Sueños del Torre
(una salita di ghiaccio di 1370 metri che collega la parete sud e la cresta ovest del Cerro Torre)
di Colin Haley
(pubblicato su The American Alpine Journal, 2007)
“Dannazione, ragazzi! Dobbiamo scalare delle montagne!“. Il nostro amico Freddie Wilkinson gettò a terra la bottiglia di whisky finita e cadde all’indietro su un tronco. Ubriacarsi con whisky da nove pesos era diventata l’attività più atletica tra gli scalatori di Campo Bridwell, e tutti sembravano pronti a esplodere se il tempo fosse stato bello. Tre settimane di attesa avevano fornito solo una finestra meteorologica di 12 ore, abbastanza a lungo da permettere a tutti noi di sfinirsi già solo con un breve assaggioo. Nonostante il brutto tempo sono rimasto ottimista, forse per la compagnia di alpinisti che ammiro e delle montagne che ho sognato.
Mio padre ha iniziato a portarmi a fare alpinismo alle Cascades quando avevo 10 anni. Ne fui subito preso e non passò molto tempo prima che mi imbattessi in una foto del Cerro Torre. Non avevo mai visto, né prima né dopo, una montagna più spettacolare e bella, e il Cerro Torre è diventato il mio sogno. Quando avevo 15 anni ho trovato un articolo di Rolando Garibotti sulla Via del Compressore al Cerro Torre, ed ero estremamente entusiasta di scoprire che Rolo lo facesse sembrare facile. Solo 5,9? Ma io tiro sul 5.9! A2? Un paio di giorni dopo ho iniziato a insegnare a me stesso come arrampicare in artificiale e ho deciso che sarei stato pronto a scalare il Cerro Torre a 17 anni.
Due anni dopo, fortunatamente, avevo acquisito abbastanza buonsenso da rendermi conto di non essere pronto per il Cerro Torre, ma i miei sogni di Patagonia sono continuati e a 19 anni ho finalmente avuto l’opportunità di visitare questo straordinario playground di arrampicata alpina. Ho incontrato l’amico Bart Paull a El Chaltén durante la mia pausa invernale dalla scuola nel 2003, e abbiamo scalato l’Aguja Poincenot, l’Aguja Guillaumet e l’Aguja de la S. Sebbene avessi salito solo alcune delle vie più facili nella regione del Fitz Roy, l’arrampicata è stata fantastica e mi ha conquistato. Sono tornato due anni dopo e, dopo un’altra via sulla Guillaumet con amici argentini, Mark Westman e io abbiamo salito l’Aguja Mermoz, il Fitz Roy, l’Aguja St. Exupéry e l’Aguja Rafael Juárez. Era il giro di arrampicata di maggior successo che avessi mai fatto, ma ancora il Cerro Torre mi ammiccava al di là del Ghiacciaio Torre. Però finalmente mi entivo pronto.
Nell’ottobre 2006 sono riuscito a convincere Kelly Cordes a unirsi a me nel tentativo al Cerro Torre. Cinque anni prima, mi sentivo privilegiato semplicemente a scambiare e-mail con Kelly, e la nostra precedente esperienza di arrampicata insieme consisteva in solo due giorni di falesia in Yosemite, ma sapevo che era un bravo ragazzo e i suoi successi passati dicevano abbastanza delle sue capacità. Volevo provare la parete ovest del Cerro Torre, e Kelly era d’accordo, ma suggerì di prendere in considerazione una partenza diretta attraverso la via Marsigny-Parkin.
La parete ovest del Cerro Torre (o via Ferrari o anche via dei Ragni di Lecco) inizia sul serio al Colle della Speranza, tra il Cerro Torre e il Cerro Adela, e sale per 600 metri fino alla vetta. Tradizionalmente, il Colle della Speranza si raggiunge da nord-ovest da un canale che si innalza dal Circo degli Altari. Il Circo degli Altari deve essere raggiunto o con una lunga traversata in sci sulla calotta glaciale o con l’accesso lungo il colle tra Cerro Stanhardt e Aguja Bifida. Tuttavia, nel 1994, Andy Parkin e François Marsigny hanno aperto una nuova via per il colle, À la Recherche du Temps Perdu. La loro via supera 800 metri di canaloni di ghiaccio sul margine sinistro della parete sud per raggiungere il Colle della Speranza direttamente dalla Valle del Torre. Dal Colle della Speranza, Marsigny e Parkin hanno continuato un po’ per la parete ovest, ma sono stati respinti dal famigerato clima della Patagonia; e così si ritirarono al Circo degli Altari. La loro nuova linea al Colle della Speranza, e il loro epico ritorno successivo attraverso la calotta di ghiaccio, valsero loro il Piolet d’Or. Negli anni successivi la via Marsigny-Parkin fu stata ripetuta fino al Colle della Speranza da Bruno Sourzac e Laurance Monnoyeur e da Dani Ascaso e Pepe Chaverri, ma nessuno aveva ancora continuato fino alla vetta del Cerro Torre. L’idea di Kelly sembrava ambiziosa ma stimolante, e ho convenuto che avremmo dovuto farne il nostro obiettivo principale.
