Tamara Lunger – 1

Il prossimo 2 settembre 2022 Tamara Lunger sarà ospite del Campo Base Festival. Nella splendida cornice della ex-cava (Tones Teatro Natura) di Oira (VB), alle ore 21.15, con questa alpinista dalla positività contagiosa ci si interrogherà sui valori e i vari aspetti degli sport di montagna andando a scoprire anche le sue personali “montagne interiori”. Quanto si può essere “diplomatici” a 30° o 40° sottozero? Quanto altruisti? Quanto ottimisti di fronte ai compagni?

Breve biografia
Nata a Bolzano il 6 giugno 1986, figlia di HansJoerg Lunger, famoso scialpinista e alpinista. È la maggiore di tre sorelle ed è cresciuta con la sua famiglia a San Valentino in Campo. Ha ereditato la passione per la montagna e le sfide dal padre. Dopo la maturità al liceo scientifico ad indirizzo sportivo a Vipiteno, ha studiato scienze dello sport all’università di Innsbruck, in Austria.

Inizia la sua attività atletico-alpina a 16 anni. Nel 2003 partecipa per la prima volta alla competizione Vertical Race a San Martino di Castrozza.

Al Lhotse

Entrata a far parte della Squadra Nazionale Italiana, vince molte gare importanti tra cui: due volte campionessa italiana, è prima alla Pierra Menta nel 2007 e nel 2008, poi ottiene il titolo di Campione del Mondo di lunga distanza nel 2008.
Dopo l’esperienza di scialpinismo è alla ricerca di nuove sfide estreme in alta montagna. Così il 23 maggio 2010 divenne la donna più giovane a raggiungere la vetta del Lhotse usando ossigeno supplementare. Il 26 luglio 2014 scala il K2 (seconda femminile italiana). Il 26 febbraio 2016 inizia, in occasione della prima ascensione invernale del Nanga Parbat, la sua scalata dall’ultimo campo verso la vetta. Mentre i suoi compagni di cordata, ossia il bergamasco Simone Moro, il basco Alex Txikon ed il pakistano Ali Sadpara, giungono fino alla cima di questo ottomila, Tamara Lunger deve fermarsi a 70 metri dalla cima per problemi di salute dovuti allo scarso periodo di acclimatamento. Nel 2020, durante un tentativo in invernale del Gasherbrum I, il suo compagno di cordata Simone Moro finisce in un crepaccio a testa in giù: Tamara Lunger riesce a salvarlo, riportando nell’azione alcune ferite alla mano.

Tamara Lunger ha scritto Io, gli ottomila e la felicità. I miei sogni, tra amore per la montagna e sfida con me stessa, Rizzoli, 2017, ISBN 9788817098489; poi Il richiamo del K2. La dura lezione della montagna, Rizzoli, 2021, ISBN 9788817159609. Risiede a Cornedo all’Isarco.

Qualche ricordo della mia vita – 1
di Tamara Lunger

Island Peak 6189 m
(tentativo al Cho Oyu, 2009)

Ho conosciuto Simone Moro al mio ballo di maturità e in quell’occasione mi ha promesso che mi avrebbe portato con lui in una spedizione. Nel 2009, quando ci siamo ritrovati su facebook, io gli ho subito chiesto quando mi avrebbe portato con sé, per onorare la sua promessa…

Island Peak
La vetta dell’Island Peak

Lhotse 8516 m, nel 2010
Il tempo era stupendo ed era bellissimo vedere l’Everest là davanti. Dopo dieci ore di salita – con fissaggio anche delle corde fisse – arrivammo in cima (con Pemba Sherpa) alle ore 10.23 del 23 maggio 2010. Avevo 23 anni!

Tentativo al Cho Oyu 8201 m, nel 2010
Dopo quella tragedia ho vissuto un periodo davvero molto brutto. Mi chiedevo di continuo cosa fosse più importante, il mio sogno o la mia vita… Non sentivo più come prima la passione per la montagna. Ho incontrato due volte la moglie di Walter Nones, Manuela. Una donna forte, che ama le montagne e m’ha detto: “Fai quello che ti rende felice!” senza aggiungere altro.”

