Tamara Lunger – 2

Il prossimo 2 settembre 2022 Tamara Lunger sarà ospite del Campo Base Festival. Nella splendida cornice della ex-cava (Tones Teatro Natura) di Oira (VB), alle ore 21.15, con questa alpinista dalla positività contagiosa ci si interrogherà sui valori e i vari aspetti degli sport di montagna andando a scoprire anche le sue personali “montagne interiori”. Quanto si può essere “diplomatici” a 30° o 40° sottozero? Quanto altruisti? Quanto ottimisti di fronte ai compagni?

Qualche ricordo della mia vita
di Tamara Lunger
(continua da https://gognablog.sherpa-gate.com/tamara-lunger-1/)

Kangchenjunga 8586 m
Aprile-maggio 2017

Il massiccio del Kangchenjunga è composto da 5 cime, di cui 4 sono oltre gli 8000 metri (Yalung Kang 8505m, Kangchenjunga 8586m, Kangchenjunga Central 8.483m e Kangchenjunga Sud 8467m).
Lo scopo di questa spedizione era attraversare i quattro 8000 e aprire anche una nuova via per arrivare alla cresta ovest che porta allo Yalung Kang. Il tutto in squadra con Simone Moro, senza ossigeno e portatori.

Dopo aver fissato le corde sulla via normale, dove volevamo fare l’acclimatamento, siamo saliti al campo 4 a 7400 m. Le condizioni climatiche erano costantemente negative: in questo modo abbiamo potuto completare l’acclimatamento, ma la potenziale via sembrava estremamente pericolosa e quindi abbiamo optato per saltare la prima cima (Yalung Kang) e provare a salire le altre tre partendo dalla cima principale. Era chiaro che la visibilità in questa traversata era per noi assolutamente necessaria per poter ritrovare il campo 4 sulla via del ritorno. Tutti gli altri alpinisti erano già ripartiti per il ritorno, siamo così rimasti soli godendo della solitudine della montagna. In questa spedizione non abbiamo seguito il classico schema dei campi alti, ma abbiamo allestito solo due campi in posizioni strategiche. Il campo 3 (o il nostro campo 1) a circa 6600 metri e l’ultimo campo (nostro campo 2) a 7400 metri. In questo modo siamo stati molto efficienti e veloci ad arrivare all’ultimo campo per poter provare, anche con poche ore di bel tempo, la salita per la cima.


Il primo tentativo verso la cima sembrava procedere bene fino a quando Simone ha iniziato a vomitare. Le sue forze continuavano a diminuire così abbiamo deciso di scendere il giorno stesso fino al campo base. Le previsioni meteorologiche ci hanno poi costretti a tornare al campo 3 dopo un giorno di riposo, questa pausa ci ha dato il tempo per avere ancora una possibilità per la scalata della cima. Ma nel corso della seconda giornata abbiamo capito che Simone era ancora troppo debole e che andare avanti, in quelle condizioni, avrebbe messo a rischio la vita. Così ci siamo seduti a 7100 metri e insieme abbiamo deciso di scendere.
Nei giorni seguenti il tempo è stato comunque troppo brutto per la traversata, anche solo per la cima.
E così, per il terzo anno consecutivo, nessuno è riuscito a salire in vetta al Kangchenjunga.

India nord-orientale
Settembre-ottobre 2017

Tutte le situazioni vissute al campo base del Kangchenjunga sono state molto difficili, non a causa della spedizione fallita, ma a causa della confusione e dell’accesso al campo base. Ormai moltissime persone arrivano impreparate sulle vette più alte del mondo senza essere cresciute in montagna o senza l’adeguato allenamento e quindi spesso manca un comportamento adeguato e rispettoso dell’uomo e della natura. Questo mi ha profondamente delusa, perciò sono partita con Aaron Durogati di Merano, per due volte campione del mondo di parapendio. Avevo bisogno di un’esperienza completamente diversa dalle precedenti e abbiamo deciso di andare nel nordest dell’India (Himachal Pradesh). Lo scopo di questa spedizione era scalare diverse cime e lanciarci in tandem.


L’equipaggiamento era veramente ridotto al minimo perché in questo modo era possibile salire velocemente ed effettuare i lanci in tempi brevi. Ci siamo concentrati su 4 differenti posti che volevamo visitare senza avere un piano e un obiettivo precisi. Prima siamo andati a Keylang e in seguito al Shincula Pass 5000 m, dove abbiamo fatto diverse salite, ma il vento era troppo forte e non era possibile lanciarsi con il parapendio dalle montagne.

