Sulle orme di Angelo Dibona
di Salvatore Bragantini
Dopo tanto tempo, nei primi anni 2000 ho ritrovato con piacere un compagno della mia gioventù crodaiola, Alessandro Gogna; l’avevo perso di vista negli anni ’60, quando lui aveva preso la strada del grande alpinismo, e poi visto ogni tanto a Milano o in giro per l’Italia. Quando, dopo esserci ritrovati, abbiamo già fatto qualche via assieme, lui dichiara un forte interesse per la Dibona al Croz dell’Altissimo e io, che non avevo ancora ripetuto una via del grandissimo cortinese, accetto volentieri la proposta. A 60 anni, mi rendo conto dell’impegno fisico di una via così lunga, ma mi sento bene e in forma. Fra l’altro, finora il Croz l’ho intravisto, laggiù in basso, solo da qualche parete del Brenta, quindi mi fa piacere andare in un posto nuovo che da sempre mi incuriosisce, e mettere le mani su quella grande parete.
Siamo nell’agosto del 2003, al culmine di una lunga siccità: la cosa ci piace, perché così potremo trovare asciutto il famoso passaggio del “masso squarciato”, solitamente bagnato. Un vantaggio non da poco! E il lunghissimo periodo di alta pressione fa sì che, almeno a mia memoria, non abbiamo nemmeno guardato le previsioni meteo…
Salvatore Bragantini sul tiro chiave della via Dibona al Croz dell’Altissimo, 22 agosto 2003
Dopo esserci incontrati a Molveno, prima di cena siamo al rifugio dell’Altissimo, dove mangiamo e beviamo abbondantemente, che è già una bella preparazione; ormai da alcuni anni, infatti, mi pesa arrivare al rifugio in tarda serata, quando il rifugista ha già chiuso la cucina e, in procinto di andarsene a letto, ti guarda giustamente un po’ storto. Così dormiamo già beatamente, quando un fragoroso temporale ci sveglia di botto: fra tuoni e fulmini, l’acqua scroscia violenta. Bene, penso, domani avremo il gradito privilegio di trovare il masso squarciato bello fradicio, come tutti!
Al mattino ci avviamo verso la parete sotto un bel cielo azzurro; una volta giunti sotto, comincia la ricerca del punto esatto in cui attaccare. Lo scrupolo, direi filologico, di Alessandro si propone infatti di ripercorrere esattamente la via di Dibona. Ne deriva un lungo vagabondare fra cenge fittamente coperte di mughi, prima verso destra, poi indietro verso sinistra; tanto lungo che per superare la cortina di mughi ci avremo messo due ore. Le metto a profitto sfregandomi un ago di mugo in un occhio, che mi farà male per tutta la salita; non contento, dovendo passare da una cengia di mughi a un’altra sovrastante, e volendo evitare l’ennesimo periplo mughesco, decido di “forzare” un passaggio difficile su roccia provandoci alla “O la va o la spacca”. Piazzato un bel rinvio su un robusto mugo, mi butto, e… la spacca, nel senso che salto, restando appeso al rinvio, ma l’attrito dei mughi è tale che Alessandro nemmeno se ne accorge! Così omaggiata la filologia e la figura dibonesca, proseguiamo fino a riuscire finalmente a mettere la mani sulla roccia vera.
Ora siamo sul fondo del diedro e arriviamo rapidamente al masso squarciato, subito sotto il quale Alessandro fa sosta. Quindi il tiro tocca a me, ma stavolta né lui insiste per farlo né, in tal caso, io mi opporrei più che tanto. Siamo entrambi cambiati, abbiamo quasi quarant’anni più di quando, nel 1965, sulla Vinatzer al Ciavazes dibattemmo su chi doveva condurre sul tiro più duro della via. Alessandro, poi, è tanto cambiato che in verità è raro trovare un alpinista che, con il suo curriculum, non lo fa pesare.
Questo però mi è venuto in mente solo dopo; adesso mi trovo qui sotto il masso squarciato, fradicio come da copione. Lo scruto alla ricerca del modo migliore per salirlo; a differenza del grande Angelo, io ho una serie di indizi, giacché a segnare la via giusta ci sono, sia pur scuri e corrosi dal tempo e dall’umidità perenne, i chiodi: non è sicuro che il grande cortinese davvero sia passato senza chiodare, e per qualcuno ne avrebbe usati un paio, infilando uno spezzone di corda nell’occhiello del chiodo, a mo’ di moschettone. Come che sia, ora i chiodi sono più numerosi e io ne seguo la linea, però con fatica. Lo scrupolo di Alessandro mi contagia, e per un po’ provo a passare in libera ma, non avendo la stoffa del vero filologo, alla fine mi rassegno a “tirare” qualcosa.