Cho Oyu

Khan Tengri 7010 m (Tien Shan, Kazakistan), nel 2011
Ero felice di aver scalato il Khan Tengri in condizioni di tempesta ed avere imparato molte cose. Ho davvero preso consapevolezza della mia forza e della mia capacità di focalizzare anche in condizioni avverse per giungere a destinazione. Questa, in fondo, è stata la vittoria più grande!

Khan Tengri

Muztagh Ata 7547 m
(+tentativo al Broad Peak 8051 m)
Nel giugno e luglio 2012

Monaco, Islamabad, Pakistan e poi in autobus verso la Cina, lungo la Karakorum Highway; breve pausa al Karakul Lake e via, direzione campo base, a quota 4450 m. Una spedizione a 6, con 4 partecipanti a me sconosciuti, e fin dall’inizio una buona intesa…
Per fortuna quest’anno ha nevicato talmente tanto che potevamo partire e rientrare con gli sci fin dal campo base. Ci siamo divisi in gruppi da due. Così Paul Augscheller ed io siamo partiti per la prima e unica salita di acclimatamento in programma, su fino al campo 1 a 5500 m; il giorno successivo saremmo dovuti arrivare a campo 2. Il tempo non era dei migliori e, dopo aver trascorso la notte lassù, ma senza aver ancora ricevuto il bollettino meteo, siamo rientrati, a malincuore, al campo base. La nebbia avvolgeva completamente la montagna. Al campo base il bollettino meteo dava una finestra di bel tempo di un giorno soltanto! Quindi non si poteva aspettare! Una notte al campo base e poi, rimessi gli zaini in spalla, siamo tornati su. Arrivati al campo 1, siam partiti subito per il campo 2. Nella zona dei seracchi la visuale arrivava solo a 5 metri, ogni tanto; a momenti non muovevamo neanche un passo per un quarto d’ora, per paura di cadere. Raggiungere il campo è stata un’impresa! Alle cinque del mattino abbiamo iniziato la discesa verso valle, al termine del nostro acclimatamento.

Muztagh Ata

Dopo cinque giorni di maltempo siamo ripartiti. Al campo 3 abbiamo passato la notte. Alle 8.10 del mattino abbiamo iniziato la salita decisiva, con un buon ritmo. 4 ore ed eravamo sulla cima del Muztagh Ata, la mia prima alta cima raggiunta con gli sci. Ero quasi sopraffatta dall’emozione. La fatica delle ultime due settimane terminava in una fantastica discesa, 3000 metri di dislivello in piena polvere. Ma era già tempo di affrontare gli 8051 metri del Broad Peak, nel Karakorum.
Paul ed io, dopo il successo sul Muztagh Ata, ci siamo diretti a Askole, mentre gli altri quattro tornavano a casa. Da lì siamo partiti per un trek di 5 giorni e 100 km alla volta del campo base del Broad Peak, con solo 2 settimane utili a raggiungere la cima e sapendo delle incerte condizioni meteo. Volevamo comunque provare ad arrivare in cima con tutta l’attrezzatura in un unico tentativo. Dopo due giorni al campo base, siamo saliti direttamente al campo 2 a 6200 m. Le condizioni erano ottimali, ma gli zaini pesantissimi… Al campo 2 siamo rimasti bloccati due giorni finché ci siamo rassegnati a scendere. Dopo questo tentativo, Paul ha deciso di lasciare… Il giorno dopo, al campo base, ho deciso di riprovarci anche senza Paul. Così, dopo aver riempito il mio zaino con tutta l’attrezzatura necessaria, che ora dovevo trasportare da sola, sono ripartita per campo 2. Purtroppo a quota 6500 m la neve era talmente forte che l’idea di un tentativo di vetta era assolutamente impensabile… Quel giorno ho deciso di abbandonare il mio sogno.
Ci ho provato, ho fatto del mio meglio e questa è la cosa che per me conta veramente. Il Broad Peak è solo 500 metri più alto del Muztagh Ata, ma a queste quote le condizioni meteo sono il fattore fondamentale. Ho verificato che, anche in altitudine, sono autonoma e riesco a trasportare da sola tutta la mia attrezzatura. Ed è proprio questo il mio obiettivo: arrivare in cima da sola, contando solo sulle mie forze e senza l’aiuto di portatori di alta quota o di sherpa. Cosa rara, di questi tempi!

