Storia di un imputato
(Considerazioni generali e riflessioni sul nostro movimento verticale dopo la lunga esperienza giudiziaria nella triste storia di Tito Traversa)
di Luca Giammarco (dicembre 2018)
Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
La nostra vicenda giudiziaria ha inizio giovedì 17 dicembre 2015, giorno in cui apprendo dai giornali (!) con grande stupore, che la mia posizione di indagato, in quanto legale rappresentante del Bside, si stava trasformando in quella di imputato per omicidio colposo nella tragica vicenda del povero Tito Traversa https://gognablog.sherpa-gate.com/lindagine-sullincidente-a-tito-traversa/ e https://gognablog.sherpa-gate.com/tre-imputati-per-la-morte-di-tito-claudio-traversa/.
Sbaraglio subito il campo dagli equivoci. Vittimismo e/o autocommiserazione sono lontani dallo scopo di questa riflessione; è chiaro che le uniche vittime sono il piccolo Tito e i suoi famigliari, morto per un errore non suo, in una vicenda che ha sconvolto tutti e che ha dell’incredibile per quanti eventi sfavorevoli si siano concatenati in quel 5 luglio 2013.
Ricordiamo che Tito precipitò in falesia, a causa di alcuni rinvii assemblati male da una sua compagna di scalata e di squadra; la ragazza dodicenne acquistò di sua iniziativa dei gommini sfusi e senza avvisare nessuno, prima di partire per il viaggio, li montò sui propri rinvii senza far ripassare il moschettone sulla fettuccia. Tito utilizzò casualmente il materiale della compagna sulla prima via di riscaldamento e arrivando in sosta passò la corda nei rinvii. Una volta appesosi, i gommini ovviamente cedettero; gli unici rinvii montati correttamente erano purtroppo stati utilizzati sui primi chiodi, troppo in basso per frenare la caduta a terra. Sono state processate tre persone: il sottoscritto Presidente della Società cui i ragazzi erano tesserati, l’accompagnatore/istruttore presente e il titolare della ditta che ha prodotto i gommini utilizzati, che non avrebbe allegato le istruzioni cartacee al prodotto. L’unico condannato è stato l’istruttore presente sul posto per il mancato controllo dei rinvii prima della salita.
La falesia di Orpierre, teatro del tragico incidente a Tito Traversa
Scrivo, solo con l’intento di raccontare un’esperienza giudiziaria, in cui tutti gli addetti ai lavori possono potenzialmente incappare e con l’intento di stimolare qualche riflessione generale sulla sicurezza nel nostro movimento. Lo faccio, solo ora, in forza di una sentenza emessa ben 5 anni dopo l’incidente (maggio 2018) che finalmente ha sancito quello abbiamo sostenuto da subito e persino, in tempi non sospetti, prima della tragedia: la nostra totale estraneità con l’organizzazione di quella gita (organizzata autonomamente dagli istruttori) e la nostra totale innocenza, in quanto nessuna mia/nostra condotta ha avuto un ruolo nella dinamica degli eventi quel giorno ad Orpierre.
E come già chiaramente espresso nella sentenza disciplinare interna alla FASI ad aprile 2015, anche la sentenza penale nello stralcio che mi riguarda recita inequivocabilmente:
” … è infatti emersa, senza ombra di dubbio, la sua totale estraneità in tale organizzazione tanto in prima persona quanto nella qualità del legale rappresentante del Bside…”. ” Ne consegue che il Giammarco non ha posto in essere alcuna condotta consistente in un contributo causale nell’organizzazione della predetta iniziativa e, di riflesso, negli accadimenti, tra cui l’evento per cui è processo, che si sono verificati nel corso di tale iniziativa”.
Libere considerazioni sul sistema giudiziario
Se il diritto nasce ed esiste per normare e regolamentare il comportamento di diversi individui all’interno di una stessa società, garantendo equità, ci si chiede quando e quanto la macchina giudiziaria abbia perso aderenza alla realtà, diventando un marchingegno mastodontico, lentissimo nel suo dipanarsi attraverso meandri burocratici complicati ed estremamente rigido nei suoi ruoli e nelle proprie decisioni. Tempi giudiziari che non tengono conto dei tempi reali e dell’impatto che alcune decisioni hanno sulla vita delle persone coinvolte. A questo proposito, è certamente vero che siamo stati assolti, ma ancora mi risuonano alle orecchie le parole del Pm, nella sua discussione in udienza preliminare, richiedendo il mio rinvio a giudizio “… ma sì, nonostante molti dubbi… tutto sommato… vale la pena approfondire la questione formativa in dibattimento…”; tutto con estrema leggerezza, come se non fosse già di per sé una pesante condanna, per un innocente, sottoporsi ad un processo penale; perché nessuno ti risarcirà per le spese legali inimmaginabili, per gli attacchi mediatici subiti, per il danno d’immagine, per le occasioni di sviluppo imprenditoriale perse e soprattutto per lo stress emotivo e psicologico che comporta un’esperienza del genere e così protratta nel tempo.
Il dibattimento poi, agli occhi di un non addetto catapultato in un tribunale, pare un “teatrino” in cui tutti hanno un ruolo e una parte scritta da un copione ben determinato e in cui la priorità per ciascuno è portare a casa il risultato, senza necessariamente tenere conto della realtà dei fatti; si insegue una verità parallela detta “processuale” in cui equivoci, fatti insignificanti, interpretazioni dei consulenti, e circostanze ambigue, spesso vengono strumentalizzate dagli avvocati ed utilizzate a proprio uso e consumo. Sarà poi il giudice a dimostrare professionalità nel decidere sul futuro degli imputati, senza subire condizionamenti e soppesando con cura le varie versioni.
La “community”
Quando seppi, in fase di indagini, che il Pm aveva incaricato dei consulenti tecnici per una perizia, tra cui una guida alpina, tirammo tutti un gran sospiro di sollievo. Dopo mesi di bombardamento mediatico, stampa, tv e web, caratterizzati da inesattezze e strafalcioni tecnici, pensammo che una guida alpina, uno del nostro mondo, uno della nostra community, come va di moda ora chiamarsi quando ci si illude di appartenere ad una grande famiglia, avrebbe chiarito e spiegato nel dettaglio ciò che era capitato. In realtà nulla di estremamente complicato, una sequenza di eventi molto chiari, che noi tecnici abbiamo capito ad un’ora dall’accaduto, ma che andava semplicemente raccontato in modo semplice ed equilibrato al mondo dei giudici. E’ stato fatto con una sessantina di pagine di perizie nelle quali invece, abbiamo assistito ad un ingiustificato accanimento nei confronti di tutti gli indagati, apparso da subito poco oggettivo e vissuto da noi come un vero e proprio attacco da “fuoco amico”. La guida alpina ha evidentemente voluto sfruttare un’aula di tribunale per dar sfogo alla sua rabbia anti abusivista contro una società e/o istruttore FASI, riportando a galla una vecchia questione ancora irrisolta: la diatriba FASI-guide riguardo all’attività outdoor. L’ha fatto, sostenendo inesattezze tecniche, peraltro smentite poi in dibattimento da altre guide alpine e animato da un astio, oltretutto, completamente fuori tema; questo è stato un processo per omicidio colposo e non per abuso di professione. Infatti l’eventuale responsabilità penale prescindeva, ovviamente, dall’inquadramento professionale delle persone interessate. Chiunque ci fosse stato ad accompagnare quei ragazzi (e aggiungo, a svolgere qualsivoglia attività), avrebbe dovuto rispondere dell’accaduto davanti ad un giudice. Una domanda provocatoria sorge dunque spontanea: avrebbe scritto la stessa perizia se al posto degli istruttori FASI ci fosse stato un suo collega?
