clandestinamente per il partito, quando il bando fu reiterato, d’accordo con gli organismi dirigenti, decise di salire in montagna.

“Rossi” era stato preciso: gli aveva detto che la mattina del 23 doveva prendere la prima corriera per Campomorone, là ci sarebbe stato un uomo ad aspettarlo, che si sarebbe fatto riconoscere e lui avrebbe dovuto seguirlo senza fare domande; poi qualcun altro l’avrebbe accompagnato in Praglia dove c’era la banda a cui era stato assegnato.

La notte prima della partenza Giuseppe non riuscì a chiudere occhio. Era agitato e si alzava in continuazione o per guardare l’ora o per controllare se aveva messo nella borsa tutto il necessario o per passeggiare avanti e indietro per la stanza come un insensato rimuginando sulla scelta che aveva fatto. E se da un lato era impaziente di andare, di diventare un partigiano della Resistenza, dall’altro sapeva che da quel momento in poi sarebbe stato un bandito e solo se avessero vinto avrebbe potuto un giorno tornare a casa.

Quando uscì dalla stanza, fuori era ancora notte fonda e suo padre lo stava già aspettando seduto al tavolo della cucina con una tazza di caffè d’orzo davanti. Come vide suo figlio, Marcello lo salutò con un cenno e senza chiedergli nulla prese una tazza e gli versò un po’ di caffè dal bricco.

– Ci mangi qualcosa insieme? Pane ce n’è.

Giuseppe si sedette, prese la tazza e cominciò a sorseggiare lentamente il liquido caldo. Intanto Marcello, con lo sguardo perso nel vuoto, rigirava ossessivamente la sua come se ci avesse un pensiero fisso.

– C’è qualcosa che non va? – gli chiese Giuseppe – Mi sembri nervoso…

– Sto pensando a tua madre… Quando le dirò che sei andato in montagna con i partigiani, le verrà un colpo, povera donna…

– E tu per ora non dirle niente…

– No, Giuseppe, non posso. Io e tua madre abbiamo sempre condiviso tutto, non le ho mai nascosto niente. Ogni volta che abbiamo dovuto affrontare una difficoltà, lo abbiamo fatto sempre insieme, alla pari, così come ci eravamo promessi il giorno in cui ci siamo sposati. Del resto lo sai, per me la mamma non è solo mia moglie, ma è anche e soprattutto la mia compagna di vita e di lotta. Senza di lei non ce l’avrei mai fatta a resistere alle minacce e alle intimidazioni che ho subito in questi anni. Perché sarebbe stato più comodo cedere e fare come tanti altri che si sono iscritti al fascio pur di non avere grane. Ma lei non ne ha mai voluto sapere e ha continuato a sostenermi e a spronarmi affinché non smettessi di lottare per la nostra idea di libertà. Eppure era soprattutto lei a pagare per la mia disobbedienza e a dover rinunciare ai favori che il regime concedeva alle famiglie di chi si allineava… Giuseppe guardava suo padre con occhi scintillanti e provava un piacere immenso a sentirlo raccontare quelle cose. E per l’ennesima volta si rendeva conto che nella sua formazione umana e sociale era stato determinante avere alle spalle una famiglia come quella, che gli aveva insegnato fin da bambino da che parte stare: quella di chi subiva ingiustizia, da qualunque parte provenisse. Ed era una cosa che non aveva bisogno di tanti ragionamenti, ma che gli scattava dentro spontaneamente ogni volta che ci si trovava davanti, anche quando manifestarla poteva essere per lui controproducente.

– Se vado in montagna consapevole della mia scelta, è per merito vostro, pa’, per tutto quello che mi avete insegnato. È il frutto della nostra storia familiare e non avrebbe potuto che essere così.

Spero solo che serva davvero a qualcosa… Marcello abbracciò suo figlio come ormai non faceva più da tanto tempo e se lo strinse al petto con vigore quasi volesse fissarne fisicamente il ricordo. Stettero qualche istante così avvinti e ci sarebbero forse stati ancora se non fosse stata l’ora della partenza.

