Metadiario – 192 – L’urlo della tormenta (AG 1995-002)
Il 2 aprile 1995 salgo con Angelo Recalcati il Sasso Moro 3108 m in Val Malenco per fotografare il gruppo del Bernina da meridione. L’itinerario con gli sci non è difficile ma neppure facilissimo. In ogni caso è faticoso. Per fortuna incontriamo condizioni di neve buone.
Attorno allo Zürichsee qualcosa ci ricorda che presto delicati colori avranno la meglio sull’inverno. È nell’aria. Ma noi puntiamo, dopo Glarus e Linthal, a una fine del mondo chiusa e coperta di neve. L’accogliente albergo di Tierfehd e la gentilezza della padrona non cancellano la prima impressione di essere giunti al fondo di un sacco, senza spazio, tempo e riferimenti fisici, così da sentire altrove la civilissima Svizzera dei telefoni e dell’elisoccorso. Siamo in un ombelico sprofondato nel ventre di un colosso. Dopo cena ripassiamo la lezione sulla cartina: metri di dislivello, pendii esposti alle valanghe, orari di partenza, carichi sulle spalle, per rassicurarci che sia come le altre volte. Qui, nel cuore delle Alpi di Glarona, i valori delle precipitazioni sono tra i più alti dell’intera Svizzera, fino a 3000 mm annui. Questo gruppo di grandi montagne si erge selvaggio a nord della valle del Reno Anteriore (quindi dei Grigioni) e a sud del Klöntalsee e del Walensee (quindi delle Prealpi Svizzere). Solo un valico stradale, il Klausenpass, collega la Linthal ad Altdorf: la regione è un massiccio intransitabile, difeso da ghiacciai e da bastionate enormi. Tremila metri dividono in altezza la vetta del Tödi dall’abitato di Linthal, e il peso di questa non comune imponenza supera muri e finestre, entra nelle stanze, imprime una curva ai tavoli e intacca le nostre pretese certezze.
Gruppo del Tödi, Svizzera. In salita verso il bianco Geissbuetzistock. Dietro è la mole scura del Tödi, sovrastata dal suo ghiacciaio pensile; a sin, il Bifertenstock. Foto: Marco Milani
Fuori, una notte immota a sprazzi di luna avvolge il mondo incantato di una realtà separata e sospesa. All’alba del 6 aprile 1995 il senso d’immobilità gigantesca s’addensa e si raccoglie nei punti nevralgici del nostro casuale guardarci intorno. Nebbie pesanti, nuvole grevi, ci negano ogni parziale sollievo; lo stillicidio dell’acqua da una roccia scura, il rombo improvviso di una scarica di neve marcia che spazza un vicino canalone, il Limmerensee, sinistro lago artificiale che c’è ma non si vede: sono impulsi per registrare un dramma naturale in cui ogni apparente immobilità si azzera, nel perpetuo movimento delle cose che si attuano al di là della nostra partecipazione: vediamo solo dei grumi che si trasformano e ci sfugge il senso generale, attori disponibili ad imparare la parte proprio sul palcoscenico.
Gruppo del Tödi, Svizzera. Dalla vetta del Geissbuetzistock, verso il Chli Toedi, Piz Casarauls, Clariden, Bocktschingel, Tuefelsjoch, Tuefelstock, Speichstock, Gemsfairenstock. Foto: Marco Milani.