Tamara in vetta al Muztagh Ata
Tamara Lunger e Paul Augscheller in vetta al Muztagh Ata

Pik Lenin 7143 m (Pamir, Kirghizistan)
Giugno e luglio 2013

Fin da bambina ho coltivato il mito di terre lontane da esplorare, terre selvagge che salgono sempre più su, fino al tetto del mondo! Queste terre avevano un nome da Mille e una notte: Pamir, un nome magico, capace di evocar nei miei pensieri avventura e mistero!
La bambina che ero ha dovuto aspettare fino a 27 anni per realizzare uno dei suoi sogni più belli, un viaggio esplorativo nel Pamir. Naturalmente ora riesco a vedere il Pamir per quello che è, una terra aspra e selvaggia nel cuore dell’Asia Centrale, a cavallo delle repubbliche del Kirghizistan e del Tagikistan, nate dalla disgregazione dell’ex unione sovietica… che però, ai miei occhi, mantiene intatto il suo mistero fatto di vallate disabitate, fiumi di ghiaccio, picchi vertiginosi squassati da crepacci e ghiacciai pensili; un impressionante oceano di montagne bianco e azzurro. Bam-i-Dunya, il tetto del mondo, così lo chiamarono i Persiani. Da qui si diramano le più alte catene montuose della terra, l’Hindukush a nord-ovest, il Tien shan a nord-est, il Karakorum e l’Himalaya a sud-est. Separato dalla Russia dalle sterminate steppe del Kazakistan, questo è stato per millenni il crocevia del commercio tra oriente e occidente attraverso la Via della Seta e i famosi mercati di Bukhara e Samarcanda.
Esplorare il Pamir è stato bellissimo; scalare il Pik Lenin, la vetta di 7134 m a Gorno-Badakhshan, fra Tagikistan e Kirghizistan è stato veramente indimenticabile! La grande fatica della salita è stata ampiamente ripagata dal panorama mozzafiato di cui ho potuto godere una volta arrivata in vetta: a est la vista arriva fino al Tien Shan (Pik Pobeda e Khan Tengri), al Kongur e al Muztagh Ata nello Xinjiang, fino alle innumerevoli ed innominate vette del Pamir occidentale.
Neanche il tempo di metabolizzare la bellezza di una visione sublime che è iniziata la parte adrenalinica dell’avventura, una lunga discesa dalla parete nord, un’intera parete, tutta, splendidamente, sciabile!

Pik Lenin
Sotto al Pik Lenin
Tamara in vetta al Pik Lenin

The Great Crossing
(150 km attraverso il Karakorum)
Da marzo a maggio 2013

L’idea di questo ski-trekking è del 2013, col tempo si sono poi aggiunte le possibili prime scalate a vette ancora inviolate. Un sogno che volevo realizzare da tanto tempo, quello di essere in cima ad una montagna dove ancora nessuno era mai stato.
Siamo partiti in quattro per il “The Great Crossing”: io, mio padre e due cameraman austriaci. Il 26 marzo 2013 abbiamo preso l’aereo a Monaco per Islamabad, dove abbiamo preparato le nostre pulka (slitte) col minimo necessario, visto che le dovevamo trainare noi, sui ghiacciai! In tre giorni abbiamo raggiunto Shimshal, ultima località prima del nulla… Il lunedì di Pasqua ci siamo incamminati verso il ghiacciaio di Braldu. Sei giorni di trekking fantastico e abbiamo raggiunto la neve ed il ghiacciaio.
Per i seguenti 25 giorni abbiamo potuto contare solo su noi stessi. C’è voluto un po’ ad abituarsi a trainare una pulka di 70-80 kg, a resistere alle condizioni difficili, ai crepacci, alle cadute e alle gravi difficoltà nel raggiungere le montagne a causa dei tanti seracchi. Dopo una prima cima per acclimatarci, con solo 2 pulka ci siamo recati in una valle laterale del ghiacciaio Braldu, per effettuare due prime ascensioni nei pressi del confine cinese. Ci hanno accolto crepacci a non finire e passaggi ghiacciati. Abbiamo camminato molto con i ramponi e le piccozze e siamo scesi con gli sci dalla cima fino ai piedi delle montagne.