L’alta pressione è finalmente arrivata all’ultima ora del nostro viaggio, e il 4 gennaio 2007 siamo partiti da Campo Bridwell sotto un cielo soleggiato, abbiamo attraversato la “tirolese” del Rio Fitz Roy e ci siamo fatti strada sul Ghiacciaio del Torre. Le ultime settimane di tempesta avevano messo alla prova la nostra pazienza e hanno seminato dubbi sulla fattibilità del nostro obiettivo, quindi ci siamo fermati su un masso per discutere le nostre opzioni. Dovremmo procedere con il nostro programmato collegamento o scommettere con maggiori probabilità di successo e attraversare il colle Stanhardt-Bifida? Il nostro cannocchiale non ci dava informazioni così dettagliate sulla Marsigny-Parkin e Kelly ha pensato che potesse esserci solo un po’ di neve sulla roccia. Ero più ottimista e sentivo che forse nessuno di noi avrebbe mai più potuto avere un altro momento più opportuno per un tentativo. Le previsioni del tempo erano eccellenti, e ho pensato che il rapido passaggio tra tempesta e clima caldo avrebbe creato buone condizioni di ghiaccio. Ho convinto Kelly che avremmo dovuto mantenere il nostro obiettivo principale, ma sapevo anche che saremmo rimasti entrambi molto delusi se fossimo arrivati alla base e avessimo trovato il mio ottimismo fuori luogo.
Dopo un paio d’ore di sonno irregolare, siamo partiti dal bivacco Niponino alle 2.30 del mattino del 5 gennaio, i nostri zaini sufficientemente leggeri da farci sentire totalmente inadeguati e abbastanza pesanti da sentirci appesantiti. Ci siamo lasciati alle spalle qualsiasi vera attrezzatura da bivacco, ma abbiamo portato un fornello e un pasto per ciascuno. Abbiamo camminato tranquillamente sul ghiacciaio sotto alla parete sud e alle 5.30 Kelly si è diretto verso la crepaccia terminale mentre il cielo iniziava a schiarirsi. Settanta metri di corda sono andati via veloci. Ho gridato a Kelly che avrei cominciato anche io a scalare e presto fui felice di trovare il canalone pieno di buon ghiaccio “alpino” di grado 4, perfetto. Avevamo con noi due piccoli bloccanti Ropeman per rendere più sicuro il terreno ripido in scalata simultanea, ed era buona cosa, perché già cinque minuti dopo l’inizio del tiro ero inondato dalla luce del sole e muoversi rapidamente era obbligatorio. Con l’arrivo del sole, pezzi di ghiaccio iniziarono a piovere, ed era impossibile non notare il seracco che incombeva su di noi. Quel seracco, che minaccia la prima metà della Marsigny-Parkin, non aveva mostrato alcun segno di attività durante tutto il nostro viaggio, ma quando ce l’hai sulla testa è difficile ignorarlo.
Kelly ha fatto la prima sosta dopo circa 150 metri, fortunatamente sotto uno strapiombo, e quando mi sono fermato a prender fiato e a bere qualcosa lui era già ripartito. Da lì un difficile traverso misto (M5) conduceva nel canale successivo a sinistra, seguito da brevi gradini di ghiaccio verticali per un tirone di 100 metri. Al terzo tiro la corda è stata ferma parecchio tempo quando Kelly ha fatto un errore di percorso e ha dovuto penare per tornare sulla via giusta. L’ansia mi portava a spostare il mio peso da un rampone all’altro, e quando la corda ha ripreso a muoversi sono salito con impazienza fino alla sosta di Kelly, 200 metri più in alto e ormai fuori dalla traiettoria del seracco.