Giuseppe si staccò, guardò suo padre un’ultima volta, poi prese la borsa che aveva preparato, se la mise a tracolla e senza più voltarsi uscì sulle scale.

Marcello sentì i suoi passi vigorosi che scendevano gli scalini a due a due e poi lo sbattere del portone dell’entrata. E anche se non voleva lasciarcisi andare, provò un po’ di magone a sentire quel figlio che se ne andava forse anche per sempre.

La corriera partì puntuale alle 06.15, carica di operai che smontavano dal turno della notte. Visi assonnati, poche parole rituali, qualcuno che si assopiva appena seduto. Ma tutti, come lo videro, capirono all’istante dove Giuseppe stava andando. Eppure, dopo quel primo sguardo, nessuno lo guardò più, come per una tacita approvazione. Soltanto quando scesero uno di loro passandogli vicino gli sussurrò: – Seguimi… – e imboccò un carrugio che si apriva sulla piazza.. Salirono, scesero, passarono portici e strettoie, poi finalmente raggiunsero una casa isolata aggirandola da dietro.

L’operaio fece un fischio e pochi secondi dopo si accese una luce dietro la persiana di una finestra del primo piano. Si sentirono dei passi discendere una scala, dopo di che si aprì una porta lasciando trapelare una lama di luce.

– Entra… – disse una voce quasi allungando una mano per afferrarlo.

L’operaio svanì come un fantasma e Giuseppe entrò. Era un laboratorio di falegnameria e l’uomo che gli faceva luce era un tipo smilzo, con gli occhiali da miope e una tuta da lavoro indosso.

– Sono… – stava per dire Giuseppe, ma l’uomo gli fece cenno di tacere come se non gli interessasse.

Poi, sempre in silenzio, si fece dare la borsa, la vuotò dentro uno zaino e glielo porse dalla parte degli spallacci. Quando furono pronti, uscirono dalla porticina, attraversarono il prato sul retro della casa e presero una crösa che saliva su verso monte.

Marcello Cominetti

Due ore dopo Giuseppe fu preso in consegna dalle sentinelle del distaccamento garibaldino della cascina Poggio.

Marcello seppe del rastrellamento della Benedicta da un suo collega. L’uomo era in servizio il giorno 6 aprile sulla linea Genova-Ovada-Acqui Terme e all’altezza di Campo Ligure aveva visto transitare sulla strada del Turchino una colonna tedesca motorizzata. Aveva poi chiesto al suo collega conduttore e lui gli aveva riferito che aveva sentito dire dal capostazione che stavano salendo a Capanne di Marcarolo perché c’era in atto un rastrellamento. A questa notizia, Marcello si sentì mancare il respiro. Suo figlio era lassù, nel distaccamento della cascina Grilla, come gli aveva fatto sapere nell’ultimo contatto. Proprio nell’occhio del ciclone.

Furono giorni terribili per lui, nella costante attesa di sapere esattamente che cosa era successo, perché continuavano ad arrivare notizie contraddittorie: chi diceva che i partigiani avevano respinto i tedeschi, chi parlava di esecuzioni di massa che avrebbero fatto centinaia di morti, chi tirava già in ballo voci di tradimenti, di spie che avrebbero guidato i carnefici. Poi, il 9 aprile, si presentò in deposito un sappista che raccontò la strage che c’era stata e la deportazione dei sopravvissuti. Ma aggiunse anche che qualcuno ce l’aveva fatta a scappare sfondando da una parte verso la valle Orba e dall’altra verso la valle Scrivia.

Marcello si aggrappò a questa speranza e, quando ormai non ci credeva più, venne “Rossi” in persona a dargli la notizia: Giuseppe era riuscito a passare nella VI Zona, dove operava Bisagno con la Pinan-Cichero, ed era stato inquadrato nella terza brigata Jori. Marcello non riuscì a dire nulla, ma cominciò a piangere sommesso e poi man mano più forte, quasi a dirotto, come un bambino.