Per entrare nello specifico delle accuse che ci sono state mosse, il perito ha voluto evidenziare che a prescindere dalla paternità organizzativa, alla luce degli errori commessi dai ragazzi, una buona e attenta scuola di arrampicata avrebbe dovuto prevedere nel percorso formativo di un atleta minorenne sostanzialmente 3 passaggi:
- La didattica del montaggio dei gommini sui rinvii!! (Chi l’ha mai fatto?? e poi, vi pare prudente insegnare ad un bambino a smontare i dispositivi di sicurezza??!!)
- L’obbligo all’utilizzo del moschettone a ghiera in calata dalla sosta, invece che nei rinvii; sostenendo che questa circostanza avrebbe scongiurato la tragedia (ovviamente). Ma omettendo di spiegare che ci sono mille motivi per passare in primis la corda nei rinvii, una volta arrivati in sosta, prima di decidere di optare per qualsiasi altra operazione. E’ ovvio che Tito non abbia commesso alcun errore e che imputare al moschettone a ghiera la causa dell’incidente sia stato solo forviante e tendenzioso (contrariamente al nostro solito, qui ci permettiamo di dissentire: l’uso del moschettone a ghiera nelle calate in moulinette è altamente consigliato e dovrebbe essere quindi di uso molto più comune di quello che purtroppo è, NdR).
- Disporre l’uso personale dell’attrezzatura (riferendosi al fatto che Tito abbia usato i rinvii della compagna). Come se non fosse una pratica consolidata in tutto il mondo sportivo quella di utilizzare i rinvii del compagno, anche solo per scalare sul “tiro montato”; o come se la guida alpina non sapesse che molto spesso in falesia, sui tiri più duri, si scala addirittura su rinvii fissi o già posizionati da chissà quale altro scalatore che sta provando lo stesso tiro.
Questi argomenti tecnici sono stati un assist imperdibile per il Pm che ha incentrato inaspettatamente sulla formazione tutti i capi d’imputazione:
La società sportiva ometteva di:
– informare, formare e addestrare i propri iscritti e atleti, anche minorenni, sul corretto montaggio dei dispositivi, in particolare dei moschettoni a ghiera e dei rinvii in tutte le sue componenti.
– informare, formare e addestrare i propri iscritti sulle procedure sia all’interno che all’esterno, ecc.
– Predisporre materiale informativo e formativo destinato a iscritti sul corretto impiego e montaggio dispositivi di sicurezza.
– disporre l’uso strettamente personale della attrezzatura e la verifica preliminare, ecc…
Imputazioni dunque che avrebbero voluto sostenere una presunta responsabilità dei Presidenti di società riguardo a eventuali carenze formative dei propri tesserati, paragonandoli, di fatto, al rapporto che si crea in azienda tra datore di lavoro e lavoratore. Tesi talmente assurda, che persino il Pm che successivamente ha ereditato l’indagine dal suo collega Guariniello, non è stato in grado di sostenere fino in fondo, chiedendo lui stesso l’assoluzione nei miei confronti, una volta appurata che la paternità organizzativa non fosse in alcun modo riconducibile alla Società.
Di fatto, la guida alpina non si è resa conto che, se la sua tesi fosse stata confermata da una sentenza, sarebbe stato un autogol clamoroso, non solo per noi, ma per tutto il mondo verticale, compresa la sua categoria professionale. Con un precedente del genere in caso d’incidente (indoor o outdoor che fosse) ci saremmo trovati tutti a rispondere della formazione dei propri allievi senza nessun tipo di controllo e senza limiti temporali.
Una community che non ha mostrato il meglio di sé, neppure sulle riviste/siti/blog di settore che il più delle volte, trattando la vicenda in questi anni, si sono limitati al copia incolla dall’Ansa, senza preoccuparsi di approfondire soprattutto tecnicamente e prendere le distanze dalla stampa generalista. L’unica testata che è andata oltre, studiandosi accuratamente le carte e le perizie per poi esprimere liberamente il proprio parere, è stata la rivista Pareti. Dopo la sentenza, a mettere in discussione la nostra trasparenza, leggere ancora su molti siti di settore: ”Assolti per insufficienza di prove Luca Gianmarco, responsabile della scuola Bside che aveva organizzato l’uscita”, rende l’idea della superficialità e della poca professionalità messa in campo, tenuto conto che l’argomento principale della nostra assoluzione sia stata proprio la “non organizzazione” e che la formula di assoluzione sia stata “piena” e non “per insufficienza di prove”.
FASI. Questione “outdoor” e auspici per il futuro
Per non incappare ancora in situazioni in cui aule di tribunale diventino occasione di sfogo corporativo per categorie professionale, sarebbe ora che la FASI, passato questo periodo di transizione, con la futura dirigenza tirasse fuori la testa dalla sabbia e si ponesse il problema di risolvere istituzionalmente la questione dell’outdoor. Del resto una federazione che tra le sue finalità statutarie dice testualmente “… FASI che in Italia coordina e organizza l’attività didattica, agonistica ed amatoriale dell’Arrampicata Sportiva praticata sulla roccia e su apposite strutture nelle diverse discipline…” non può girarsi dall’altra parte, come fin ad ora ha fatto. La questione è stata sfiorata marginalmente anche nel nostro processo, pur non essendo stato il tema principale. Il rappresentante regionale della FASI è stato chiamato a deporre e giustamente ha chiarito ciò che si è sempre sentito nei corridoi, ma che dovrebbe essere comunicato ufficialmente e concordato, senza possibilità di fraintendimento, con il collegio delle guide, ovvero: la possibilità, per le società FASI, di utilizzare l’outdoor, falesie e massi, come strumento di allenamento, quantomeno per i propri gruppi sportivi se non anche per i propri corsi. Tutti sappiamo che esiste una legge quadro del 1989 che regola l’abuso di professione delle guide alpine, ma è altrettanto evidente che siamo in presenza di un buco legislativo che nella pratica limita enormemente la divulgazione del nostro sport. Ci sono atleti in regioni d’Italia che per necessità si allenano in falesia con i propri allenatori, non avendo a disposizione strutture indoor. La soluzione è forse assoldare guide alpine a 250 euro al giorno per portare atleti a fare le “ripetute” sull’8a in falesie sportive, con l’unico scopo di controllare il nodo e l’attrezzatura (come se poi non fossero richieste le stesse attenzioni e competenze all’interno delle strutture, luoghi in cui la guida non è richiesta!)? E se anche così fosse, è lampante che ci sono regioni in cui evidentemente, per caratteristiche geografiche, non ci sono guide alpine sufficienti (a volte, forse, neppure una!) per dare risposte alla crescente domanda di appassionati. La FASI ha incassato qualche anno fa, senza battere ciglio, una precedente nota sentenza in Lombardia, in cui un istruttore FASI era stato condannato per abuso di professione nel proporre un corso base su roccia e ha perso l’occasione (la FASI) di combattere una battaglia che è rimasta tutt’ora aperta. Da allora per eccesso di prudenza tutte le società, noi compresi, hanno smesso di proporre corsi outdoor. Altri enti di promozione sportiva, come la UISP per esempio, non sono stati dello stesso avviso, rivendicando il diritto associativo di proporre l’attività ai propri tesserati, anche in ambiente esterno.