Successivamente siamo andati nella Spity Valley, in direzione del Tibet, dove abbiamo potuto fare alcune escursioni giornaliere fantastiche, anche perché il tempo era sempre molto favorevole per il volo. Ogni giorno abbiamo spostato il nostro campo base, ci siamo preparati e abbiamo programmato giorno per giorno le nostre escursioni e le salite. Dopo una settimana nella Spity Valley, dove siamo riusciti a volare con il parapendio fino a 6200 metri, abbiamo proseguito per Parvati, e poi per Bir, la mecca del parapendio in India. Allenamenti fisici giornalieri, voli lungi o planate ci hanno portato a scoprire nuove mete. Abbiamo scelto sempre decolli diversi: in questo modo è stato possibile godere della bellezza di quei luoghi al 100% ogni giorno. Che si trattasse di un volo sopra i monasteri, su ripide gole, in altezza, su campi e prati o atterraggi in città, il momento clou di questa spedizione è stato sicuramente il volo con le aquile.
Questa spedizione mi ha fatto capire che la libertà e la pace interiore non la trovo solo sugli 8000 metri, ma anche in altre aree lontane dalle civiltà.
Man mano che l’alpinismo diventa sempre più commerciale, potrebbe essere il momento di espandere i miei orizzonti e intraprendere nuove avventure.

Mount Pobeda 3147 m (Čerskij Mountains, Siberia, Russia)
prima invernale della montagna, 12 febbraio 2018
Gennaio-febbraio 2018

Mi ci sono voluti 2 mesi per decidere se affrontare con Simone questo progetto. Avevo paura di perdere le dita dei piedi ma le foto della zona erano così intriganti che non potevo dire di no. Mi aspettavo i -70° C. Saremmo stati in uno dei posti più freddi del pianeta.

Il viaggio con tre diversi voli è stato molto emozionante. Dopo un totale di 13 ore di volo siamo arrivati ​​a Ust Nera, dove abbiamo preso un Waz 4×4 per continuare per Sasyr. Molto lontano da casa con 10 ore di fuso orario. I nomadi e gli allevatori di renne poi ci hanno portato con la loro motoslitta nelle loro abitazioni temporanee, un posto meraviglioso dove abbiamo passato la maggior parte del nostro tempo. È stato davvero un tuffo in un mondo inimmaginabile.
Abbiamo studiato la montagna con Oleg, un alpinista di Yakutsk, e con il suo aiuto siamo riusciti a sviluppare la nostra strategia. Dopo aver battuto la strada con gli sci fino al ghiacciaio ci siamo riposati per due giorni perché avremmo provato a salire la cima in un solo giorno, senza sapere quali difficoltà ci avrebbero atteso sopra.
Il Mount Pobeda è una montagna caratterizzata da passaggi abbastanza tecnici su roccia e in caso di incidente sarebbe stato impossibile un soccorso anche per via dell’isolamento estremo della catena montuosa Chersky Range, molto vicino al Circolo Polare Artico. 

Dopo 7 ore siamo arrivati sulla cima, felici. E dopo 11 ore eravamo di nuovo al campo base. In qualche modo ero sollevata, perché era dal 2014 che non riuscivo a raggiungere una cima durante le mie spedizioni.

«Ha nevicato tutto il giorno ma fortunatamente c’era una buona visibilità e nonostante il freddo molto intenso la nuvolosità ci era favorevole, scongiurando così temperature ancor più estreme. Se il vento moderato e temperature a -30/35 gradi sono le condizioni che hanno caratterizzato la giornata in cui abbiamo raggiunto la vetta, durante il resto della spedizione abbiamo raggiunto anche i -50! Il nostro approccio in puro stile alpino senza alcuna sosta è stato pensato proprio per evitare di dover trascorre un’altra notte in condizioni potenzialmente estreme», ha poi commentato Simone. 

La situazione ambientale che abbiamo affrontato è stata unica nel suo genere. La temperatura media non ha mai superato i – 35/40 gradi. Ci sono stati soltanto tre giorni di bel tempo e cielo sereno in tutta la durata della spedizione ma nonostante le condizioni estreme questa regione isolata e remota ci ha emozionati con l’incredibile bellezza della sua natura.

