Torrentismo in Piemonte

Su e giù per i torrenti in viaggio fra gole e scivoli naturali
di Guido Andruetto
(pubblicato su La Repubblica del 12 luglio 2020)

Muta, giacca e calzari in neoprene, imbragatura, casco e giubbotto di galleggiamento per i ragazzi, scarpe da trekking o da ginnastica. È l’occorrente richiesto per praticare il canyoning, attività sportiva che combina le tecniche alpinistiche (in alcuni casi molto basilari) all’attività acquatica. Piemonte e Valle d’Aosta offrono un ventaglio variegato di possibilità come itinerari lungo i corsi d’acqua dei torrenti alpini. Un’immersione non solo metaforica in una natura fatta di roccia e acqua. Scivoli naturali, cascate, salti di rocce, gole profonde intagliate in una fitta vegetazione, un mondo d’avventura che si può scoprire con l’accompagnamento delle guide alpine specializzate in questo tipo di attività e con l’utilizzo di attrezzature alpinistiche.

In Val Chisone operano gli istruttori e le guide di River Action, un centro di sport fluviali che propone percorsi di canyoning su un affluente del Chisone.

Canyoning in Provenza. Da EdiSud.

«Il canyoning, o torrentismo, è un’esperienza straordinaria – spiegano dal centro di Pomaretto – consiste nella discesa a piedi di strette gole scavate dai piccoli torrenti con un forte pendenza, ma tutto ciò avviene seguiti in sicurezza, passo a passo da una guida esperta. Durante il percorso si passa dalle calate con la corda a divertenti scivoli di roccia detti anche toboga, dal nuoto ai tuffi in profondi laghetti di acqua cristallina, in un ambiente di montagna».

Due i percorsi avventura consigliati nelle zone della Val Chisone, il Rio Claro e il Rio Nasca: il primo, facile e divertente, della durata di circa 3 ore e mezza, presenta tutti i passaggi caratteristici del canyoning, salti, scivoli, cascate con l’uso della corda, pozze, mentre il secondo, della stessa durata, è altamente spettacolare dal punto di vista paesaggistico ma è più adatto per gli adulti con altre esperienze di canyoning alle spalle. Spostandosi in un’altra area del Piemonte particolarmente interessante in questo senso, in Valsesia il Centro Rafting e Canyoning Valsesia Sport, con sede a Scopello, organizza uscite di gruppo o individuali con accompagnatore per tutta l’estate fino a settembre, lungo percorsi che includono salti nel vuoto di cinque, otto, fino a dieci metri per ricadere in pozze d’acqua e poi lasciarsi trasportare dal flusso per scivoli naturali. Altrettanto ricca è l’offerta di opportunità per questo sport nella Valle d’Aosta. «È un territorio dove c’è solo l’imbarazzo della scelta – commenta Alberto Boschiazzo di Mont Blanc experience, guida alpina di Courmayeur, istruttore di arrampicata ed esperto di canyoning – il fascino di percorrere i nostri torrenti alpini, di scoprirli in una dimensione effettivamente immersiva è senza paragoni. Abbiamo questi canyon assolati, di roccia magmatica, dura come il ferro, queste gole incredibili, che si possono percorrere unendo le tecniche alpinistiche e quelle acquatiche. Molto bello è il torrente Fer, nella zona di Donnas, un canyon lungo e avventuroso in un susseguirsi di pozze d’acqua. È un bel fiume con alcuni bei tuffi, scivoli e molte calate in corda doppia e un originale laghetto con un isolotto. Il percorso richiede un impegno fisico leggermente superiore ed è quindi consigliato a chi ha già effettuato altre discese».

Poi, racconta ancora Boschiazzo, «c’è il torrente Chalamy a Champdepraz nel Parco Regionale del Mont Avic, perfetto perché è un mix di calate di corda, salti, scivoli e pozze naturali. Si può fare l’integrale: la discesa lungo il fiume dura circa cinque ore tra tuffi, scivoli, calate in corda doppia, in questo caso il rientro sarà effettuato con una piccola navetta. Il percorso che si compie è lungo circa un chilometro e mezzo». E ancora, ci sono «il torrente Pacoulla, nella valle di Gressoney, più incassato ma non lungo, e il Bouro sempre a Fontainemore, vallata di Gressoney, con discese in corda più complicate e dunque per i più esperti. Fondamentali i materiali che forniamo noi guide: muta intera da sub da 5 millimetri, l’imbrago da canyon provvisto di sistemi di sicurezza, longe e discensore, e casco».

La storia del torrentismo
(dal sito SesiaRafting.it)

La storia del torrentismo è abbastanza recente se si pensa a questa attività in senso esplorativo e sportivo.