Le competenze di allenatori/istruttori e guide alpine sono chiare e definibili. Mi sembra innegabile che le guide alpine non abbiano assolutamente tra le loro competenze, la gestione e l’allenamento degli atleti, finalizzata alla performance sportiva e tanto meno all’attività agonistica, così come è evidente che un allenatore di arrampicata è giusto che non debba imparare a sciare, salire una cascata di ghiaccio o la Nord del Cervino (soprattutto se è calabrese per esempio…).
Oltretutto, perché dimenticarci di quanto l’arrampicata outdoor appartenga alla nostra storia e al nostro dna e rassegnarci come tecnici FASI ad avvitare volumi fluorescenti sui muri artificiali? Vogliamo davvero pensare che l’arrampicata su roccia non sia fondamentale all’evoluzione tecnica dei nostri atleti e crescere una generazione di “resinari parkouristi”? Non credo basti una legge per la snaturare la storia e le radici di un movimento intero. Fortunatamente molti degli atleti agonisti più forti, restano protagonisti anche su roccia chiodando e salendo vie sempre più difficili e spostando il limite dell’alta difficoltà (e non certo le guide alpine…)
Non dimentichiamoci che, agli albori, la prima competizione in assoluto fu organizzata proprio su roccia a Bardonecchia nel 1985. Per esigenze tecniche e pratiche negli anni si è poi passato ad organizzarle sui muri artificiali. E’ curioso che il collegio delle guide molti anni dopo, rivendichi il diritto esclusivo di proporre e insegnare un’attività che mai gli è appartenuta culturalmente. La storia del nostro sport parla chiaro e suggerisce che la falesia, prima negli anni ’80 con l’avvento dello spit, e poi il boulder molti anni dopo, appartengano alla tradizione e alla cultura sportiva di questo movimento (comprese Società storiche come la nostra), che si è occupata, non solo di diffondere e spingere quel concetto nuovo, ma anche di renderla possibile chiodando nei decenni le falesie dove tutt’ora scaliamo; il movimento alpinistico ha invece storicamente sempre contrastato quel tipo di evoluzione. E’ evidente che la questione non è certo fare business con l’outdoor o creare una concorrenza alle guide alpine. Anzi, l’interesse economico delle società sportive suggerirebbe invece, di occuparsi esclusivamente di riempire le proprie sale di arrampicata. Credo però che si ponga da parte dei presidenti di società anche una responsabilità etico-culturale nel divulgare e proporre il nostro sport in un certo modo, rispettandone la storia. Trasmettere ai propri frequentatori anche la “cultura” dell’outdoor, delle sue regole, dell’etica sportiva, del rispetto dell’ambiente e della roccia, della sicurezza, credo sia un dovere che la FASI e dunque ciascuna società sportiva dovrebbe perseguire in questo momento di grande espansione. Ma forse questo è solo il pensiero di un vecchio arrampicatore cinquantenne che non vuole rassegnarsi ad un’evoluzione/involuzione inarrestabile.
Riflessioni sulla sicurezza
Indubbiamente, dopo incidenti come questi, è obbligatoria una riflessione generale sulla sicurezza e sul ruolo di tutti coloro che divulgano ed insegnano il nostro sport. Accantonando per un attimo la questione outdoor, è invece certo che tutte le attività in palestra rientrino nelle competenze della FASI e delle sue Società. Pare incredibile che in uno sport potenzialmente pericoloso come il nostro non ci sia una commissione sicurezza federale strutturata, che detti regole e protocolli chiari, nella gestione quotidiana dei propri muri di arrampicata. I Presidenti sono lasciati soli a se stessi, alla loro sensibilità e competenza tecnica con responsabilità sulle spalle a volte insostenibili. Per esempio, non vi è nessuna linea guida federale che supporti le società nella redazione del DVR (Documento di Valutazione del Rischio), che come sappiamo è obbligatorio e deve prevedere anche tutti i rischi annessi e connessi all’attività sportiva svolta dai propri tesserati, oltre che quelli professionali dei propri lavoratori. E il primo documento che ci è stato richiesto dalla Procura dopo l’incidente, per valutare se ogni nostra attività fosse normata al suo interno è stato proprio il DVR. Uniformarsi tutti a regolamenti federali precisi e ben pensati permetterebbe di aumentare il tasso di sicurezza generale e il tasso di tutela anche degli istruttori stessi, che avrebbero regole di comportamento, manuali tecnici di riferimento da seguire a cui eventualmente appellarsi anche in caso d’incidente, evitando di richiamarsi ad usi e costumi oppure a consuetudini aleatorie, magari definite da una guida alpina non sempre corretta o aggiornata ai comportamenti più “sportivi”.
Con la frequentazione di massa nelle palestre e nelle falesie cui stiamo assistendo e l’aumento inevitabile di incidenti e infortuni, vi è il rischio che Procure e tribunali si occupino sempre più di noi. Credo sia auspicabile che questa regolamentazione e sensibilizzazione generale alla maggior sicurezza avvenga grazie ad una spinta dal nostro interno e non con imposizioni esterne, a suon di sentenze e leggi di stato. Tipicamente, in questa società che pare ossessionata dalla sicurezza “assoluta” in tutti i settori, quando precedenti giuridici, spesso con logiche assurde, definiscono con chiarezza le responsabilità individuali, se ne pagano le conseguenze in termini di perdita di libertà. Per esempio, la decisione qualche anno fa, sempre della Procura di Torino, di rinviare a giudizio per omicidio colposo, il compagno sopravvissuto ad un valanga dovrebbe indurci ad andare d’ora in poi a sciare fuori pista da soli? E cosa accadrebbe, se ci trovassimo condannati per aver assicurato male e procurato un danno al nostro compagno di cordata o per avere chiodato una falesia con criteri non ritenuti idonei?
Anche l’obiettivo tanto invocato e auspicato da molti riguardo alle falesie certificate, rischia di essere un’arma a doppio taglio. Certificare e classificare le falesie equivale ad accettare che qualcuno (amministrazione pubblica o ente esterno che sia) si prenda la totale responsabilità di un sito e che ne disponga dunque le sorti. Quel qualcuno dovrebbe prendersi in carico, non solo la chiodatura con certi criteri e la manutenzione garantita negli anni, ma anche la sentieristica, la certificazione di idoneità geologica dell’intera aerea, le coperture assicurative adeguate in caso d’incidente, ecc. Credo sia molto difficile immaginare di trovare le risorse protratte nel tempo per un iniziativa così ambiziosa. Il rischio più probabile sarebbe quello di subire ordinanze di chiusura di aree intere, per carenza di fondi o chissà per quali altri cavilli burocratici.
La vera sfida futura per il nostro mondo, in questo momento di enorme espansione, sarà dunque trovare il giusto compromesso tra una sicurezza accettabile, sensibilizzando dall’interno una corretta e consapevole formazione di tutti i praticanti, e una sicurezza obbligatoria e imposta dall’esterno, che ci ingabbierebbe in un mondo di divieti, nella speranza che incidenti assurdi come questo di Tito non capitino più.
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Aggiungerei tanta umiltà, se non ci fosse il bisogno di apparire impressionando la gente per sentirsi elogiare, forse si supererebbe quasi tutto il “marasma”.