In quell’antro stretto, buio e scivoloso, ci si muove davvero male; ad un tratto mi trovo con la testa bloccata, dentro il casco, in una piccola cavità della grotta. Non c’è niente da fare, non riesco più a muoverla; se non mi fossi slacciato, e tolto, il casco, sarei ancora lì. Solo facendolo, posso muovere la testa sfilandola dal casco, torcere questo e staccarlo dalla roccia; ritrovata così la libertà di movimento, riesco a guadagnare faticosamente l’uscita dall’antro e infine la sosta. Assicuro quindi Alessandro che, da buon filologo, vuole assolutamente fare il tiro clean; il che gli riesce, ma ci vuole il suo tempo. Quando emerge dall’antro, ambedue conveniamo facilmente che questo tiro, fatto in libera e anche asciutto, è ben sopra il V°. Che il VI° grado sia cominciato qui non lo so affermare, ma che questo sia VI° e abbondante, mi azzardo a sostenerlo.
Sopra il masso squarciato la via tira a destra su una serie di cenge oblique per poi risalire la dorsale del grande costone a destra della “variante” di Bruno Detassis (in realtà una vera via) e a sinistra dello scorbutico diedro Armani. Le difficoltà sono contenute ma la parete è ampia e lunga. Scegliamo le linee di minor resistenza sul grande costone, e qui è facile essere filologi, perché è improbabile che Angelo Dibona si sia andato a cercare un passaggio diverso: continuiamo a seguire le sue orme. Difatti ogni tanto qualche raro chiodo occhieggia dalle fessure; via via le difficoltà scemano, tranne qualche passaggio di impegno, e quando alfine sbuchiamo sui prati del pianoro sommitale, il sole è già quasi oltre l’orizzonte del Campanile Basso.
Panorama controluce dal Croz dell’Altissimo, sera del 22 agosto 2003
Mentre corriamo verso il rifugio per battere l’oscurità, mi domando se Angelo Dibona, quando aprì questa via, presentiva in qualche modo la catastrofe europea imminente, che dopo quattro anni si sarebbe per sempre portata via il suo mondo e tutta quella vecchia “Europa felix”.
Certo non avrà scritto sul suo taccuino un VI° grado che allora non era codificato. Altrettanto certo è che il grande cortinese deve averci messo più o meno lo stesso nostro tempo, visto che passò da questa parete il 16 agosto del 1910, senza bivacco, assieme alla guida fassana Luigi Rizzi, di Campitello, e ai fratelli viennesi Guido e Max Mayer. A noi ci rallentava lo spirito filologico, ma lui la via la doveva progettare e poi aprire! Non c’era bisogno di altre prove, ma comunque va detto: giù il cappello!
1
Stefano ti comprendo e ti condivido totalmente.
Tutto questo e’ solo ignoranza, arroganza e fifaggine.
Giovedì scorso, 20 settembre 2018, ho avuto modo di percorrere con un cliente la via Dibona al Croz.
Trovando bagnatissimo l’attacco usuale che sale direttamente alla cengia superiore (scola talmente tanto che nel canale d’accesso si è formato un ruscelletto), abbiamo dovuto individuare un punto che ci permettesse di salire alla stessa evitando di fare i salmoni. A quel punto scesi al cengione cinquanta metri più in basso, dove attacca la via Samuele Scalet, dal suo chiodo di partenza siamo saliti sulla cengia poco sopra e obliquando verso destra, superando ancora qualche muretto di placche, risaliti alla cengia Dibona con difficoltà stimabili di 4° e 4°+,Rileggendo la relazione della guida CAI-TCI ho potuto constatare che in una noticina alla fine si evindenzia come Dibona avesse attaccato appunto più in basso del percorso usuale (quello ricercato da Gogna e Bragantini) raggiungendo la cengia nel mezzo, quindi probabilmente abbiamo percorso una delle pochissime salite integrali della via.Consiglio vivamente a chi volesse ripeterla di seguire questo percorso iniziale che risulta molto più diretto e sicuro dell’attaccare la cengia alta friabile e bagnata.
E questa la nota positiva.
Ciò che purtroppo ho dovuto invece constatare negativamente, è che qualcuno ha spittato le soste del primo tratto (quello fino alla fine del masso squarciato per intendersi) ed ha addirittura messo un fix all’uscita del tetto, dove una stupenda fessura di roccia ottima permette di inserire qualsivoglia nut o friend ed esiste anche un chiodo facilmente sostituibile. Personalmente non ho avuto bisogno di usare nemmeno quello vista difficoltà contenuta e compattezza della roccia.