Alfred Martel, noto speleologo francese, ne è considerato il precursore. Esploratore di abissi e fiumi sotterranei fu attirato dal canyon che il fiume Verdon forma negli altopiani calcarei dell’alta Provenza (Francia). Nell’estate del 1905 compì, assieme a sette compagni, la discesa integrale del gran canyon del Verdon utilizzando una sorta di zattera. Gli servirono, per questa impresa, quattro giorni di dure fatiche.

Lucien Briet (anche lui francese) si dedicò all’esplorazione dei “Barrancos” della Sierra De Guara e di altre regioni dei Pirenei spagnoli. Ci ha lasciato un volume fotografico edito nel 1913, con le immagini dei suoi percorsi torrentistici.

In Italia le prime discese di torrenti di cui si è a conoscenza sono state realizzate nel 1958 in Carnia (Friuli). La gola del torrente Cosa è stata percorsa dagli speleologi triestini, nello stesso periodo la gola del torrente Vinadia è esplorata dagli alpinisti del luogo. Negli anni successivi (dal ‘58 al ‘61) fu disceso il Rio Freddo, sulle pendici del monte Cucco e gli alpinisti fiorentini risalirono l’Orrido di Botri.

Gli speleologi bolognesi percorrevano le “Codule” e i “Bacu” della Sardegna orientale.

Il torrentismo inteso come sport è presente in Italia da poco più di 30 anni e sta vivendo dalla metà degli anni ’90 una fase di grande espansione: nuovi percorsi vengono esplorati e attrezzati ogni anno e nel 1998 nasce l’Associazione Italiana Canyoning (AIC). Molta strada è ancora da fare per diffondere questo sport. Per questo ci sono ancora molti torrenti inesplorati da scoprire.

In Francia è un’attività popolare da quasi 40 anni. Sui Pirenei Spagnoli si pratica invece da più tempo, tanto che possiamo definire questo paese come la patria del torrentismo.

Canyoning: sano divertimento o ulteriore “divertimentificio”?
di Carlo Crovella

L’articolo sopra riportato di La Repubblica del 12 luglio 2020 mi ha sospinto a tornare su alcune riflessioni in merito al canyoning. Mi sono imbattuto in questa particolare disciplina nell’estate dell’89, in modo del tutto casuale. Allora il canyoning si chiamava torrentismo, almeno in Italia. Il canyoning aveva già registrato una prima ondata di crescita in Francia, dove stava passando dalla fase sperimentale a quella codificata, ma pare che il primo spunto sia riconducibile alla Spagna (in particolare, ma non solo, nella Sierra de Guara).

In Italia allora si muovevano i primi passi. Era ancora aperto il dibattito se fosse più sensato salire o scendere le forre: dipendeva dalle esperienze pregresse degli interessati. Gli “alpinisti” tendevano a risalirle; gli “speleologi” le scendevano, ma evitando se possibile l’acqua mossa; anche i “kayak men” le scendevano, ma cercando volutamente l’acqua arruffata. Alla fine ha vinto la versione d’acqua mossa, un po’ perché oggettivamente più divertente (tuffi, toboga, nuotate), un po’ perché così diceva il messaggio mediatico che giungeva dalla Francia.

Dai noi era però già apparso il primo volume dedicato al torrentismo: Profonde Gole (1988), edito da Edizioni Melograno di Alessandro Gogna che si rivelò un pioniere di idee anche in questo particolare risvolto.

Dunque mi sono imbattuto nel torrentismo nell’estate dell’89. E’ accaduto in Valsesia, dove partecipavo a un corso settimanale di kayak d’acqua mossa organizzato dalla “celebre” scuola di Maurizio Bernasconi a Isola di Vocca.

Bernasconi, milanese d’origine, verso la fine degli anni ’70 ha abbandonato la vita cittadina ed è stato uno degli scopritori delle potenzialità del Sesia come terreno per i kayak. Ha quindi creato una scuola che, oltre a porsi legittimi obiettivi professionali, costituiva un luogo d’incontro degli appassionati del settore. La scuola vive ancora con la denominazione di Sesia Rafting. L’esperimento è stato poi seguito da molti altri e oggi in Valsesia, come altrove, sono numerosissime le scuole di acqua viva.

Valsesia River Map. Clicca per ingrandire.

Praticavo kayak già da qualche tempo e mi muovevo benino, ma desideravo acquisire una maggior sicurezza e padronanza nelle rapide impegnative, per cui mi iscrissi ad un corso settimanale da Maurizio. L’alloggiamento era molto spartano, tende personali nel suo terreno in riva al Sesia, cene con il Camping Gaz oppure gran grigliate fino a notte fonda (con innumerevoli bottiglie “giustiziate” senza pietà).