Alcuni giorni dopo l’incidente ero al dalmazzi con tutti gli altri istruttori e allievi della gervasutti per l’uscita del corso di alpinismo. Ci siamo chiesti se mai avessimo potuto immaginare un incidente simile e tutti hanno risposto di no. Eppure tutti noi abbiamo perso amici in montagna, morti in mille modi diversi, a volte in situazioni “tranquille”. mi viene in mente il nostro caro collega istruttore Massimo Giuliberti, accademico e con un curriculum di salite sulle alpi impressionante, morto questa estate per una banale caduta da una paretina in Tanzania alta pochi metri. Mai però avremmo immaginato un incidente simile, perchè tutti noi, nessuno escluso, arrampica spesso in falesia utilizzando i rinvii dell’amico o messi sul tiro da qualcun altro a cui chiediamo di poter fare il tiro, o anche con rinvii già in posto. Purtroppo come è stato detto si è verificata una situazione a mia conoscenza mai accaduta prima e il povero Tito ne è rimasto vittima. Dico questo perchè chiunque sia la guida alpina che ha fatto la relazione, conosce benissimo queste cose e credo che vi sia stata poca onestà intellettuale nel colpevolizzare l’istruttore presente sul posto, che poi è stato condannato ed anche il Gianmarco che poi è stato assolto. Non so se questa consulenza sia stata viziata da una sorta di difesa corporativa della categoria delle guide. La cosa avviene spesso anche con le critiche da parte delle guide ai corsi delle scuole del cai, ree di insegnare l’alpinismo a costi irrrisori e con una buona professionalità. Posso parlare di professionalità con cognizione di causa essendo stato per circa venti anni direttore della scuola Gervasutti di Torino. Per quanto il divieto di fare corsi o uscite di arrampicata outdoor da parte di società Fasi come il B-side o altre posso solo dire che ho sempre trovato e trovo assurdo che personaggi come Marzio Nardi, Luca Gianmarco ed altri protagonisti dell’arrampicata sportiva italiana e a volte anche mondiale non possano portare a scalare allievi su paretine attrezzate a spit, che magari hanno pure chiodato loro, solo perche sopra la testa hanno il cielo e non il tetto di una struttura. Lo dico da istruttore del Cai e non della Fasi tanto per essere chiari, ma la verità va detta a prescindere da interessi e corporazioni. Pder quanto riguarda il processo, posso dire che mi spaventa una società che deve trovare sempre e comunque dei colpevoli e che tende a limitare lo spazio di libertà delle persone in attività che si ritengono pericolose e che quindi vanno normate nei minini particolari, anche se questo, noi che andiamo in montagna, sappiamo benissimo non sia possibile.
Secondo me basterebbe che tutti quelli che comprendono il problema e sono capaci di andare in montagna, da un giorno all’altro evitassero di dare la loro disponibilità gratuita a scuole, soccorsi, accompagnamenti e altro.
Magari qualche opportunista ne approfitterebbe, ma senza le persone capaci qualsiasi “società” diventa “venezuelana” e fallisce anche se è appoggiata dalla maggioranza.
Fabio, è veramente incredibile.
L’occidente ha fatto di tutto per combattere e sconfiggere il satana del comunismo perchè annullava l’individuo, la sua personalità.
Adesso stai a vedere che l’occidente liberale ci controlla, ci vieta questo e quello. Insomma ci limita la libertà.
Ma non lo faceva l’Unione Sovietica..?
Ma si, certo …tutto è in funzione della nostra sicurezza….
io direi piuttosto a dimostrazione di quanto siano RINCOGLIONITI.
In Unione Sovietica vigeva la patente di alpinismo. Era suddivisa in varie categorie (come la patente di guida italiana) e permetteva di salire gli itinerari che erano classificati in quella categoria o in una di difficoltà inferiore.
Non credo che esistesse il bollo annuale, che invece in Italia con ogni probabilità sarà introdotto. Verrà poi istituito un corpo di guardie per il controllo delle patenti, come ora avviene sulle strade.
E la Carta di Circolazione? Se esiste per gli automezzi, dovrà logicamente essere introdotta anche in montagna. Ovvero, a titolo di esempio, per salire la cresta di Zmutt occorrerà dotarsi obbligatoriamente di: 1) piccozza omologata (omologata da chi? ma è ovvio: dall’«Ente della Pedonalizzazione Civile»); 2) ramponi omologati; 3) corda omologata; 4) casco omologato; 5) telefono cellulare per eventuali chiamate di soccorso; 6) giubbotto catarifrangente per essere avvistato dall’elicottero di soccorso; 7) piccozza di riserva (come lo pneumatico sugli automezzi); ecc. ecc.
In conclusione, quando si arriverà a tali obblighi e balzelli, potremo dire che sulle montagne dell’Unione Sovietica si respirava piú libertà che in Italia.
A quel punto darò di matto e mi rifugerò in una baita solitaria dispersa tra i boschi dell’Appennino: sparo a vista. 😂😂😂
Faccio l’avvocato da trent’anni. Il sistema giudiziario è così perché gli italiani (nel complesso, in media) sono così e ci vuole una procedura valevole per tutti, non è possibile crearne una per quelli che aprioristicamente appaiono “per bene” e un’altra per i “delinquenti” (a quel punto non occorrerebbe neanche più fare il processo, che è l’accertamento – sia pure con tutti i limiti – dei fatti). É lo specchio di un mondo cattivo. Ma è anche lo schermo che ci separa dall’homo homini lupus.
qualcuno ci ha già provato in Abruzzo. Cercando di istituire l’obbligo di accompagnamento in montagna con la guida. Se ne è discusso anche qui.
La scusa era la sicurezza. Ma non prendiamoci per i fondelli…!
ho paura anche io che potrà accadere questo. Ma non è solo per la sicurezza. Questo della sicurezza, credo sia un pò uno specchietto per nascondere il vero motivo. Cioè i SOLDI.
Qualcuno vuole avere in mano il potere di gestire tutto questo per un fatto economico, perche è un affare.
La sicurezza è solo un paravento per nascondere il vero scopo. E le guide sicuramente sono li pronte a raccogliere tutto questo.
sinceramente non sono d’accordo e mi costa dirlo visto chye sono un istruttore CAI . Alla fine volontario o professionista hai la responsabilità di una persona che ti viene affidata. Sie nei corsi CAI , sia durante un soccorso, sia nelle esercitazioni di soccorso. Se fai una cazzata, volontario o no, le conseguenze possono essere gravissime.
Premesso, innanzi tutto, che occorre rivolgere un pensiero affettuoso al giovane Tito (come a tutte le vittime in montagna), in generale io temo che la società securitaria con la sua morsa stritolante (vedasi articolo qui pubblicato l’8/1/19) comporterà un’evoluzione che taglierà fuori i volontari.
Può darsi che ci vogliano 15-20 o forse di più, ma io temo che le Scuole del CAI saranno prospetticamente gestite solo da professionisti, cioè da Guide. A costoro completeranno le scelte strategiche (individuazione a tavolino dell’itinerario, traccia sul terreno, se proseguire o tornare, chi fa che cosa, etc etc etc) e relative responsabilità penale e civile. Il tutto a fronte di un corrispettivo (presumibilmente stagionale) a carico degli allievi.
Gli istruttori, cioè i volontari, o spariranno del tutto o rimarranno in un ruolo di “cultori della materia”, occupandosi della didattica, sia teorica che sul terreno, ma nulla più. Saranno anche loro giuridicamente “affidati” alle Guide. Forse si instaurera’ una specie di baratto: tu istruttore offri la sua giornara didattica e in cambio non paghi la tua quota della Guida, anche se sei fra coloro che sono giuridicamente affidati a lui.