Poi via, verso il valico del Lupke La per scalare altre due montagne. Purtroppo vento e gelo infine ci hanno costretto a tornare indietro. Il giorno seguente siamo partiti con un pessimo tempo in direzione del Braldu Brakk 6200 m. Però abbiamo raggiunto solo il precedente Seimila, perché la cattiva visibilità e una ripida valle intermedia hanno richiesto tutte le nostre forze per poter ritornare sani e salvi al nostro campo. Un’ulteriore giornata di cattivo tempo ci ha costretto a fare una pausa, ma infine abbiamo superato il passo, avvicinandoci ancora un poco alla civiltà. La discesa è stata abbastanza ripida e impressionante e dopo due giorni, passando per il Latok e l’Ogre, abbiamo raggiunto lo spettacolare Snow Lake. Neanche qui il tempo però era migliore… Lentamente il tempo ci sfuggiva di mano e bisognava metterci in cammino verso sud, dove i nostri portatori avrebbero dovuto venirci a prendere. Siamo partiti per Askole. Normalmente per questo tratto serve un giorno, ma causa maltempo, ne abbiamo impiegati tre. Proprio nel momento in cui il cibo iniziava a scarseggiare abbiamo incontrato, un giorno prima del previsto, tre dei nostri portatori. Una gioia immensa! E un po’ di tristezza per la fine del viaggio… Altri due giorni per arrivare ad Askole, jeep e bus fino ad Islamabad e in aereo fino a casa.
Questa è stata in assoluto la mia più bella spedizione: quasi un mese lontano dalla civiltà, non solo una bensì due scalate in prima! E questo insieme a mio padre. Ho potuto vivere la solitudine più totale, provare cosa vuol dire razionare il cibo, ho imparato a muovermi su terreno sconosciuto e reagire di conseguenza, a gestire ancor meglio le mie forze e le mie debolezze. Un’esperienza che mi ha reso ancora più completa.

K2 8611 m
Da giugno ad agosto 2014

Klaus Gruber e io abbiamo deciso velocemente di partire per una spedizione sul K2, la “montagna delle montagne”. Abbiamo deciso il 25 aprile 2014 e un mese e mezzo dopo eravamo già in viaggio. Dopo qualche peripezia burocratica ad Islamabad abbiamo iniziato il trekking per il campo base con grande gioia e forti motivazioni. Una volta arrivati, abbiamo iniziato subito con l’acclimatamento. La salita fino al campo 1 è stata lunga, ma non vedevo l’ora di immergermi nell’anima di questa montagna. Le notti nei campi alti, trascorrevano tranquillamente.
Con Klaus le cose sono andate molto bene, andavano molto d’accordo. Ci divertivamo anche nelle lunghe ore di attesa: abbiamo ballato, riso, lavato i vestiti, lavorato alla nostra logistica sulla montagna, fatto i canederli e ci siamo fatti ogni mattina un uovo crudo con lo zucchero, per acquistare l’energia necessaria.

Tamara al campo base del K2

In tutto abbiamo fatto tre giri di acclimamento, ognuno dei quali si è concluso con una notte al campo superiore. L’ultima notte, la più importante, abbiamo dormito al campo 3 a 7300 m. E finalmente è arrivato il momento propizio per tentare la vetta, con l’inizio della finestra di bel tempo. Il 23 luglio alle 4 del mattino, siamo partiti per il tentativo alla vetta. Klaus e io stavamo bene e per questo siamo arrivati subito al campo 2. Da lì siamo andati al campo 3 e con noi abbiamo portato la tenda per il campo 4 a 8000 m. La cima sembrava davvero vicina, invece il tempo di salita è stato considerevole. Siamo partiti a mezzanotte e venti, ultimi della “fila”, ma alle 5.30, poco dopo l’alba, eravamo già al Collo di Bottiglia dove parte il traverso sotto il seracco, che è ripido, stretto e quasi sempre ghiacciato. Lì abbiamo trovato già altri alpinisti in attesa. Appena è stato possibile, ho potuto sorpassare quasi tutti per andare avanti al mio ritmo fino alla vetta. Che gioia!