Le lezioni di kayak riempivano le mattine, ma il pomeriggio era libero. Anziché prendere il sole in riva al fiume, partecipavo ogni pomeriggio alle iniziative aggiuntive della Scuola. Conobbi così il rafting, l’hydrospeed e infine il torrentismo.

Nel piccolo team del torrentismo era coinvolto anche il “celebre” Roberto Bonelli, a Torino noto come Crazy Horse dai tempi del Nuovo Mattino-Mucchio Selvaggio. Ci eravamo incrociati negli anni precedenti (forse più sui libri che sulla roccia, ma ogni tanto anche sulla roccia…) e quella fu l’occasione per conoscerci meglio. Roberto purtroppo ci ha lasciato nel 2017 al ritorno da un’arrampicata.

Il canyoning è la discesa di torrenti, forre, canyon (più o meno acquatici), troppo stretti e impervi per essere percorsi con imbarcazioni (stile kayak). E’ una disciplina che fonde insieme le tecniche dell’acqua mossa con quelle alpinistiche e speleologiche (manovre di corda, ecc.). Saper prendere la corrente (come si fa a bordo di un kayak) e saper fare correttamente una corda doppia sono di uguale importanza.

Il torrentismo di allora era davvero primordiale. Dato il passato alpinistico dei personaggi coinvolti in Valsesia, spesso si riutilizzavano attrezzatura e abbigliamento dismessi dall’attività “regina”, quella dell’arrampicata o dell’alpinismo. C’era chi utilizzava addirittura scarponi in pelle o quanto meno scarponcini da trekking, che, bagnandosi, diventavano delle vere palle al piede: pesanti come macigni. Tutto era molto distante dalla successiva e comprensibile evoluzione tecnica dei materiali specifici fino ai livelli dei giorni nostri.

Il bello di quel periodo era però l’attività di stampo esplorativo, specie in Valsesia. Sarà per questo o chissà per quale altro motivo, ma ho dei ricordi bellissimi di quel periodo. Insieme a quel gruppetto ho ripetuto i percorsi già noti nelle valli laterali della Valsesia: mi colpì in particolare il torrente Sorba, sul quale scribacchiai anche un racconto in cui immaginavo che uno sceicco arabo, invaghitosi del Sorba, lo avesse smontato e ricostruito nel bel mezzo del deserto. Tanto i petrodollari non gli mancavano.

Nel Torrente Sorba (affluente del Sesia). Foto: Scuola Sesia Rafting.

A parte la Valsesia, data la mia dimestichezza sia con le tecniche alpinistiche che con quelle acquatiche, mi è venuto naturale esplorare anche i torrenti delle valli più prossime a Torino. Non si è trattato di una attività prioritaria del mio andar in montagna, in quanto scialpinismo (nei mesi innevati) e alpinismo, escursionismo e arrampicata (negli altri periodi) hanno sempre avuto la precedenza, ma posso dire che anche il canyoning ha caratterizzato la mia esperienza di montagna.

Elena Crovella in un toboga a Tramouillon (Briançon)

Si trattava sostanzialmente di un modo aggiuntivo per completare la conoscenza del territorio. Improvvisamente “vedemmo” forre e torrenti che erano sempre state sotto i nostri occhi e mai avevamo degnato di uno sguardo. Trattandosi per me di un’attività complementare, non ho mai avuto lo stimolo a esasperarla, spingendomi in canyon (nuovi o già relazionati) eccessivamente impegnativi e pericolosi. Ho sempre privilegiato l’aspetto della mia prima personale conoscenza dei luoghi, senza badare alle performance.

Elena Crovella in una doppia a Tramouillon (Briançon)

Nella mia esperienza di canyoning sono stato avvantaggiato dal fatto che a Briançon (cioè a un tiro di schioppo dall’alta Val di Susa dove trascorro la villeggiatura estiva) si era creato un bel gruppetto di sfegatati local, che avevano già provveduto a catalogare i più evidenti torrenti del circondario.

Era stata prodotta una snella pubblicazione che fece scuola nel nostro ambiente torinese. Per diverse estati, su in Val Susa, mi si vedeva sempre in mano quel libretto, principale alternativa alle guide di arrampicata del celebre Jean-Michel Cambon.

Nel nostro piccolo abbiamo spazzolato ben bene i canyon del Briançonnaise e ci siamo spinti verso sud fino in Provenza, dove l’attività era in pieno sviluppo. Infatti la Provenza è un vero paradiso per i patiti del canyoning: sarà per la particolare morfologia di quelle montagne o per il sole e il profumo di mare.

Canyoning in Provenza. Da EdiSud.

Parallelamente siamo andati a esplorare i torrenti dell’alta Val Susa (in quel momento non ancora perlustrati in modo esaustivo), trovando a volte bellissime sorprese, a volte delle schifezze inusitate.