In tale scenario non mi stupirei di vedere, in un futuro non lontanissimo, una rigida regolamentazione anche dell’accesso privato alla montagna. Intendo dire che saranno previste delle patenti anche per fare gite autonome. Magari parenti progressive: una fino ai 2500 m solo escursionistica, una fino ai 3500 m con accenni alpinistici, una per le vette dei 4000 con tutte le annesse problematiche tecniche e ambientali…
Insomma si tratterà dellla conclusione dell’alpinismo come lo abbiamo inteso per due secoli e mezzi… quanto meno della visione romantica dell’andata in montagna.
Il bello è che, quando accenno questa mia teoria (che io giustico ideologicamente una catastrofe) a individui nettamente più giovani di me (25-35 anni, a volte anche 40), non solo non si scandalizzano, ma si augurano un’evoluzione del genere…a dimostrazione di quanto sia cambiato il sentiment generale…
Con tutto il rispetto, soprattutto nei confronti di Giammarco che ha dovuto affrontare una situazione penosa e costosa, ritengo che continuare a discutere sulla perizia sia come discutere sul sesso degli angeli perchè il problema sta’ a monte nel senso che bisognerebbe proprio evitare che si arrivasse alla perizia, bisognerebbe proprio cercare di evitare che si arrivasse in giudizio.
Forse non capirò nulla di diritto ma per me l’omicidio colposo ha dei risvolti molto spesso incomprensibili, nel senso che c’è colpa e colpa e questo è ampiamente dimostrato dal fatto che le pene inflitte non portano il più delle volte nessuno in galera in quanto sappiamo perfettamente che fino a un certo numero di anni (mi pare 3 ma non ne sono certo) in carcere non si finisce.
Anche coloro che finiscono in carcere a seguito di una condanna che prevede un certo numero di anni di detenzione finiscono, fra condoni e altro, per scontare molto poco della pena.
Quindi mi domando che senso abbia il rinvio a giudizio di un imputato per colpe che non derivino da palese negligenza se non addirittura da una precisa volontà di sottovalutare i rischi per trarne un beneficio personale.
La condanna per omicidio colposo di un istruttore d’arrampicata non potrà restituire il decuius ai propri familiari, non farà altro che aggiungere sofferenza ad altra sofferenza.
Ci sono delle morti che non possono trovare soddisfazione nell’individuazione di un responsabile, soprattutto se questa individuazione avviene con criteri e modalità completamente svincolate da ogni logica operativa perchè non è possibile controllare le attività umane in ogni minimo dettaglio, ci sarà sempre qualcosa che sfuggirà anche all’occhio più attento.
In questi casi, anche se per i benpensanti potrà sembrare una sorta di mercificazione della vita umana, l’unica soluzione sensata è un equo risarcimento per la perdita e l’indagine sulle presunte responsabilità dovrebbe al limite essere effettuata non con scopo punitivo bensì al fine di evitare, nel limite del possibile, ulteriori tragedie.
Se poi vogliamo ragionare in termini puramente oggettivi, nel senso che la colpa è colpa a prescindere da chi la commette, credo che le riflessioni di Antonio Arioti siano molto sensate perchè bisogna veramente domandarsi, alla luce della piega giurisprudenziale che è stata presa negli ultimi anni, se sia ancora opportuno che attività a rischio vengano insegnate e gestite da dilettanti/volontari, i quali si espongono, senza nulla in cambio, a rischi enormi se non in virtù di un riconoscimento morale che in certi casi può diventare anche motivo di orgoglio.
Massimo, anzi totale, rispetto da parte da parte mia nei confronti di coloro che svolgono attività a rischio senza nulla in cambio e lungi da me ogni valutazione di natura morale però ho la netta sensazione che molti non riflettano adeguatamente sui rischi cui possono andare incontro e comunque, a prescindere da ciò, è chiara ed evidente l’indifferenza del legislatore e della magistratura nei confronti di un fenomeno nei confronti del quale o vengono garantite maggiori tutele oppure dovrebbe subire delle forti limitazioni sul piano operativo.
Come anticipato i miei non erano moniti ne giudizi su questa perizia che come specificato non conosco ne quindi posso giudicare. Dico che vi sono le opportune sedi dove queste analisi devono essere fatte.
I rimanenti discorsi erano in generale sulla valenza e sugli effetti delle perizie e non riferite a questa.
Quella di G. Foresti mi sembra una bella provocazione, nel senso che stimola a riflettere e a porsi delle domande.
Personalmente me ne pongo un paio che, per quanto apparentemente diverse, vanno a sovrapporsi:
1) in che misura si conciliano i reati di omicidio e lesioni colpose con l’insegnamento e la pratica non professionale di un’attività rischiosa;
2) quanto sia corretto ed opportuno che un’attività come quella di cui sopra venga insegnata e gestita da volontari.
Mettiamo da parte gli interessi di bottega e la visione romantica e proviamo a fare un ragionamento nudo e crudo per quanto suscettibile di infiniti distinguo.
Per rispondere alla prima domanda credo sia evidente a tutti che la colpa presenta diverse sfaccettature e che ci sia una bella differenza fra la morte in cui incorre l’operaio di un cantiere perché il datore di lavoro ha risparmiato sulla sicurezza e quella in cui incorre uno sportivo, giovane o meno giovane, perché l’istruttore o l’allenatore ha omesso di verificare un dettaglio che ha costituito una concausa di morte dell’atleta.
Per rispondere alla seconda domanda credo sia altrettanto evidente come da un professionista ci si aspetti un valore aggiunto superiore a quello che ci si aspetti da un volontario ma non perché si ragiona nell’ottica di chi si sente in dovere di mangiare e bere tutto ciò che il ristoratore gli ha portato perché ha pagato ma semplicemente perché il prezzo corrisposto al professionista costituisce il giusto valore attribuibile a una prestazione che deve fornire delle garanzie ancorché non assolute.
Forse mettere sullo stesso piano, penalmente parlando e pur prevedendo degli sconti per il volontario e delle aggravanti per il professionista, l’attività delle due figure non è molto corretto così come forse non è corretto ed opportuno che un volontario si assuma delle responsabilità penali.
Nell’attività di volontariato assume priorità il gesto del dono, a prescindere dal livello tecnico di tale gesto, e questo mal si concilia, a mio parere, con la possibilità di incappare in responsabilità penali per colpa.
Viceversa, nel caso del professionista, la responsabilità per colpa ci sta’ tutta e questo proprio perché il professionista non regala nulla ma offre un servizio dietro un corrispettivo il quale, per quanto discutibile nell’importo, rappresenta il valore di un servizio che deve essere svolto a regola d’arte.
Non ho soluzioni ai problemi posti anche se credo che la depenalizzazione proposta da Foresti potrebbe avere un senso per i volontari ma non per i professionisti.
Credo altresì che le domande su cui ho cercato di abbozzare una riflessione dovrebbero essere oggetto di un’analisi bipartisan perché, come qualcuno ha giustamente detto, i tempi sono cambiati e, quindi, o si fa qualcosa per cambiare le cose oppure si fa qualcosa per stare al passo coi tempi.
Dino M parli di fatti, del quale come anticipi non sai nulla ma fai moniti alla correttezza? Con quali basi? Supposizioni e articoli sul web?
Evito di esprimermi.
Per informazione:
l’Albo dei CTU e Periti è aperto a chiunque abbia le competenze in diversi ambiti. Competenze che vengono valutate da un’apposita commissione, la quale poi accredita o meno il candidato. Ad accreditamento si paga la Tassa di Concessione governativa e si viene iscritti all’Albo.