Quando poi si calmò “Rossi” gli disse: – Tuo figlio è un ragazzo in gamba, come lo sono tutti quelli che sono su in montagna a combattere anche per noi. Ma non dobbiamo lasciarli soli, anche noi dobbiamo fare la nostra parte. Anche tu Marcello…

Marcello lo guardò con un’espressione interrogativa, non capiva che cosa avrebbe potuto fare un uomo di quasi cinquant’anni, pieno di acciacchi e con i polmoni a pezzi, per aiutare quei ragazzi. “Rossi” proseguì: – Tu sei il decano dei macchinisti del deposito di Rivarolo, nessuno conosce le locomotive come te…

Qui si fermò, come per amplificare la lusinga.

– Ora ascoltami bene: giovedì partirà da Brignole un treno tedesco diretto in Germania. Ma non è un treno normale, trasporta qualcosa di speciale…

Fece un’altra pausa. – È pieno di opere d’arte portate via dai musei non solo di Genova, ma un po’ di tutta Italia.

Un furto in piena regola, con il consenso di Mussolini e della Repubblica – disse scaldandosi. – Se quel treno arriva in Germania, noi italiani perderemo una fetta importante del nostro patrimonio artistico nazionale.

Detto questo tacque, con un’espressione palese di risentimento.

Marcello rimuginò qualche istante le sue parole, poi chiese: – E… cosa avreste pensato di fare?
“Rossi”, riprendendo vigore, disse: – Subito pensavamo di far attaccare il treno nella stazione di Arquata dai partigiani della VI Zona, con il rischio però che, nello scontro armato con le truppe di scorta, il carico possa essere danneggiato se non addirittura distrutto. E allora siamo arrivati alla conclusione che l’unica azione che può garantirne l’integrità è un atto di sabotaggio da parte di chi conduce il treno ed è per questo che abbiamo pensato a te…

A questo punto s’interruppe, scrutando Marcello come per coglierne la reazione. Poi, vedendolo perplesso, aggiunse: – Per la tua storia. Per il tuo passato di Ardito e di militante antifascista. Perché è un’operazione rischiosa e ci vuole una persona esperta, scafata. Deve sembrare un guasto, se no rischi la fucilazione…

Qui fece un’altra pausa. – Non possiamo pretendere che tu lo faccia, ce lo devi dire tu se è possibile e se te la senti… “Rossi” concluse il suo discorso pacatamente, lasciando aperta la sua richiesta. Sapeva che era come chiedere a un uomo di andare al suicidio e quindi non poteva farlo in modo perentorio, ma lasciare alla sua coscienza la decisione.

Marcello, guardando per terra, si passò alcune volte le mani nei capelli come se quella richiesta l’avesse messo di fronte a una scelta impossibile. Poi, appoggiando i gomiti sul tavolo, cercò di analizzare criticamente la questione. – Ciò che mi chiedi non mi spaventa, nonostante tu sappia la mia situazione familiare… se le cose stanno così come tu dici, l’azione va fatta e qualcuno deve farla…

Si fermò un istante. – Ma il problema è come farla. Ci sono un’infinità di modi per mettere fuori uso una locomotiva, ma sono tutti modi che svelerebbero immediatamente la natura del sabotaggio e per me, l’hai già detto anche tu, non ci sarebbe scampo. E, te lo ripeto, se non fosse per quella donna e per quelle creature, le conseguenze non mi spaventerebbero…

Un lampo di commozione attraversò il suo sguardo. – In verità c’è un solo modo per fermare la locomotiva facendolo passare per un incidente…

– E quale sarebbe? – chiese “Rossi” rinfrancato dall’idea che si potesse fare l’azione garantendo l’impunità del macchinista.

– Lo sbalzo di tensione – disse Marcello come se stesse già pensando a come farla.

– Non so cosa sia, spiegami.