Non mi aspettavo arresti così lunghi, ma Kelly era ovviamente ancora impegnato così gli ho consegnato ancora una volta il materiale che avevo recuperato. La quarta “lunghezza” ci fece guadagnare altri 200 metri: questa però, oltre al ghiaccio più ripido, conteneva anche una più amichevole sezione di neve a 60 gradi che ci ha permesso un po’ di piacevole riposo ai polpacci.
“Penso che questo ci porterà al colle“, ha detto Kelly, guardando sopra la sosta. “Ti spiace se continuo ancora io? Dopo puoi fare tu tutta la parete ovest e così saremo pari“.
Di certo non mi importava che Kelly facesse più da primo di me, perché comunque si stava muovendo veloce, ma si aspettava davvero che andassi davanti io per l’intera parete ovest? Mentre seguivo la quinta lunghezza fino al Colle della Speranza, mi chiedevo se fossi all’altezza di un simile compito.
Avevamo entrambi bisogno di riposo, ma il Colle della Speranza in se stesso si è rivelato davvero scomodo, quindi ho trascinato la corda fino a un fungo di neve al di sopra per arrivare a quella specie di picnic area che era la sua sommità. La vista sulla calotta glaciale e sulla parete ovest era mozzafiato; le torri di brina, i funghi e i cavolfiori non assomigliavano a nessun terreno alpino che avessi mai visto. La Marsigny-Parkin era andata in fretta, ma otto ore di arrampicata quasi costante ci avevano fatto lavorare entrambi, ed è stato solo dopo circa due ore di mangiare, bere e sciogliere neve che finalmente ho proseguito sulla brina.
Ben presto raggiunsi la prima grande difficoltà, l’Elmo, e fui brevemente introdotto allo stile di arrampicata della parete ovest. La chiave era cercare solchi e depressioni, dove il ghiaccio era leggermente più consolidato e un po’ di tecnica di camino riduceva la trazione verso l’esterno dei miei strumenti. Tuttavia, il rigonfiamento nella parte superiore dell’Elmo era inevitabile e mi sono fatto strada con un po’ di fortuna e con l’uso di un picchetto come strumento da ghiaccio.
I tiri di misto sopra all’Elmo erano moderati, e al sole della sera feci presto una sosta alla base del lungo tiro della headwall, che si diceva fosse strapiombante. Ripartendo alle 21.30, con una delle nostre nove viti da ghiaccio in sosta, ho promesso di non cadere prima di aver posizionato una buona protezione. Dopo circa 20 metri ho agganciato lo zaino a un vecchio cordino di ancoraggio Abalakov, forse lasciato dalla cordata franco-argentina che aveva salito la parete ovest l’estate precedente. In realtà avevo tirato fuori la corda sottile per il recupero degli zaini, ma poiché questa era di soli 60 metri mentre la nostra corda era di 70, non potevo lasciare lo zaino in sosta.
A circa 30 metri ho piazzato la mia prima vite, che ha lasciato sei viti per i restanti 40 metri di ghiaccio verticale, e una per la sosta. Fortunatamente il ghiaccio su quel tiro era per lo più di buona qualità, l’arrampicata non era più dura di un buon AI5 e soprattutto non era strapiombante. Ma alla fine di quella lunga e faticosa giornata l’ho trovata piuttosto impegnativa. Ho scelto la scanalatura di uscita sbagliata in alto e ho dovuto fare un pendolino dalla mia ultima vite per riprendere l’uscita corretta. Ho finito il tiro proprio quando avrei dovuto accendere la lampada frontale, sollevato di trovare un chiodo in posto che equalizzava il mio chiodo da ghiaccio rimanente.
Avevamo sperato di arrampicare tutta la notte ma, a sacchi recuperati e Kelly arrivato in sosta, fu subito chiaro che navigare tra i funghi contorti della cresta sommitale non sarebbe stato fattibile al buio. Ma l’abbassamento della temperatura e l’arrivo di un leggero vento hanno anche chiarito subito che stare seduti all’aperto sarebbe stata un’opzione molto gelida. Scorgemmo una leggera depressione a mezza corda di distanza: Kelly si mise subito al lavoro e presto ricavammo un piccolo riparo per sfuggire al vento. Alcune bevande calde hanno aiutato a passare il tempo e le nostre cene liofilizzate ci hanno dato un po’ di sollievo, tranne quando il pacchetto si è rotto all’interno della mia giacca, bagnando i miei strati di base con la zuppa di pollo.