Che il CAI dia il permesso o meno è irrilevante anzi.. esula dalle facoltà del CAI.
Quello che vorrei dire Stefano è che in tutti gli Ordini ( a uno dei quali anch’io sono iscritto) hanno codici deontologici che impongono obiettività e terzietà in caso di perizie etc etc.
Il Perito che produce una Perizia poco corretta può essere deferito all’Ordine e subirne le conseguenze. Io non so se questo è il caso perchè non ho potuto leggere il documento; da quello che scrivono Pareti e Giammarco per questo caso dovrebbe esistere un organismo interno all’Ordine che valuti e sanzioni ove serva.
Attenzione che oggi le Perizie possono essere usate per attaccare la “concorrenza” esterna ( FASI e Scuole Alpinismo) ma domani si attaccherà la concorrenza interna (guerre tra Guide e Guide o società di Guide contro Guide).
Io sono il primo a non volere perizie “giustificanti” e morbide. Ma non morbide con gli amici e stroncanti con gli altri. A questo scopo vorrei, se possibile, sollecitare il CAI a concedere anche agli Istruttori Centrali o particolarmente qualificati la possibilità di redarre perizie con inclusione nell’apposito registro. La Perizia è un’arma molto potente che va usata con molta intelligenza perchè può fare ( e si è visto) davvero male a chi entra nel vortice ma anche al vero danneggiato e a tutto l’ambiente.
Cambiare la legislazione mi sembra francamente poco realistico.
In molti stati nelle falesie in cima ai tiri non ci sono catene e moschettoni a ghiera, ma anelli di acciaio, bisogna sempre fare manovra e il primo che sale spesso mette uno o due rinvii. Così non si rischiano i moschettoni consumati.
Chissà, magari confrontarsi anche con gli altri potrebbe servire.
Giammarco non ha colpe e ha subito un processo duro e immotivato; il fine di un processo, però, è e sempre sarà solo quello di appurare la verità processuale, visto che quella “vera” non la può decretare nessun essere umano.
Mi pare sbagliato spostare il tutto su una disputa corporativa, che non servirà a nulla, tanto meno a lenire il dolore dei genitori di Tito Claudio.
Concordo con Giandomenico Foresti; non sempre c’è quel “responsabile” che sempre vogliamo individuare. A volte è solo il caso, forse in questo caso un responsabile esiste, ma allora chi è? Dovrebbe forse essere la persona che ha montato i rinvii. Ma è poi imputabile e cosa esattamente le si dovrebbe imputare? Omicidio colposo o cosa?
Dovremmo autorizzare l’arrampicata dei minori solo in presenza di un adulto autorizzato? Dotato di qualifiche rilasciate dalle Guide o dalla Fasi o dal Panopticon? E se l’inviato del Panopticon va a fare pipì mentre i due minori si scambiano rinvii montati male?
Stuff happens, le cose succedono. Sarà magari capitato a qualcuno di voi di partire avendo attuato solo per metà una manovra necessaria, perché distratto da qualche stupidaggine, partendo poi per un tiro magari tranquillo e al sole di una bella mattina che sarebbe potuta essere la sua ultima. Quando se n’è accorto ha rimediato, ma potrebbe non averne avuto proprio il tempo…
Anche il tema ghiera non mi pare dirimente: Tito Claudio magari era su un rinvio, in attesa di montare una ghiera su cui calarsi. E se invece fosse “volato” arrampicando, l’esito finale sarebbe stato altrettanto tragico.
Nessuna norma o regola che noi si possa escogitare potrebbe impedire il ripetersi di incidenti diversi ma altrettanto assurdi. L’unica cosa che possa fare un essere umano che rifletta su questo tragico evento è pensare ad una vita nascente e speranzosa, troncata da un incidente assurdo; e al dolore di chi ha così assurdamente perduto il suo bambino.
# Giandomenico Foresti. In via del tutto accademica posso anche essere d’accordo con te. Io ho iniziato ad andare in montagna quando di responsabilità non si parlava e, riallacciandomi a un altro topic del gogna blog su cui mi piacerebbe scrivere qualche scomoda riga, e ho iniziato a fare qualche tiro da primo (peraltro facili) a 16, ripeto sedici anni con due Guide di cognome Grassi e Comino, Ma era il 1978 e i tempi cambiano, oggi i ragazzi iniziano ad arrampicare a sei-sette anni e qui non si scappa, la responsabilità, civile e penale nei confronti dei minori è un’architrave non smantellabile.
Dino M, cosa dovrei risponderti?
Ciò che concerne una perizia d’ufficio e non di parte che ha tutt’altra implicazione, è la valutazione dell’insieme dell’accaduto e la definizione dei dettagli sulla base di diversi fattori che possono essere normativi o d’uso comune (usi e consuetudini). Tutto ciò che accade attorno a queste valutazioni è il dibattimento. Giusto o sbagliato sta al giudice intervenire e valutare.
Chi ne risponde nel bene e nel male è il perito stesso e fare a posteriori una valutazione (oltre a quelle di parte già fatte) è materia per facebook.
Io avrei fatto, io non avrei fatto sono le seghe dei virtuali, in questo frangente, non a caso ho compreso bene la necessità di Gianmarco ad esporre la propria estraneità ai fatti come da assoluzione piena, viste chiacchiere su chiacchiere fatte sui social.
Si può parlare di metodi della magistratura e di coscienza o meno della stessa in merito a situazioni in bilico tra dilettantismo e professionismo per le quali anche noi a volte facciamo fatica a valutare ma non oltre. Giandomenico Foresti su questo ha toccato il punto.
Le Guide non devono vincere battaglie sull’esclusiva, quella c’è già, sancita da una legge e da diverse sentenze in proposito, il problema serio invece, e negli ultimi tempi ci sono stati diversi eventi a dimostrarlo, è che troppo pochi sono gli episodi in cui la magistratura ha deciso di intervenire malgrado ci sia stato pure il morto.
Non si possono mischiare professionismo e dilettantismo anche se troppo spesso per futili ragioni c’è chi scavalca il limite e poi si trova a farne le spese. Vuoi essere professionista te ne assumi onori e oneri altrimenti rimani un dilettante e operi per passione, spese incluse. Quando vado in giro con gli amici non pagano le spese… !
Ma direi che sia il caso di fermasi qui perché altrimenti andiamo fuori argomento, personalmente non faccio processi ai processi specie su un forum per quanto sia autorevole come questo né trovo sia il “post” giusto per altri argomenti già discussi e che potranno avere certamente altri spazi dedicati
E scusate se insisto ma se ci sono state delle associazioni che sono riuscite, sebbene dopo anni, a far passare una legge in parte di merda come quella sull’omicidio stradale non vedo per quale motivo non si possano mobilitare le coscienze di tutti i praticanti attività ricreative a rischio per dar battaglia al fine di far cessare o quantomeno ridurre questo scempio, tanto più che stiamo parlando di attività non imposte da nessuno e i cui partecipanti sono consapevoli, e sovente se ne vantano pure, della loro pericolosità.
Che si mettano insieme tutte le associazioni, enti, club, albi professionali che raggruppano praticanti, istruttori, guide di attività come alpinismo, scialpinismo, arrampicata, paracadutismo, deltaplano, torrentismo, surf, canoa, canyoning, mountain bike, dawn hill, e chi più ne ha più ne metta e comincino a far pressione per depenalizzare le attività ricreative a rischio e forse qualche risultato si potrà ottenere.