– È una disfunzione della linea elettrica dovuta a un carico troppo forte di energia. Quando avviene, le antenne del treno sono a rischio, perché si possono “bruciare”, come diciamo noi in gergo, e bisogna sostituirle. Ma si può anche provocare artificialmente alzando e abbassando velocemente le antenne che subiscono in questo modo uno shock elettrico…

– Ma è possibile riconoscere se è avvenuto spontaneamente o se è stato provocato? – disse “Rossi” con una certa apprensione.

– Assolutamente no. È esattamente la stessa cosa.

“Rossi” non stava più nella pelle: – Ma allora è possibile farlo senza rischi… Marcello assunse un’espressione cauta, riflessiva, poi rispose: – Diciamo che dipende da come la prendono. Se uno non conosce le possibilità del fenomeno, novantanove su cento pensa che sia doloso. L’unica speranza è che si rivolgano ai tecnici della stazione di Arquata che, dal momento che mi conoscono bene, sono sicuro che confermeranno la tesi del guasto all’impianto.

“Rossi” si rigirò sulla sedia come per prendere tempo, sospirò alcune volte e infine disse: – Prima di venire qui a chiederti di fare questa cosa, ci ho pensato tanto e mi sono ripetuto spesso che non potevo chiedere a uno come te, che ha già un figlio nei partigiani e la famiglia lontana, di correre un simile rischio. Ma ora che ne abbiamo parlato non ho più alcun dubbio e credo che soltanto tu, per la tua esperienza e il tuo sangue freddo, sia in grado di portare a termine un’operazione del genere. Quindi ti chiedo espressamente di farlo, ci penserò io a farti mettere di servizio su quel treno.

Era questo “Rossi”, ti lasciava parlare, si commuoveva, ma poi all’improvviso decideva, come del resto deve fare un capo.

Si lasciarono così, senza aggiungere una parola.

La mattina del 12 giugno 1944 Marcello prese servizio a Brignole sul treno merci delle ferrovie tedesche n. 659 – 035. Il capo scorta, un tenente nazista biondo e irsuto a cui si era presentato in qualità di macchinista, lo squadrò con aria strafottente, tipica di chi ha la consapevolezza di poter disporre degli altri a proprio piacimento, e dopo aver fatto un po’ di sarcasmo sulla qualità dei ferrovieri italiani lo aveva lasciato lì su due piedi per raggiungere i suoi soldati.

Assieme all’aiuto macchinista, un certo Semino della Val Polcevera, Marcello si avviò verso il locomotore per controllare che tutto fosse a posto. Poi, fatta la ricognizione, comunicò il “pronti” al capo stazione che con la paletta verde alzata diede il fischio della partenza. Erano le nove e quarantacinque e non erano previste fermate fino ad Arquata.

Marciarono quasi sempre “a vista”, a causa dei danni che la linea aveva subito durante l’ultimo bombardamento alleato, e solo alle 11.05 ebbero l’autorizzazione ad entrare in stazione.

L’impianto era presidiato da Alpenjaeger, c’era stato il giorno prima un attacco partigiano che aveva fatto saltare le rotaie del primo binario per un lungo tratto. Squadre di operai italiani le stavano ripristinando.

Sostarono circa un quarto d’ora al binario tre, finché il capostazione diede loro il via libera. Il locomotore, con i motori al minimo, si mosse lentamente, lanciando due fischi di avvertimento; ma quando ormai il convoglio stava sfilando per uscire in direzione Milano, all’improvviso si vide un lampo sulla locomotiva e il treno cominciò a sussultare e a sferragliare, bloccandosi con grande fragore. Immediatamente si udì la voce del caposcorta urlare ordini a squarciagola e in pochi istanti lui e un gruppo di soldati raggiunsero la locomotiva con i mitra spianati.

Giuseppe Cominetti

Quando Marcello si affacciò al finestrino del locomotore, l’ufficiale nazista gli gridò con un astio feroce: – Perché hai fermato treno? Perché? Marcello scese dalla macchina e cercò di spiegargli che cosa era successo: – C’è stato uno sbalzo di corrente che ha fatto bruciare le antenne – disse senza battere ciglio.