È stata un’esperienza importante per la mia carriera, ho ottenuto molte consapevolezze che saranno sicuramente molto utili per il mio futuro.

L’incontro con Tamara
di Katja Schroffenegger
(pubblicato in suedtirol.info nel 2017

Oggi la incontro dov’è nata e cresciuta, a San Valentino in Campo in Val d’Ega. Mi racconta di lei, di ciò che fa. Ad ogni parola che mi dice una cosa mi è sempre più chiara, prova un viscerale e indiscusso amore per la montagna. 

Tamara mi accoglie abbronzata e di ottimo umore. E nonostante il jet lag è piena di energia! Foto: Ivo Corrà.

Idee chiare
Il Latemar si staglia davanti ai nostri occhi, è splendido. Sulla sinistra riconosco una cima del Catinaccio. Tamara Lunger è cresciuta qui, a 1100 metri di altitudine. Troppo pochi per lei!
Tami – è così che tutti la chiamano – infatti vive da sempre per le sfide. Ha una vera cultura della fatica. Per imparare ad andare in bicicletta ha rifiutato le rotelline e quando ha iniziato a sciare, si è presto accorta che per lei le comuni piste tracciate non erano abbastanza. “Cerco sempre di fare qualcosa di difficile per sentirmi distrutta a fine giornata!” mi confessa. A 14 anni cominciò a frullarle nella testa qualcosa che avrebbe caratterizzato e segnato la sua vita. “Decisi che sarei salita in vetta ad un ottomila. Anche se non sapevo ancora come” ammette Tamara.

Simone Moro è il collega perfetto per Tamara. L’armonia tra i due alpinisti è tangibile. “Quando si trascorre così tanto tempo in montagna, rinchiusi in una piccola tenda, si diventa come fratelli” racconta Tamara.

Lei, la sua unica forza
Tamara ama a tal punto la montagna, che la sente, la percepisce. “Capisco subito se qualcosa andrà bene o no” mi spiega. E per sentire la montagna fino in fondo, rinuncia a bombole di ossigeno e portatori. “Se non ce la faccio da sola, non merito di arrivare in cima – racconta Tami – Quando arrivi su e vedi gli altri con le bombole di ossigeno, ma tu ce l’hai fatta senza… ah, è meraviglioso!”. E tutto questo me lo racconta con una tale semplicità che per un istante dimentico quanto siano spettacolari le sue imprese. “Solo durante la salita sul mio primo ottomila mi sono fatta aiutare. Ma poi mi sono data della rammollita!”. Le sue parole mi suonano spietate…

Libertà
Ormai l’ho capito, Tami non può vivere senza la montagna, ma continuo comunque a chiedermi cosa la spinga a cercare sempre qualcosa di così estremo. Per quanto le sue esperienze siano belle, non potrei mai pensare di vivere settimane senza acqua calda, rinchiusa in una piccola tenda da campo a mangiare cibo in scatola… Tamara mi corregge quasi indignata: “In ogni spedizione porto con me speck, Schüttelbrot, parmigiano e Kaminwurz (salamini affumicati tipici dell’Alto Adige)!”.
Ancora una volta Tamara mi sorprende con la semplicità di ciò che mi dice. “Sono costantemente alla ricerca della mia libertà – mi racconta – E ormai so che la posso trovare solo in montagna, lontano dalle incombenze quotidiane e dalla gente”. Ora capisco, ecco perché era così a suo agio durante la sua ultima spedizione, quando rimase per un lungo mese senza cellulare!

Tamara spesso cerca di fuggire dalla confusione del campo base. Preferisce percorrere nuove vie per raggiungere la vetta e predilige le spedizioni invernali, meno affollate. “Meglio un cinquemila tranquillo piuttosto di un ottomila con troppa gente” ammette Tamara. Foto: Ivo Corrà.

Gli ultimi 70 metri
La vita di Tamara è caratterizzata da alti e bassi. Frequenti problemi alle ginocchia la costringono spesso a delle pause. “Gli ultimi due anni non sono stati un granché per me” mi racconta in piena onestà. Immagino si riferisca soprattutto a ciò che è successo nel 2016, sul Nanga Parbat. Dovette fermarsi a soli 70 metri dalla vetta. “Sapevo che se avessi proseguito, sarei morta” dichiara senza esitazione.
Ha lo sguardo rivolto alle montagne, guarda lassù. Io guardo i suoi occhi, Tamara è molto matura per la sua età.