Non mi pare che Luca Giammarco abbia voluto aggredire le Guide Alpine, anzi la contrario nella sua riflessione scrive:”L’ha fatto, sostenendo inesattezze tecniche, peraltro smentite poi in dibattimento da altre guide alpine…”
Se c’è un attacco, me preferisco pensare a un legittimo disappunto, nei confronti di una singola Guida Alpina, a cui Giammarco imputa, e in tutta onestà la penso come lui, un calvario durato cinque anni insieme a una più che comprensibile contrarietà nei confronti di chi avrebbe dovuto aiutarlo e sostenerlo e nei confronti di un sistema giudiziario che in sede penale ti può stritolare.
Insomma c’è uno sfogo che è semmai nei confronti della FASI e nei confronti di un sistema giudiziario che ti esaspera emotivamente e consuma economicamente.
Ricordiamoci sempre che le spese legali in un procedimento penale sono estremamente onerose fino a poter rovinare una persona e anche in caso di assoluzione ti restano sul gobbone.
Dal mio punto di vista, quello di un padre che oltretutto ha visto la propria figlia cimentarsi a 10 anni sulle prese del Bside, mi spiace enormemente vedere una vicenda così tragica trasformarsi nel solito tragico minuetto Guide vs “resto del mondo” . Tutti gli attori, dopo questa vicenda avrebbero dovuto fermarsi, sedersi intorno a un tavolo e trovare delle linee, almeno di comportamento, comuni.
@Dino M.
Non è che sia stata processata gente che non c’entrava e che sia stato condannato l’istruttore senza colpe, il punto della questione, tralasciando polemiche corporativistiche legittime o meno, è che “si può sempre trovare gente che c’entra e a cui attribuire colpe”.
Il problema di fondo è il seguente: esiste un ragionevole limite alla colpevolezza? Nella società di oggi sembra di no, sembra che la fatalità non faccia più parte del nostro mondo.
Quanti e quali controlli dovrebbero fare un istruttore o una guida? Infiniti! Perchè sono potenzialmente infiniti i casi di incidente e se ogni volta che ne succede uno non preventivato, nemmeno lontanamente immaginato, si inserisce in qualche manuale sulla sicurezza che bisogna controllare anche quella determinata cosa non se ne verrà mai fuori perchè dall’incidente di Tito in avanti bisogna controllare i gommini sui rinvii che prima nessuno fumava, bisogna controllare il materiale posizionato da un altro a cui prima, e anche oggi, ci si attaccava senza problemi. E tutto questo in una spirale che non ha fine.
Per me la soluzione ci sarebbe e si chiama depenalizzazione delle attività sportive (forse sarebbe meglio dire ricreative) a rischio. Il che significa che il reato di omicidio e lesioni colpose nelle attività sportive/ricreative non dovrebbe essere contemplato. Passi se c’è il dolo ma ci fermiamo lì.
Mettiamoci tutti i risarcimenti patrimoniali che vogliamo ma mettiamo da parte la responsabilità penale.
Se proprio si vuole fare una battaglia questa sarebbe quella giusta.
Voglio ringraziare Alessandro Gogna per l’articolo e l’argomento che si collega strettamente al recente sulla responsabilità. Tuttavia l’articolo “slitta” dall’argomento “core” cioè perchè si è arrivati a processare gente che non c’entrava e perchè è stato condannato l’istruttore senza colpe, all’argomento (interessante ma non core) della legge 6/89. La risposta di Stefano Michelazzi glissa sul “core” della questione. Non potendo reperire le perizie pro e contro, prendo per buono l’articolo di “Pareti” che tutti possono trovare in rete. Mi piacerebbe un commento di Stefano, poichè se è vero che le perizie di parte “normalmente” stroncano la controparte, non potremo lamentarci se Giudici, Pm o Gip poi cercano colpevoli tra di noi su cose assolutamente accidentali e non prevedibili insite nell’attività che pratichiamo.
Mi piacerebbe davvero avere una panoramica più ampia, analizzando più incidenti e più perizie pro e contro per farmi un’idea completa; ma più che al sottoscritto la cosa dovrebbe interessare all’Ordine delle Guide, poichè ne va di mezzo proprio l’Ordine nella sua credibilità. Oltre a questo, quando e se le Guide riusciranno a vincere la loro battaglia sull’esclusiva ( a suon di sentenze ci stanno riuscendo) , si troveranno attorno terra bruciata e credo che questo non faccia bene nemmeno a loro. Le guerre lasciano morti e macerie su tutti i fronti, anche quello del vincitore, e credo che anche questa guerra non faccia eccezione.
Su tutto al sottoscritto appare poi il completo disinteresse del CAI sulla cosa e che coinvolge Scuole e Guide entrambe appartenenti al CAI stesso.
In risposta a Stefano Michelazzi.Scusate, non vorrei cadere nel trannello del botta e risposta e della facile polemica. Credo di essermi guadagnato sul campo la possibilità di raccontare ciò che mi è capitato in questi ultimi cinque anni e mi sono permesso di farlo con questa lunga riflessione. Mi sembra di averlo fatto con chiarezza, cercando di “volare alto”e tendando in qualche modo di dare un contributo ad un cambiamento che mi sembra necessario, più che raccontare al popolo le mie ragioni ,che come dici giustamente tu, sono già attestate e sancite dalla sentenza Ho raccontato fondamentalmente un fatto. A causa di una perizia viziata da pre giudizi coorporativi ho subito un processo penale. (e che all’origine del mio rinvio a giudizio ci sia la perizie del consulente della procura è un fatto assodato per stessa ammissione del Pm) . Il mio intento, oltre che uno “sfogo” credo comprensibile, è solo quello di sollecitare chi di dovere affinchè, in questo momento di enorme espansione del movimento, il problema si risolva. Il mio “attacco” credo sia più diretto alla federazione a cui appartengo (le GA,con cui peraltro collaboriamo da 20 anni, giustamente difendono i loro interessi) che in questi anni si è rassegnata a rinchiudere le nostre competenze di divulgatori di questa attività all’interno di sale di arrampicata, amputandoci di una parte fondamentale del nostro sport ponendo degli enormi problemi pratici ,che mi sembra di aver descritto chiaramente . Per il resto, al contario di quando dici (per necessità, come puoi immaginare) conosco molto bene il precedente lombardo, sia in primo grado, che in appello . Sulla storia e l’origine del movimento sportivo, non essendone bambino( ma neanche matusalemme.. ) riporto semplicemente le mie senzazioni per quanto ho vissuto direttamente negli anni ottanta all’epoca della diatriba ” Spit si e spit no “.
Non c’e’ dubbio che per la manovra di calata al fine di recuperare il materiale, l’uso del moschettone a ghiera sia piu’ sicuro. Manovra, che, da quello che sembra, Tito non aveva intenzione di effettuare. Posso sbagliarmi, ma da quello che si e’ letto Tito NON stava installando una moulinette per permettere alla compagna di scalare con la corda dall’alto.
Caro Govi, so bene come si fa la moulinette… Certo che Tito ha lasciato i rinvii in loco come normalmente si fa. A parte che comunque questi sarebbero stati tolti da chi lo avrebbe seguito (il quale quindi avrebbe dovuto fare la cosiddetta “manovra” di passare direttamente la corda nell’ancoraggio e recuperare anche i due rinvii lasciati lì da chi aveva preceduto), è proprio il sistema che andrebbe rivisto. Insisto, il moschettone a ghiera è molto più sicuro dei due rinvii (anche con i moschettoni disposti ad apertura sfalsata), figuriamoci poi il caso del rinvio unico! La maggiore sicurezza deriva dal fatto che, quando si farà la cosiddetta “manovra” si sarà sempre assicurati a una ghiera e non si correrà mai il rischio di scontrare accidentalmente qualche barretta di apertura.