Soltanto alle baite di Altstafel il sole riesce a penetrare la cortina di nubi. I fondali sono montagne bianchissime e ripide, i pendii a meridione del Rotstock sono solcati da resti di valanga e ne promettono ancora. Non siamo neppure a metà del percorso per la Claridenhütte e Marco Milani, Martin Trout ed io siamo già stanchi. È strano sentirsi dei manichini con una volontà propria e del resto “Non è di tutti convivere con tali meraviglie e passeggiare da mattina a sera nello smarrimento e nello stupore” (Victor Hugo). Alla fine del vallone, ben al di fuori del suo caldo stagnante e dei suoi pericoli, incontriamo due che scendono. Mi chiedono delle condizioni della neve, io li avverto che giù la temperatura è alta, qualcosa potrebbe scaricare. Mi ringraziano e partono come frecce: Martin e Marco mi raggiungono appena in tempo per scorgere una mostruosa colata di neve pesante che scivola lenta in direzione dei due puntini. Il primo è fuori, ma il secondo ce la farà? È difficile sciare veloci sui resti di slavine precedenti e così da lontano non son chiare le proporzioni. Un attimo dopo il passaggio del secondo, la scia è sepolta: nessun suono, solo vedere e sentire grande freddo dentro in assenza di emozioni. Nel pomeriggio arriviamo al rifugio a 2453 m, in posizione finalmente aperta: l’anziana custode si è tolta gli sci un attimo prima di noi. Da dove viene ora, da quanti giorni è qui? Avrà fatto una passeggiata da sola? Scambiamo qualche faticosa parola in tedesco e tanti sorrisi. Con curiosità accettiamo questi piccoli misteri. Le dimensioni reali del luogo si rivelano la mattina dopo, fredda e luminosa. Un immenso ghiacciaio pensile si appoggia sulla larga vetta del Tödi, il confine tra roccia e ghiaccio è un seracco verticale di un centinaio di metri che corre a sciarpa su tutta la scura muraglia del monte, a suggello di grandiosità.
Gruppo del Tödi, Svizzera. La Planurahuette e l’Heimstock dominano la grande distesa bianca dell’Huefifirn. Sullo sfondo, lo Schaerhorn, il valico del Chammliluecke, Chammliberg, Chammlijoch e Clariden.
Il mattino dopo è una gioia per gli occhi, con il Tödi a portata di mano. Ma noi saliamo verso la Planurahütte, sita su una stupenda e colossale onda di neve creata dal vento che si frange sulle rocce dell’Hintere Spitzalpelistock: un solco a mezzaluna profondo decine di metri. Proseguiamo per la vetta del Clariden 3267 m, ne riscendiamo e il tempo si guasta. Poco prima della capanna il vento si alza, poi diventa rabbia quando siamo al riparo. Planura… Jean-Jacques Rousseau scriveva “Un paese di pianura, per quanto sia bello, non lo fu mai ai miei occhi. Ho bisogno di torrenti, di rocce, di pini selvatici, di boschi neri, di montagne, di cammini dirupati ardui da salire e da discendere, di precipizi ai miei fianchi che mi spaventino!“.
Nei pressi della Planura Hütte, Clariden Pass, Clariden Alpen, Svizzera. Foto: Marco Milani.
Il giorno (8 aprile) dopo ci barrichiamo. La tormenta è tale che è un’impresa raggiungere la toilette. Il custode ci assicura che lì è normale: a me sembra più dirompente che in Himalaya. Ma forse sto invecchiando e facendo più grosse le cose, un po’ come cacciatori e alpinisti. Tra quattro pareti e sotto un tetto non è paura, è ammirazione per una natura che esplode: l’apparente immobilità era un lento preparativo a questo normale sconvolgimento. L’urlo della tormenta fa tremare i doppi vetri, s’insinua nelle fessure, entra nella mente e se ne impadronisce: giochiamo a carte, ma la tormenta qui dentro vince non solo perché ci tiene prigionieri. La mattina dopo rocce e neve sono rivestite di cristallo. Il profilo del Gross Windgällen è scolpito ai margini, il vento è forte ma in diminuzione, la visibilità arriva lontano. Ci dirigiamo allo Chammlijoch 3031 m, poi giù per la Iswandli, con neve perfetta, fino al Klausenpass e a Urner Boden.
Martin Trout e Marco Milani salgono dalla Planura Hütte al Channlijoch, Clariden Alpen, Svizzera (9 aprile 1995)
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