La notte è stata abbastanza lunga da essere estremamente scomoda, ma non pericolosamente fredda, e dopo sei ore siamo strisciati di nuovo rigidi nel mondo della brina. Sopra di noi c’erano solo tre tiri a cavolfiore prima dell’altopiano sommitale, ma tutti con tratti di ripida brina non consolidata, quindi ho applicato un prototipo di “ali” alla parte superiore dei miei attrezzi che speravo avrebbe dato più resa. Black Diamond aveva fabbricato queste ali in alluminio in modo che si estendessero orizzontalmente su entrambi i lati della becca ma lasciassero comunque l’estremità della punta di penetrare libera nel ghiaccio vero. Per fortuna sui primi due tiri abbiamo scoperto dei tunnel di ghiaccio naturale che correvano dritti nella pancia dei funghi. Formate dal vento, queste fantastiche gallerie completamente chiuse erano rivestite di buon ghiaccio e fornivano un passaggio facile e veloce invece di quella che sarebbe stata un’arrampicata ben difficile su brina.
In cima al secondo fungo rimaneva solo un tiro difficile, ma qui era necessario risalire direttamente la brina. Un solco verticale andava su per circa 25 metri, ma poi sfumava a muro bianco di brina per circa 10 metri prima di poter raggiungere un tunnel di uscita. Ho portato tutti e quattro i picchetti con me, lasciando solo gli attrezzi da ghiaccio di Kelly piantati alla sosta, e ho iniziato il solco. Qui l’arrampicata era ragionevole, anche se a protezione zero. Di mano in mano che il solco diventava sempre meno profondo, ho iniziato a scavare una cavità verticale abbastanza profonda da consentire una certa tecnica di camino. Tuttavia, più il solco diventava superficiale, più il mio scavo diventava più profondo e alla fine ho dovuto scavare un vero e proprio tunnel all’interno della montagna per alcuni metri. Ne uscii sfondando la parete a pugni, ormai sopra a una sezione di neve veramente strapiombante: il gigantesco “abalakov” che mi ero così creato con la corda che scorreva nel tunnel era l’unica protezione decente della lunghezza. Due terrificanti passi in artificiale su picchetti mi hanno fatto guadagnare il terreno un po’ più facile sopra e un altro tunnel naturale per terminare la lunghezza. Kelly è salito da secondo carico di entrambi gli zaini, utilizzando i bloccanti sul tratto che avevo attrezzato. Quindi ci siamo immessi sulla via del Compressore (sopra alla headwall chiodata) per scalare velocemente il facile fungo sommitale.
Era surreale trovarmi finalmente in cima a una montagna che avevo sognato per così tanto tempo, e potevo dire che significava qualcosa anche per Kelly. La vista dalla vetta è un contrasto spettacolare: il paesaggio polare della calotta glaciale a meno di un chilometro a ovest, e le lussureggianti foreste di faggio e pampa a pochi chilometri a est. Dobbiamo aver trascorso almeno un’ora a rilassarci in vetta prima di seppellire uno dei nostri picchetti come dead man e iniziare la lunga discesa della Via del Compressore. La discesa è stata semplice ma lunga, abbiamo avuto tutto il tempo per osservare i chiodi a pressione, ammirare la bellezza della via e notare l’odore di ammoniaca che emanava dai nostri corpi esausti. Abbiamo iniziato le doppie con entrambe le corde, ma presto ci siamo resi conto che non era necessario e abbiamo fatto quasi tutte le doppie con una sola corda. Raccomanderei a tutti quelli che vogliono fare la via del Compressore di portare solo una singola da 70 m, che è del tutto sufficiente per doppie da 35 m e anche assai più pratica.
Abbiamo acceso le lampade frontali subito dopo aver recuperato l’ultima doppia, e abbiamo iniziato la marcia lungo il ghiacciaio per tornare al Niponino, non facendoci mancare parecchi errori d’itinerario e alcune discese di canalini di merda. Kelly giura di aver sentito musica da discoteca, quel pazzoide. Io avevo anche un po’ di allucinazioni visive, paralizzato da luci oscillanti sopra l’orizzonte. Siamo arrivati al Niponino alle 2.30 del mattino, esattamente due giorni dopo la partenza, e siamo stati accolti calorosamente con una deliziosa polenta da amici che si erano appena svegliati per tentare altre salite. Passammo i due giorni successivi trasportando zaini pesanti e malsani fino a El Chaltén e lasciammo la Patagonia la mattina del 9 gennaio.