Tamara Lunger e Klaus Gruber in vetta al K2
Al campo base del K2

Ero così concentrata che non mi prendevo neanche il tempo di aspettare Klaus, perché volevo solo arrivare in vetta… Sono arrivata sul punto più alto alle ore 15.00. Da lì ho potuto apprezzare l’energia, vivere le mie emozioni, gustarmi la vista e la consapevolezza che ero potuta davvero andare in cima al primo tentativo. Un delirio!
Ma era ancora più importante non fare errori scendendo al campo base. Una volta arrivati lì, abbiamo capito, che era fatta! Klaus e io ci siamo finalmente abbracciati per il nostro successo: una felicità totale!! Aver realizzato uno dei miei sogni più grandi non soltanto m’ha fatto raggiungere un risultato eccezionale, ma mi ha regalato anche un’enorme motivazione per le avventure future!

Manaslu 8163 m
Da febbraio a marzo 2015

Simone Moro: “Siamo tornati sull’Island Peak, ma questa volta non dalla via normale. Ne abbiamo aperta una nuova sulla cresta nord-est, che porta alla Cima Est a quota 6100 m. Una via lunga e bella, con tanta neve da battere. L’attacco è proprio ai piedi della parete sud del Lhotse.
Siamo partiti da Chhukung alle 5 e 20 e siamo rientrati alle 17 e 16. Così in 48 ore siamo saliti due volte sull’Island Peak partendo e tornando a Chhukung. E’ una via perfetta. Purtroppo il tempo stava cambiando e a partire dalle 11 e 30 sono arrivate prima la nebbia e poi la neve. Così non abbiamo fatto foto in vetta, raggiunta alle 12 e 45 (due giorni fa alle 12 e 35…). Abbiamo subito pensato a scendere perché c’era poco da scherzare con zero visibilità e una via intera da scendere faccia a monte… In totale la via, avvicinamento compreso, è di 1600 metri di dislivello”.

Prima ascensione della cresta nord-est dell’Island Peak

Il Manaslu, coi suoi 8163 m, è l’ottava cima più alta del pianeta. Obiettivo della spedizione è rivisitare in chiave moderna due grandissime scalate del passato. La prima scalata invernale della montagna compiuta il 12 gennaio 1984 dai polacchi Maciej Berbeka e Ryszard Gajewski, col concatenamento della salita in successione delle due vette del massiccio del Manaslu: la vetta principale di 8163 m e il Pinnacolo Est di 7992 m di quota. Quest’ultima scalata venne effettuata sempre da due grandissimi scalatori polacchi Jerzy Kukuczka e Artur Hajzer il 10 novembre 1986. Il progetto 2015 al Manaslu riguarda appunto il concatenamento della vetta principale e del Pinnacolo Est. Questa doppia salita non è più stata ripetuta, neppure in stagione favorevole e, nello specifico, il Pinnacolo Est del Manaslu è il Settemila più alto del pianeta. Solo 8 metri la separano dalla fatidica quota di 8000 metri.

8 aprile 2015. Giorno 51.
La bella via nuova all’Island Peak ci appare lontanissima… Fuori nevica, da due mesi! Al campo base ci sono ancora 6 metri di neve. Era partita come spedizione invernale; finisce come primaverile solo da calendario, ma non come condizioni meteo. Dico “finisce” perché io e Simone abbiamo appena deciso di tornare a casa. Abbiamo usato tutta la nostra pazienza, il nostro ottimismo e le nostre capacità, ma il Manaslu rimane per quest’anno e per noi due un sogno da rivivere. La parentesi nella valle del Khumbu è stata una spedizione dentro la spedizione. Una parentesi di acclimatamento durata 3 settimane, da cui son nate due vie nuove e la salita di un Seimila inviolato.