L’altro gli andò incontro minaccioso e dopo averlo afferrato per la collottola gli urlò in faccia: – Che cosa essere sbalzo di corrente? Io non credere te!

Poi, scostandolo bruscamente, salì sul locomotore.

L’aiutante macchinista era bianco come un calzino e non riusciva a spiaccicare parola.

– Dire tu me cosa essere sbalzo di corrente! – gli gridò il nazista.

– Dire tu me cosa essere sbalzo di corrente! – gli ripeté nuovamente nelle orecchie. L’uomo tremava e deglutiva in continuazione. Allora l’ufficiale lo spinse verso la porta e lo cacciò di sotto. Poi scese anche lui.

– Se treno non partire, voi raus, kaput! – disse guardandoli sprezzantemente. Diede poi ordine ai suoi soldati di accompagnarli nell’ufficio del capostazione.

Quando furono al cospetto del capo, l’ufficiale fece ripetere a Marcello che cos’era successo e a ogni parola del macchinista aggiungeva: – Io non credere lui!

Il capo era un uomo pacato, dal lungo servizio, e anche in quel frangente delicato non perse il suo sangue freddo. Aveva capito benissimo che cos’era successo, ma non si tradì e recitò con autorevolezza la sua parte.

– Succede spesso, soprattutto in questi ultimi tempi, che ci siano sulla linea degli sbalzi di tensione. E questo vuol dire che la corrente non arriva sempre con la stessa potenza, ma ogni tanto ci sono dei vuoti energetici seguiti poi all’improvviso da dei carichi eccessivi che sono quelli che provocano la “bruciatura” delle antenne… L’ufficiale lo interruppe bruscamente e gli ordinò di seguirlo per andare a controllare personalmente la locomotiva. Il capo seguì con zelo professionale il nazista e fatto il sopralluogo confermò quanto era successo. L’ufficiale ringhiò qualcosa nei suoi confronti, poi fece riaccompagnare dai suoi uomini Marcello e il suo aiutante nell’ufficio del capostazione: sarebbero rimasti piantonati lì fino a quando non fosse arrivata da Genova un’altra locomotiva.

Ma mentre stavano camminando lungo il binario, suonò all’improvviso l’allarme aereo e allora l’ufficiale, urlando ordini ai soldati, abbandonò i due ferrovieri per ricongiungersi con il resto della truppa.

Marcello e Semino si rifugiarono nel sottopassaggio poco prima che cadessero le prime bombe. Ci furono alcune esplosioni vicine, che fecero staccare dei calcinacci, poi i colpi si allontanarono verso lo Scrivia, forse stavano mirando al ponte per Vignole. L’aiuto macchinista era terrorizzato e ogni volta che cadeva una bomba si gettava a terra gemendo in modo angosciante. Marcello invece non pensava alle bombe, ma temeva soprattutto ciò che avrebbe fatto l’ufficiale nazista una volta finito il bombardamento: di sicuro sarebbe venuto a cercarli e magari, per rappresaglia, avrebbe deciso di fucilarli. Forse era meglio provare a fuggire, ma sarebbe stato come ammettere la propria colpa e diventare da quel momento in poi dei fuorilegge. E allora chi avrebbe pensato alla famiglia visto che già Giuseppe era su in montagna… Nel frattempo suonò la sirena del cessato allarme.

Si udirono dei passi scendere la scalinata del sottopassaggio, forse stavano venendo a prenderli. Ma invece apparve un uomo in tuta da operaio che correva trafelato verso di loro. Era uno scambista della stazione. Disse che nel giro di pochi minuti sarebbe partito un merci per Genova, dovevano sbrigarsi se volevano saltarci sopra. Marcello ci rifletté un attimo, poi, trascinandosi dietro l’aiuto, seguì l’operaio.