Io, gli Ottomila e la felicità
Nella sua biografia Tamara Lunger racconta un modo nuovo di vivere in montagna. E di stare bene con se stessi.

Non arrivare in cima al Nanga Parbat non è stata una sconfitta. Il successo va ben oltre il raggiungimento di una vetta”.

Il sole pian piano sta tramontando, io e Tami ci salutiamo. Mentre rientro a casa le sue parole mi riaffiorano alla mente: “Sapevo che se avessi proseguito, sarei morta”. 70 metri possono essere così pochi. Ma anche così tanti.
Comunque ci riproverà, lo so. Salirà ancora su un ottomila. Volere è potere. E la volontà a lei non manca di certo.

Fragile e forte come il ghiaccio 
di Alice Rosati
(pubblicato su vanityfair.it il 7 aprile 2022)

L’alpinista altoatesina racconta la verità che arriva dal cuore sulle tragiche vicende del K2 e di un progetto benefico dedicato all’emancipazione delle ragazze pakistane. Tamara ci insegna come si rinasce dopo aver attraversato il dolore e ad ascoltare sempre il bambino che c’è in noi, una voce che ti salva la vita.

Tamara Lunger sorride, è positiva. Una positività contagiosa di chi non solo guarda al futuro con speranza, ma di chi sa stare in quella attitudine positiva che emerge con naturalezza nel suo modo di relazionarsi con gli altri. Ma quanto le è costato arrivarci, quanto dolore da attraversare. In occasione della serata A tu per tu con gli atleti, organizzata da DF Sport Specialist, Tamara racconta la verità elaborata dal suo cuore sulle tragiche vicende del K2. Inverno 2021: dopo il successo della cordata nepalese che conquista per la prima volta nella storia l’ultima cima rimasta inviolata in invernale, al campo base della montagna pakistana ci sono anche molti dei migliori alpinisti occidentali, oltre all’eroe nazionale Ali Sadpara. In pochi giorni perderanno la vita Ali Sapdara, John Snorri, Juan Pablo Mohr, Sergi Mingote e Atanas Skatov. Tamara si salva, ma questo non basta per continuare ad amare la vita, perché anche da vivente dovrà affrontare un percorso di morte e rinascita per tornare a essere se stessa. Ed è per questo che oggi Tamara sorride. 

Fragile e forte come il ghiaccio
«Ci sono dei momenti fragili e altri forti, o nei quali ti è richiesto di essere forte. Ero consapevole che il K2 sarebbe stata l’esperienza più difficile della mia vita, un’esperienza che avrebbe portato alla luce tutte le mie fragilità ma che, allo stesso tempo, mi avrebbe resa più forte. Anche se sul momento tutto è molto duro, ho trovato il metodo dentro di me per andare avanti e rimettermi in un assetto positivo. Oggi provo gratitudine per aver conosciuto e condiviso momenti di vita con i miei amici, di aver imparato molto da loro e di aver conosciuto di più me stessa attraverso di loro. Nonostante tutta la sua brutalità, sento che questa vicenda ha arricchito il mio cuore», racconta Tamara. «La meditazione mi aiuta molto, così come l’avere fede, che mi permette di vedere il bene in ogni cosa. Negli anni ho imparato a non lasciare spazio alla negatività e a voler essere un modello positivo per gli altri, nonostante tutto. La positività richiede un cambiamento e come tutti i cambiamenti comporta anche lacrime amare, richiede dedizione, è qualcosa su cui lavorare». 

Quando il bambino che c’è in noi salva la vita
«Scalo le montagne con l’anima e col cuore. Al di là della valutazione sulle condizioni oggettive della montagna che sono sempre richieste a un alpinista, io scalo ascoltando quello che sento dentro. Una voce che mi ha già salvato la vita molte volte. Nasciamo con questa intuizione e io cerco di tenere sempre questa “piccola Tamara” stretta a me, non voglio perderla. Questa voce determina il modo in cui noi guardiamo il mondo. Quando mi trovo davanti a una montagna cerco di capire cosa mi vuole dire, se sono la benvenuta o se è meglio che io rimanga giù. Ed è esattamente quello che è successo sul K2: quando ho lasciato il campo 3 e ho deciso di scendere, l’ho fatto perché ho sentito che quella montagna mi stava chiaramente dicendo di andare via. Tutta la via sembrava cadere a pezzi, più che una voce sottile, era un urlo». 