Se dopo oltre cent’anni dalla prima salita avvenuta come si sa con l’uso forse di un paio di chiodi ci si deve servire di fix per ripeterla, questo evidenzia non solo l’incapacità di chi ha commesso questo gesto che reputo irrispettoso e maleducato ma evidenzia anche che l’alpinismo, così come si dovrebbe intendere, è finito e rimane appannaggio di pochi.
Credo sia vergognoso un atteggiamento di questo tipo che deturpa un capolavoro unico e dimostra soltanto l’incapacità e l’arroganza di qualche idiota!
La Monna Lisa non viene ridipinta ogni volta che i coiffeur lanciano una nuova acconciatura, la storia si scrive, volerla riscrivere è da impediti che facendosi scudo dietro la scusante della sicurezza dimostrano soltanto la propria incapacità e pochezza!!!
cari amici, ho letto con interesse questo racconto perchè al “caso del masso squarciato” ho dedicato un ampio e articolato servizio sulla Rivista della Montagna circa un quarto di secolo prima, intorno al 1987 o giù di lì. Era intitolato “Il giallo del Croz”, si sviluppava per una dozzina di pagine almeno perchè ospitava varie illustri testimonianze in chiave storica. La più articolata e battagliera era quella di Domenico Rudatis che mi aveva scritto da New York per rievocare la terza ripetizione da lui compiuta nel 1929 con Videsott capocordata, mentre la seconda era stata compiuta da Preuss nel 1911 non senza difficoltà; pubblicavo poi una testimonianza di Hans Steger che nel 1928 aveva evitato la gola andando su diritto per il pilastro a destra: la lettera del vecchio Steger, spentosi proprio allora, mi venne inviata dalla moglie Paula Wiesinger; c’era poi il parere di Bruno Detassis autore della variante diretta lungo la gola Dibona, una testimonianza di Cesare Maestri autore della solitaria in discesa, i ricordi di Heniz Steinkotter autore della prima invernale, un parere di Maurizio Giordani autore di una ripetizione in libera. Insomma, avevo cercato di chiarire con una vera inchiesta uno dei casi storici più clamorosi di anticipazione del Sesto grado. Quel servizio era firmato a quattro mani da me e da Alberto Papuzzi, giornalista della Stampa con il quale allora curavo la rubrica dei libri sulla RdM. Infatti avevo trascinato Papuzzi e anche un altro amico giornalista e alpinista, l’austriaco Dietmar Polaczek, per verificare insieme la prodezza di Dibona. Un anno o due dopo ero tornato a ripetere la via con il collega istruttore della Gervasutti di Torino Sandro Zuccon soprattutto per fare delle foto per l’articolo. Le foto in controluce sotto l’antro del masso squarciato non sono facili da fare.
Oggi che non ho più l’età per fare cose del genere, ricordo che il passo decisivo per me che entrambe le volte mi trovavo in testa, è stato uscire dalla fessura strapiombante afferrando una presa netta che si trova nel diedrino d’uscita. Una mano ha una buona presa, ma le gambe sventolano nel vuoto cosicchè l’altra mano deve subito trovare qualcosa più in alto da tirarsi su, che per fortuna si trova.
Suggerisco a Sandro di andarsi a cercare quel servizio sulla RdM che potrebbe avere ancora qualche interesse.
La via l’ha aperta senza bivacco ma con un tentativo il giorno prima per trovare la chiave di entrata nella parete per niente semplice.
Se si pensa che la via sull’Altissimo il GRANDISSIMO Angelo l’ha aperta senza l’uso dei moschettoni e sul masso ha piantato due dei 15 chiodi usati in tutta la sua vita sembra impossibile, alpinisti così ne nascono uno ogni secolo.
Mi sembra abbia piantato nella sua vita non più di 15 chiodi dei quali 6 alla Ailefroide !!!!!!!!!
Una sicurezza interiore oggi incomprensibile !!!!!!!!!
La guida cortinese Angelo Dibona fu uno degli alpinisti piú capaci della sua epoca e uno dei piú grandi della storia. E fu anche uno dei piú nobili e modesti: merce rara al giorno d’oggi.
Leggete la sua biografia: “Angelo Dibona. Alpinista e guida. Da Cortina d’Ampezzo alle Alpi”, a cura di Carlo Gandini, ed. ULdA, Cortina d’Ampezzo. È un’opera magnifica, con innumerevoli fotografie d’epoca e il curriculum alpinistico completo. Stupenda!
Uno dei più forti alpinisti mai esistiti, Guida Alpina d’eccezione che accomunò l’accompagnamento guidato e l’alpinismo esplorativo “estremo” segnando quel passo evolutivo che ancora oggi è il top della professione!!!