Insomma, alla fin fine non ti ha più cercato nessuno. È strano, però… o forse è stato “Rossi” a coprire tutto, lui c’aveva una serie di contatti con quei fascisti che erano pronti a passare dall’altra parte pur di rifarsi una verginità… forse sono stati loro a insabbiare tutto…

– Ti dico, non lo so… fatto sta che noi siamo tornati a casa e il giorno dopo abbiamo ripreso servizio. E ho saputo che il treno è rimasto in stazione ad Arquata per qualche giorno, poi per sicurezza l’hanno riportato a Genova. E così tutta quella roba d’arte che c’era dentro è rimasta in Italia.

– Certo, pa’, che hai avuto un bel pelo sullo stomaco… E se gli alleati non avessero bombardato Arquata, non so come sarebbe andata a finire…

– Te lo dico io: quel maledetto ufficiale nazista ci avrebbe fatto fucilare oppure ci avrebbe mandato in Germania… Nel frattempo era rientrato in casa Enrico che era uscito per andare a un’assemblea alla sezione locale del Partito. Era acceso in viso e sembrava un po’ agitato.

– Sentite questa, – esordì entrando in cucina – questa è proprio bella. Sono andato all’assemblea di sezione per preparare la manifestazione di domenica prossima e indovinate chi mi sono trovato davanti? I due uomini lo guardarono perplessi, non potevano certo immaginare che cosa stava per dirgli.

– La signora Miotto, la nostra capo caseggiato,

– La signora Miotto? E che cosa ci faceva in sezione quella fascista? – chiese Giuseppe inalberandosi.

– Se te lo dico, t’incazzi…

– Dai, parla! – lo sollecitò Giuseppe sempre più agitato.

Enrico scandì le parole con enfasi: – Vogliono proporla nel direttivo della sezione.

Giuseppe ebbe un soprassalto, come se l’avesse colpito un fulmine. Si alzò di scatto e senza dire una parola prese la giacca dall’attaccapanni.

– Ma dove vai? – gli disse Marcello.

– Dove vado? Vado a fare un quarantotto. Io non mi faccio prendere per il culo.

– Ma lascia perdere, lo sai che succede dappertutto così…

– Io non lascio perdere un cacchio… C’ho passato un anno su in montagna, a rischiare la pelle per costruire un’Italia diversa, e ora dovrei stare zitto se mettono un fascista nella direzione del mio partito? Ma scherziamo davvero, qui si passano i limiti… Aveva ragione “Bisagno”quando ci diceva che ne avremmo visto delle belle e che ci saremmo ritrovati i fascisti riciclati in mezzo a noi. Ma questo mi sembra davvero troppo…

– Pa’, Giuseppe ha ragione. Anche per una questione di rispetto nei confronti di chi, come te e la mamma, ha lottato una vita per la propria idea… Giuseppe aveva già aperto la porta e allora Enrico gli corse dietro, era orgoglioso di arrivare in sezione con suo fratello partigiano.

Marcello provò ancora a richiamarli, ma ormai non lo sentivano più. E allora, scuotendo la testa sconsolato, cominciò a brontolare tra sé e sé: – Eh, sì, se è come dice Enrico l’hanno fatta davvero grossa… e loro giovani non possono accettarla, anzi, non devono accettarla, se no non si capisce più dove sta la ragione e dove sta il torto… Ma noi siamo vecchi e sappiamo che purtroppo la maggioranza degli uomini sono così, pronti a rinnegare tutto quello in cui avevano creduto non appena le cose si mettono male… con naturalezza, senza neanche un pizzico di vergogna… succede così in tutte le idee, anche nella nostra… Del resto quel “Sol dell’avvenire”, che credevamo di realizzare in quattro e quattr’otto, è ancora lontano e chissà se ci riusciremo mai a farlo… di sicuro, se vogliamo avere una speranza, dobbiamo conquistarcelo giorno per giorno, talora addirittura contro i nostri stessi compagni… Ma non dobbiamo mai smettere di crederci, perché soltanto i valori di libertà e di uguaglianza su cui si basa la nostra idea possono dare un futuro all’umanità.