Non abbiamo scalato nessun terreno nuovo, ma comunque credo che il nostro collegamento sia stato significativo perché dimostra la possibilità di un ulteriore percorso naturale alla vetta. In buone condizioni, penso che questo collegamento sia un ottimo modo per iniziare la parete ovest, anche se con qualche pericolo oggettivo. Raddoppia la quantità di arrampicata tecnica richiesta ma accorcia notevolmente l’avvicinamento. Credo che il nostro collegamento sia una delle sole tre vie completate fino alla vetta del Cerro Torre senza l’utilizzo di alcuna delle scale a chiodi a pressione di Maestri (le altre due sono la parete ovest standard e l’Arca de los Vientos). La nostra discesa, però, è stata ovviamente molto facilitata da questa storica via ad “aria compressa” e a “difficoltà compressa” che purtroppo fa del Cerro Torre una “montagna compressa”.
Come per qualsiasi esperienza intensa, ci vogliono alcuni giorni o settimane per digerire una salita difficile, e all’inizio ero confuso. “Che diavolo è successo? Abbiamo davvero appena scalato il Cerro Torre? Minchia!”. Mi sembra ancora improbabile di aver scalato la mia montagna perfetta, di essere finalmente riuscito a raggiungere il mio ideale. Con il sogno completato e quindi distrutto, avrò bisogno di cercare nuova ispirazione.
Sommario
Zona: Cerro Torre, Patagonia
Ascensione: collegamento in stile alpino di À la Recherche du Temps Perdu (800 m, Marsigny-Parkin, 1994) sulla parete sud del Cerro Torre con i 600 metri superiori della Via dei Ragni di Lecco (Chiappa, Conti, Ferrari, Negri, 1974 ) sulla parete ovest e sulla cresta ovest; discesa dalla cresta sud-est (Via del Compressore). La combinazione è di 1370 m, AI6 M5, con due passi di artificiale su picchetti e un pendolo; Kelly Cordes e Colin Haley, 5-7 gennaio 2007.
Una nota sull’autore
Colin Haley, 22 anni, ha vissuto tutta la sua vita a Seattle, Washington, dove è studente di geologia all’Università di Washington. Anni di arrampicata nelle North Cascades gli hanno dato adeguata abitudine al cattivo tempo e capacità particolare in discesa con neve ripida e non consolidata. Scrive: “Vorrei ringraziare l’American Alpine Club per la borsa di studio del Mountain Fellowship Fund che ha contribuito a rendere possibile questa scalata e per il suo continuo sostegno ai giovani alpinisti”.
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grazie Marcello
Alberto, trovi ogni informazione sul sito di Garibotti: Pataclimb.
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Ciao
per Roberto Pe, se non sbaglio c’è una via di Grassi, non ricordo gli altri, più a sx sul Cerro Adela?
Stupenda linea, l avevamo attaccata nel 1986 con Mauro Rossi e Giancarlo Grassi abbiamo desistito per le scariche peccato, complimenti a loro, bel racconto.
E’ sempre un piacere leggere le avventure di montagna raccontate in questo modo
linea bellissima. Certo quel seraccone li sopra non fa stare sereni. Quindi più veloci della luce.
E voi due vi siete lasciati sfuggire «la linea piú bella del mondo, naturale e perfetta di tuta la Patagonia. Forse di tutte le montagne del pianeta»!
Per punizione vi condanno a venti nerbate nella schiena. E a una notte in ginocchio sui ceci.
Ricordo…ricordo, come potrei non farlo. Ho letto il racconto di Colin (simpatico piccolo bastardo) con le lacrime agli occhi.La combinazione Parkin-Marsigny + Ragni per raggiungere la vetta del Torre è la linea più bella, naturale e perfetta di tutta la Patagonia. Forse di tutte le montagne del pianeta. E io non esagero, mai!
@Cominetti: ricordi il giorno “perso” sotto il colle a marcire nel caldo? Fossi rientrato un giorno prima dalle feste di Natale potevamo esser su a scavare il fungo con loro, anzi lo lasciavamo scavare al giovane Colin 😉