Una spedizione non è mai solo una pura performance, è spesso un gioco di pazienza e di nervi e penso che Simone ed io abbiamo davvero fatto di tutto perché il tempo e la montagna si disvelassero… Durante la lunga attesa – che nulla ha cambiato dal punto di vista meteo – abbiamo perso tantissimo materiale alpinistico e passato giornate intere a spalare. Siamo però rimasti sorprendentemente sempre di buon umore! Ora torniamo in Italia, dove nuovi progetti alpinistici e sportivi sono già pronti. Rimanere qua a spalare e lottare con la natura finirebbe solo per vanificare la nostra forma fisica e la voglia d’azione che in questo momento è straripante.
Quella che portiamo a casa per noi non è una sconfitta, ma un sogno a cui abbiamo dato energia e gambe. Con o senza vetta sono l’azione e la fantasia che contano e non il mero risultato. Questa avventura è semplicemente rimandata.

Il Nanga Parbat 8126 m d’inverno
Gennaio e febbraio 2016

Essere la prima donna a scalare un Ottomila in una prima salita invernale. Era uno dei miei sogni più belli, anche se, nel tentativo di realizzarlo… mi è stato regalato molto, molto di più.

La scalata del Nanga Parbat in inverno (impresa tentata invano dai migliori alpinisti del mondo per 31 anni) è nata da uno strano desiderio e da un dialogo con Simone Moro. Era il 2015, eravamo al campo base del Manaslu e stavamo parlando proprio di questa spedizione e di provarla per la terza e ultima volta, quando lui ha detto: “Tutte le cose buone arrivano a tre!”.
Nel dicembre 2015 Simone e io siamo partiti insieme a mio padre per salire prima lo Spantik 7027 m per l’acclimatamento. Purtroppo molti problemi ci hanno impedito persino di affrontare il trekking al campo base. All’improvviso i portatori volevano più di 22.000 € per portare le nostre attrezzature al campo e alla fine abbiamo dovuto cancellare l’intera azione. Eravamo molto delusi. Mio padre è volato a casa e io e Simone abbiamo aspettato pazientemente il nostro permesso per il Nanga Parbat.
Dopo molti giorni a Chilas, finalmente siamo arrivati al campo base a 4200 m dove mi sono trovata sopraffatta da questa massiccia montagna. Gelida, ripida, nuvolosa e nebbiosa, ma in qualche modo affascinante per la sua bellezza e la sua forte attrazione.
Il nostro obiettivo era quello di provare la via Messner-Eisendle sulla parete nord-ovest.
Nel frattempo altre tre squadre erano arrivate per la salita invernale, quindi eravamo un gruppo relativamente numeroso per un campo base invernale.

Tamara e Simone
Sul Nanga Parbat d’inverno

Sono arrivata al campo base con un solo compagno d’avventura, Simone, ma subito si sono unite a noi due persone bellissime: Alex Txikon e Ali Sadpara. La sintonia è stata immediata. Fin da subito tutti e quattro abbiamo dato il massimo per far diventare la salita del Nanga una bellissima realtà!

Nonostante il nostro acclimatamento proceda bene, non riusciamo a superare il seracco sopra il campo 2 a causa del forte vento e del freddo. Alex Txikon ci propone, fin dall’inizio, di andare con il suo gruppo per unire le forze, ma Simone e io non vogliamo perderci l’avventura sulla via Messner-Eisendle.
All’inizio di febbraio due squadre tornano a casa: la squadra polacca di Adam Bielecki e Jacek Czech e il team di Tomek Mackiewicz ed Elisabeth Revol: questi ultimi ci raccontano il loro tentativo di salire sulla vetta sconsigliandoci di passare per il seracco, perché i crepacci si aprono sempre di più ogni giorno.

Verso la vetta del Nanga Parbat d’inverno
Tamara Lunger, Alex Txicon e Alì Sadpara

Alex Txikon ci invita nuovamente a salire con lui, Daniele Nardi e Ali Sadpara sulla via Kinshofer: alla fine accettiamo, anche se con un po’ di imbarazzo, visto tutto il lavoro che loro avevano già fatto fino al campo 3 a 6750 m. Dopo giorni di litigi, anche Daniele Nardi lascia il campo base e rimaniamo solo Alex, Ali, io e Simone con i nostri cuochi e i poliziotti; a questo punto la squadra inizia a funzionare perfettamente.
Insieme aspettiamo 26 giorni al campo base e poi partiamo tutti, ma il vento non ci lascia scalare oltre il campo 2.
Dopo un’altra settimana al campo base Karl Gabl, il nostro meteorologo (nonché grande amico) di Innsbruck, ci dà una buona notizia: il tempo dovrebbe essere bellissimo per circa una settimana. Siamo molto felici e molto preoccupati: Simone e io avevamo dormito solo una volta a 6200 m (campo 2), forse non è abbastanza…
Decidiamo di provare comunque e così partiamo. Dopo 4 notti arriviamo al campo 4 e lì vengo assalita da una serie di intense sensazioni: ero molto sicura che tutto sarebbe andato bene. Alle 4 di mattina suona la sveglia e faccio colazione con le scorte di cibo rimanenti.
L’intenzione è di raggiungere la vetta per mezzogiorno.