Giuseppe raggiunse la sezione del Partito a cui era iscritto con il passo gagliardo di chi è pronto alla battaglia. Enrico aveva fatto fatica a stargli dietro e ogni tanto aveva anche provato a parlargli per capire che intenzioni avesse. Ma “Iona”, come se non lo sentisse, tirava avanti dritto per raggiungere al più presto la sua meta.

Quando giunsero in sezione la sala era stracolma di compagni. Stava parlando un portuale che raccontava quanto era stato difficile riportare lo scalo genovese alla normalità dopo i disastri della guerra. Lei, la capo caseggiato, era là, seduta al banco della presidenza e aveva un fazzoletto rosso al collo che aveva ancora i segni della piegatura da quanto era nuovo.

Non appena Giuseppe entrò nella sala con il suo passo impetuoso, un brivido percorse la schiena dei dirigenti della sezione. Sapevano che era una testa calda, dicevano loro, ma era semplicemente uno che aveva rischiato la pelle per l’idea e allora non voleva essere preso in giro. Quando si appoggiò al muro laterale anche in platea si scatenò il brusio.

Enrico si fermò qualche metro dietro di lui, quasi temesse di dargli fastidio. Qualcuno tra il pubblico accennò un saluto, tutti li guardavano ansiosi di capire che cosa sarebbe successo.

Giuseppe attese con fiero cipiglio che il portuale concludesse il suo intervento, poi, prima che il presidente dell’assemblea desse la parola a qualcun altro, si fece avanti.

– Se permettete, vorrei dire io alcune cose.

La sala si zittì immediatamente e nessuno dei dirigenti osò obiettare. – Credo che mi conosciate tutti, sono Giuseppe, il figlio di Marcello, macchinista ferroviere, militante del Partito fin dal 1921. Personalmente ho collaborato con il Partito nei giorni difficili dopo la caduta del fascismo e poi, nella primavera del ’44, sono salito in montagna per combattere i nazifascisti. Sono sfuggito a tre rastrellamenti, altri miei compagni sono stati meno fortunati. In montagna ho vissuto un anno straordinario, alla scuola di quel grande partigiano che è stato Aldo Gastaldi, il compianto comandante “Bisagno”. Un anno in cui, oltre a combattere, e a combattere sul serio, ho imparato tante cose riguardo alla vita politica e sociale del nostro paese. “Bisagno” ci diceva sempre che il pericolo più grande che avremmo corso alla fine della guerra sarebbe stato quello di ritrovare, mescolati in mezzo a noi, coloro che erano stati i nostri carnefici o che almeno li avevano sostenuti. Che il trasformismo nel nostro paese era un’abitudine consolidata e che anche in questa situazione si sarebbe manifestato.

Noi allora pensavamo che forse “Bisagno” era esagerato, un po’ troppo pessimista, e che invece l’Italia che sarebbe nata dalla Resistenza sarebbe stata davvero quel paese ideale che avevamo tanto sognato. Ebbene, visto come stanno le cose oggi, devo dire che “Bisagno”, come al solito, non si era sbagliato e aveva già capito che cosa sarebbe successo. Che è successo, e l’abbiamo anche qui davanti agli occhi… A queste parole dalla sala si alzò un mormorio impetuoso che costrinse il presidente dell’assemblea a chiedere ripetutamente il silenzio. Stava poi per dire qualcosa, ma Giuseppe lo precedette: – No, no, lasciatemi finire, ancora poche parole e toglierò il disturbo.

Poi, indicando con ostentazione la capo caseggiato disse: – Quella signora lì non ha diritto di sedersi al tavolo di chi ha perseguitato per tanto tempo…

Immediatamente qualcuno si alzò dal tavolo della presidenza per cercare di fermarlo, ma Giuseppe andò avanti imperterrito: – Dovrebbe vergognarsi a stare lì seduta in mezzo a voi, ma ancora di più dovreste vergognarvi voi che avete permesso che ci si sedesse. Anzi, mi risulta che avete addirittura in mente di farla entrare nel consiglio direttivo in quanto attivista donna di grande esperienza… eh, sì, ha proprio una bella esperienza, ricordo ancora quando ci costringeva ad andare al premilitare…

– Basta, Giuseppe, non è questo il modo di fare politica! – gli urlò uno dei dirigenti.