Riguardo alla “Nota della Redazione” faccio notare che l’intenzione di Tito era verosimilmente quella di scendere lasciando tutti i rinvii in loco ( che avrebbe usato la compagna, secondo l’uso di salire entrambi la via da capocordata ). E’ molto frequente, in questi casi, calarsi su 2 rinvii dalla catena e contare sulla ridondanza dei rinvii. Luca fa riferimento a pratiche ragionevolmente sicure e di consuetudine, il consulente-guida a pratiche da manuale.
Comunque impressionante racconto. Un misto letale di lentezza burocratica e gestione quantomeno leggera. Tra l’altro la scienza non c’entra assolutamente nulla. Lorenzo Merlo forse pensa che si possa gestire la giustizia con sedute di yoga? Un’ ossessione…
Sfogo a parte, che appare quantomeno una necessità dopo l’immaginabile situazione da cappio al collo che Gianmarco ha dovuto passare… , sfogo a parte dicevo.. , l’articolo sembra più un’aggressione alle Guide alpine che un tentativo di spiegare al popolo le proprie ragioni peraltro già attestate in sede di giudizio.
Tralascio la parte relativa alla perizia dove sarà (o potrà essere) il collega coinvolto a rispondere negli ambiti che più considererà idonei, viste le mal velate accuse che gli vengono mosse.
Noto invece con disappunto, visto anche che negli ultimi tempi con la FASI si era giunti a dei ragionamenti comuni al fine di creare opportunità di revisione di una legge che noi stessi consideriamo ormai obsoleta in diversi punti, i quali andrebbero modificati, che il ragionamento di qualcuno (Gianmarco in questo caso ma evidentemente non solo lui) porta più verso un blocco stile guerra del Vietnam piuttosto che ad una comunione d’intenti verso un futuro diverso e condivisibile.
Peccato, peccato anche per le energie spese inutilmente.
Poi una ridda di notizie confuse e anche fuorvianti direi.. la FASI perse l’occasione qualche anno fa? Ah sì…??? Pubblicamente e non per sentito dire o su giudizi da osteria, risulta che il dibattimento tirato in causa (sentenza 9048/2004 Tribunale di Milano) dopo la condanna in primo grado sia andato avanti e non certo da solo, e si sia “approdati” ad un ricorso in appello (sentenza 4626/2005 Tribunale di Milano) che ha sancito la condanna in primo grado.
Dunque? Il tentativo di ribaltare a proprio favore la situazione è stato fatto ma evidentemente le supposte ragioni latitavano anzi non c’erano proprio, perciò prima di parlare e soprattutto scrivere pubblicamente delle inesattezze informiamoci visto che di fake news ormai non se ne può più!
Poi ancora… l’arrampicata non è delle Guide alpine? Ah no?
Chissà cos’è allora?
Evito di fare lezioni di storia che solo un bambino probabilmente non conosce perché troppo giovane e facilmente imbeccabile ma non serve essere dei Matusalemme per sapere quando, dove e chi furono i precursori ed i campioni storici di un’attività (l’arrampicata sportiva) che non nacque certo come agonistica, anche se in breve lo diventò è verissimo, e non cito i nomi che tanto li conosciamo tutti… buona parte già Guide alpine o diventati dopo…
La questione non verte su tecniche d’allenamento degli atleti né sull’ambiente indoor che per regola universale è ormai il campo di azione della moderna sportiva e se questo non si è capito basta leggere le citate sentenze per comprenderlo. I ruoli ed i campi d’operazione sono perciò ben differenziati.
Poi è ovvio che vi sia la necessità di trovare uno spazio di interazione per quanto riguarda l’ambiente esterno e le proposte in tal senso da parte nostra sono già state fatte, proposte che risolverebbero in un colpo solo anche le problematiche del climber calabrese (cito dall’articolo) e darebbe una spallata gigantesca all’abusivismo di professione che è innegabile sia una piaga sociale ma a quanto pare a qualcuno conviene rimanere così com’è, irregolare, senza controlli da parte di nessuno…!
La legge va modificata ed in varie parti e, su questo non non c’è dubbio ma non è gettando fango sulle Guide alpine che sarà fattibile.
Poi c’è chi in barba alla legge, in Italia sembra sia un modus vivendi appellarcisi solo quando fa comodo, fa slalom attorno a cavilli e cavilletti restando sospeso a mezz’aria e provocando cause legali lunghe e senza risultati buoni per alcuno, visto e considerato che nulla è stato cambiato, in grado di allungare i tempi di risoluzione, di una questione la quale ormai dovrebbe essere dipanata da tempo.
Colpire le istituzioni è piuttosto facile e sembra di moda ma la moda cambia l’immagine, non la sostanza…
Potete dire i nomi ed i cognomi di tutti i consulenti tecnici, per capire quale sia il livello di conoscenza richiesto dalla magistratura e approfondire alcune mie opinioni sull’ambiente delle guide?
Grazie
Secondo me se si obbligasse a scrivere sempre i nomi ed i cognomi molta gente sarebbe più responsabile e starebbe molto più attenta a quello che dice e che fa, ma forse la normativa sulla privacy lo proibisce opportunisticamente.
Mi dispiace per Tito che ritengo una vittima del sistema moderno dell’immagine, che nemmeno è stato minimamente scalfitto dalla sua morte.
@Fabio
Non è un problema solo italiano o meglio, in Italia possono esserci problemi di tipo burocratico ma in tutto il mondo il modello giudiziario non è improntato sulla ricerca della verità bensì su chi si sa proporre meglio fra accusa e difesa.
Spesso mi chiedo come sia possibile, per es., che per il medesimo reato l’accusa chieda l’ergastolo e la difesa l’assoluzione, è assolutamente assurdo! Significa che ciascuno va per la sua strada cercando di portare a casa il risultato infischiandosene dell’imputato.
Questo è il mondo giudiziario oggi, considerato evoluto, figuriamoci quello passato.
@Lorenzo
Questa volta sei stato molto chiaro e purtroppo mi tocca di condividere.
La vita ridotta a burocrazia, in questo caso giudiziaria, ha a che vedere con l’idea degradata dell’illuminismo e del razionalismo, del positivismo, del materialismo, quindi della cosiddetta scienza.
Il cui succedaneo culturale prevede che la verità esista. Ed eccola pronta.
Per riconoscere quel processo – di valorizzazione del razionalismo e della sua idoneità a produrre la vera conoscenza – può essere utile una figura.
Una fotografia, un’istantanea di ciò che prendiamo in considerazione. Tutto è fermo e noi ne siamo fuori. A quel punto le nostre considerazioni e i nostri giudizi sono formulati con la determinazione di chi crede d’aver detto la verità.
Ma la vita non sta in un piano cartesiano, non è bidimensionale come la cultura scientista necessariamente afferma. Èssa è più simile a un volume entro il quale tutto è in relazione e tutto in movimento e in dipendenza. È più simile alla natura del pensiero, libero e razionalmente sconsiderato, piuttosto che a quella di un disegno.
Benvenuti nel mondo della Magistratura, Italia, Africa.