Usciamo dalla tenda alle 6.30 e fa freddissimo. Una partenza che si è rivelata per me subito molto difficile: l’aver raggiunto i 6100 m in una sola notte con acclimatamento quasi nullo mi ha provato molto. Nonostante che stessi male, volevo affrontare anche l’ultima parte della sfida!
Subito 4 ore di scalata all’ombra, con una temperatura percepita di -58o. Passo dopo passo ci avviciniamo alla cima; ma io non mi sento bene, continuo a vomitare.
Ciascuno deve procedere al suo ritmo e cercare di fare del suo meglio perciò non è possibile prendersi cura degli altri.

Di ritorno al campo base del Nanga Parbat

Quando Simone scompare a 70 metri sotto la cima dietro le rocce, la mia motivazione è sottoterra. Sono sola, il vento ha fischiato per 10 ore ininterrotte: è arrivato il momento, tutto mio, di prendere la decisione giusta. “Se adesso continui per la vetta non rivedrai mai più la tua famiglia!“. Questa è la frase che sento dentro di me dopo tutta la fatica e a poche decine di metri dalla la vetta.
Ma non ho esitato, perché sapevo che la situazione era molto seria.
A un’ora di scalata dal successo, stremata da sofferenza, freddo e fatica, ho scelto di rinunciare alla vetta e di tornare indietro da sola, sulle mie gambe, per permettere ai miei tre compagni di arrivare in cima, senza mettere in pericolo la mia e la loro vita rallentando troppo la discesa e il rientro al campo.
Così sono ripartita, da sola, per la discesa. A 7000 m sono caduta e scivolata per 200 metri. Mentalmente avevo già chiuso con la mia vita, ma non doveva andare così! Con dolore sono rientrata al campo 4, dove ho aspettato i miei amici. Dopo il loro arrivo, è stata forse la notte più difficile che ho vissuto in montagna, ma il giorno dopo sono arrivata al campo base, dolorante ma felice di avercela fatta.
Questa decisione molto sofferta, questa esperienza, questa notte difficile e la gioia di essere viva mi hanno dato moltissimo.
Questa spedizione è stata sicuramente, fino a questo momento, la più dura e la più istruttiva della mia carriera e non so se un’altra esperienza sarà mai in grado di batterla.

Campo base del Nanga Parbat dopo la vittoria invernale: da sinistra, Alex Txicon, Tamara Lunger, Simone Moro e Alì Sadpara.


Mi rendo conto che tutte le difficoltà che abbiamo affrontato mi hanno profondamente cambiato. Ora sono una Tamara nuova, più matura e coraggiosa.
Una Tamara che sa di aver fatto la cosa giusta rinunciando alla vetta e che ringrazia Dio per aver sentito la sua voce. Una Tamara che ha visto la morte in faccia ed è ancora viva, che temeva il freddo e ora sa di poterlo sopportare… Una Tamara che sta imparando a conoscere le persone e ha capito che il compagno di cordata giusto e il sostegno di un buon team sono fondamentali per la realizzazione di qualsiasi grande impresa! Adesso so con certezza, che la mia vera casa non è… a casa, ma lì, in mezzo alle montagne più alte, in solitudine e semplicità.

Grazie! A tutti voi che mi avete incoraggiato, pensato, aiutato e sponsorizzato. Forse non lo sapete, ma mi state rendendo, passo dopo passo, una persona più felice e consapevole.

(continua)

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Tamara Lunger – 1 ultima modifica: 2022-08-28T05:26:00+02:00 da GognaBlog

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