Giuseppe lo squadrò da capo a piedi, nonostante lo conoscesse molto bene, poi gli disse in tono sprezzante: – Vedo, vedo, la fate bene voi la politica. Ed è per questo che ve la lascio fare, fatela pure come credete. Ma per quel che mi riguarda, il rapporto con il Partito finisce in questo preciso istante… e non provate a cercarmi, perché sarebbe peggio per voi.

Giuseppe rigirò sui tacchi con un gesto marziale e, con lo stesso impeto con cui era venuto, se ne andò. Enrico rimase ancora nella sala qualche istante, il tempo necessario per sentire i mugugni in platea e le sentenze di chi stava al tavolo della presidenza. Intanto alcuni avevano circondato premurosi la capo caseggiato che in seguito a quell’intervento aveva accusato un piccolo malore. Poi anche lui uscì e mentre tornava a casa le parole di suo fratello gli riecheggiavano nella mente e allora gli sembrava che quel giorno, nella sezione del Partito, fossero andati in scena due modi opposti di fare la politica, quello ideale e quello crudamente realistico, e che il secondo avrebbe corroso lentamente il primo e segnato la sconfitta di quella bella idea.

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Storia di Marcello, macchinista ferroviere – 2 ultima modifica: 2020-10-24T04:46:16+02:00 da Totem&Tabù

6 pensieri su “Storia di Marcello, macchinista ferroviere – 2”

  1. 6

    Pasini, questo racconto è un piccolo contributo proprio per non lasciare queste storie perdute “come lacrime nella pioggia”.

  2. 5

    Nella scena finale del bel film di Salvatores, visibile qui: https://youtu.be/nr0gaz7QpOA
    il sergente Lo Russo dice: Avete vinto voi ma non potrete considerarmi vostro complice. L’essenza del racconto di Gianni Repetto sulla vita di mio nonno è la stessa. Inoltre la cinepresa, proprio alla fine, inquadra una striscia di mare bellissimo infondendo, in chi la sa cogliere, una sensazione di bellezza e beatitudine legata alla saggezza di madre natura. Le giustizie e ingiustizie create dall’uomo sono uno scherzo al confronto. Ma non la vogliono capire…

  3. 4
    Paolo Gallese says:

    Ognuno ha le sue storie da raccontare di quei tempi. 
    Davvero toccante. 

  4. 3
    Roberto Pasini says:

    Aggiungo una nota autobiografica un po’ malinconica e triste per Marcello Cominetti. Anch’io, come te, porto lo stesso nome di un partigiano, sottoufficiale degli alpini, ucciso in combattimento nella primavera del 1945 da un plotone di fasci,  il cui comandante divenne poi sindaco di Latina con l’ MSI. Ogni anno vado a rendere omaggio alla sua tomba, in Valle Strona. Quando noi nipoti non ci saremo più, qualcuno si ricorderà ancora di loro, o tutto sparirà come “lacrime nella pioggia”? Ciao. 

  5. 2
    Roberto Pasini says:

    Una storia che suscita molte emozioni e ricordi, soprattutto in chi appartiene a famiglie segnate dalla partecipazione alla Resistenza. Vicende di gloria, di orgoglio e di delusione. E direi anche di dolore quando il pensiero va al tema degli ideali della Resistenza tradita che fu fatto proprio, 30 anni dopo, dal terrorismo rosso e che porto’ inizialmente anche ad alcune collusioni che spaccarono tragicamente il movimento operaio,  di cui gli eventi genovesi furono una drammatica manifestazione. Che riposino tutti in pace e che la memoria serva da monito per il futuro. Per questo è importante mantere vivo il ricordo come una pila frontale nella notte. 

  6. 1
    Giorgio Daidola says:

    Racconto toccante, non bisogna essere comunisti (nostalgici o riciclati) per apprezzare

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