Correre costantemente, subire la pressione di dover raggiungere qualcosa a tutti i costi porta all’esaurimento. La vita va lasciata scorrere fluida e sarà lei a mostrarti le cose più giuste per te, quelle che ti riempiono di gioia. Tamara lo sa bene. 

Il sogno invernale
Gli Ottomila scalati durante la stagione invernale rappresentano il sogno e la sfida di ogni alpinista. «Per me significa scappare dalla massa e scalare rimanendo fedele ai miei valori. Scegliere la stagione invernale vuol dire mostrare a se stessi fin dove si riesce ad arrivare. L’inverno, con le sue condizioni estreme, ti mette alla prova come un bambino che impara a superare le sue paure». Ma non tutto può essere ricondotto alla eroicità dell’impresa. «La parola che per me descrive meglio la montagna è intensità, sia nel negativo sia nel positivo. La montagna è la mia maestra. Oggi, spesso a causa della tecnologia, ci siamo allontanati dalla natura, che ci fa quasi più paura della città. Ma quando saremo capaci di riconnetterci con questa Madre, diventeremo persone più equilibrate e positive». 

L’altro lato dell’alpinismo
C’è un lato dell’alpinismo che in pochi conoscono. Sono i progetti benefici portati avanti nei luoghi dove sorgono le montagne più alte del Pianeta. Spesso succede che nonostante le montagne siano di casa, le popolazioni non abbiano i mezzi e le capacità tecniche per scalarle, che nei villaggi manchi la luce o che le donne abbiano un ruolo molto marginale.  E, invece, per queste donne l’arrampicata potrebbe significare uno strumento di riscatto ed emancipazione nei confronti di una società conservatrice e patriarcale, il primo passo per superare la discriminazione di genere.

Tamara, insieme a La Sportiva di cui è ambassador e alla climber Wafaa Amer di origini egiziane, ha portato avanti il progetto Climbing for a reason, un’opportunità di riscatto per ragazzi e ragazze del Pakistan, fortemente voluta da Juan Pablo Mohr. L’iniziativa prevedeva l’insegnamento dell’arrampicata alle bambine e ai bambini pakistani della Shigar Valley, la costruzione di una parete di arrampicata, l’attrezzatura di alcune falesie, workshop di nodi e manovre, e la donazione di attrezzatura e abbigliamento per scalare. Un modo di ricordare un caro amico scomparsa e di raccogliere il suo testimone, ma anche di mostrare alle comunità locali un possibile sviluppo lavorativo nel mondo dell’arrampicata e offrire un’opportunità partendo dalle risorse della loro terra.

«Per me e gli amici di JP era importante dare seguito al suo sogno e portare avanti questo progetto. Ci tenevo particolarmente a coinvolgere le ragazze: vorrei vederle prendere in mano la loro vita e seguire i loro sogni. Desideravo far sapere alle donne quanto è bello essere donna e quante cose stupende si possono fare. Naila Yasmeen, la nostra referente sul posto che ha coordinato tutta l’iniziativa, si è recata nel villaggio e ha bussato porta dopo porta per chiedere ai genitori il permesso di far scalare le loro figlie e i loro figli, che altrimenti avrebbero lavorato nei campi. Ho scoperto che vedere quei sorrisi e quegli occhi lucenti ed entusiasti mi rende felice». 

Questo progetto è un cantiere aperto, ha stimolato la curiosità di tante ragazze che così si sono poste domande che mai avrebbero immaginato di farsi e che lasceranno loro la voglia di trovare risposte attraverso nuove possibilità. «Per la prossima estate ho già in mente un progetto contro l’infibulazione in Africa», dice Tamara. «Appena mi rimetto in forma con la schiena tornerò anche a scalare sulle montagne di casa. Per gli Ottomila, invece, vedrò cosa mi suggerisce la “piccola Tamara” che c’è in me». Se così non fosse, lei non sarebbe l’alpinista dell’anima. 

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Tamara Lunger – 2 ultima modifica: 2022-08-29T05:02:00+02:00 da GognaBlog

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2 pensieri su “Tamara Lunger – 2”

  1. 2 articoli e dopo 3 giorni nemmeno un commento.
    A è molto amata la Tamara!!!
    Speriamo vada qualcuno a vederla!!! 

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