In altre fasi stagionali, quando il mio centro di gravità era prettamente cittadino, l’attività ha coinvolto altre vallate prossime a Torino, quali le Valli di Lanzo e la Val dell’Orco. In spedizioni estive verso le isole del Mediterraneo mi è capitato di vivere inebrianti esperienze di torrentismo, più o meno acquatico, sia in Sardegna che in Corsica. Le montagne interne di quest’ultima isola ricordano quelle alpine e ben si prestano al canyoning acquatico come da noi.

Anche la media Val Susa presenta dei percorsi molto rinomati. Fra questi spicca il conosciuto Orrido di Foresto, luogo di arrampicata fin dai tempi d’oro e dove ai nostri giorni si trova una ferrata che attira molti visitatori dopo la sua ristrutturazione. Alcuni decenni fa la ferrata era molto approssimativa e più che altro veniva spazzata via dalla piena primaverile quasi ogni anno: il torrente scende infatti dai plateaux sommitali che culminano nella vetta del Rocciamelone 3538 m, dove permane la neve fino a tutto maggio.

Il profondo intaglio dell’Orrido di Foresto dominato dal Rocciamelone 3538 m, ancora innevato a primavera inoltrata

Il percorso di discesa dell’orrido in stile canyoning è molto interessante, ma occorre calibrare con assoluta precisione il momento preciso, perché la portata d’acqua cambia notevolmente anche nel corso della stessa giornata.

Proprio a Foresto, infatti, ho vissuto una delle mei peggiori avventure in montagna. Un vero “spaghetto”. Si era nel pieno del disgelo e il flusso d’acqua era molto consistente. L’istinto mi diceva di non andarci, ma non seppi dire di no a un gruppetto di amici che, senza di me, non se la sentivano di impegnarsi. In pratica negandomi avrei “rovinato” il loro week end. Non seppi dire di no, ed è forse l’unica volta che è capitato nella mia esperienza in montagna, ma è giusto ricordarlo: mai andare contro al proprio istinto in nome dell’amicizia. E’ un errore che può costare caro.

Infatti la realtà ci punì. In corrispondenza di una delle cascate terminali, la doppia partiva da una sosta attrezzata un po’ artigianalmente: un vecchio cordone attorno a un pilastrino di roccia. L’istinto mi suggerì di aggiungere un chiodo in una fessura superiore, con cordone di sicurezza collegato alla sosta. Un bell’angolare nero, grosso e robusto: cantò a perfezione quando lo martellai. Per fortuna, da vecchio volpone dell’alpe, avevo nello zaino (come sempre nelle discese dei canyon, secondo la “vecchia” scuola di pensiero) martello, qualche chiodo e una serie di nut. Già allora attiravo le risatine dei canyonisti più smart, ma non ho mai rimpianto la mia impostazione da vecchio scarpone.

Mentre il primo dei miei compari scendeva in doppia (con la cascata che gli finiva violentemente addosso), l’intero pilastrino si staccò e scivolò verso il basso, perdendosi nel vuoto. Andammo tutti in tiro sul chiodo aggiuntivo: non oso pensare cosa sarebbe successo se non lo avessi piantato. Io venni trascinato dal pilastrino che crollava e andai in tiro sul cordone aggiuntivo, ma i miei piedi furono carpiti dal flusso vorticoso della corrente, proprio sul bordo superiore della cascata: ero letteralmente risucchiato verso il basso. Faticai a tirarmici fuori per poi risalire al terrazzino della sosta.

La situazione era tutt’altro che simpatica (eufemismo molto british): l’amico stava soffocando sotto il violento getto d’acqua, noi eravamo bloccati con le corde bagnate e in tiro, difficile organizzare ogni manovra di recupero.

Confesso che giunsi a tirare fuori il coltello da sub con l’intenzione di tagliare le corde della doppia: l’amico sarebbe finito nel laghetto sottostante, ma così avrebbe alleggerito il peso sulle corde consentendo a noi di agire con maggior facilità. Certo c’era il rischio che l’amico non facesse un semplice e indolore tuffo nel laghetto, perché avrebbe potuto battere contro rocce laterali o addirittura nel fondo del laghetto.

Orrido di Foresto: la Marmitta dei Giganti

Ma occorreva sbloccare la situazione: vivemmo attimi di viva tensione. Rispetto a corrispondenti momenti in situazioni più tradizionalmente alpinistiche, ho memorizzato che nel canyoning ci sono due aggravanti aggiuntive: la forza della corrente, che spesso trascina con veemenza imprevedibile, costringendo tra l’altro a prendere decisioni in tempi estremamente rapidi, e il rimbombo assordante delle cascate fra le alte pareti delle forre, per cui ti senti il cervello letteralmente martellato dalla tensione.

Stavo per procedere al taglio delle corde, quando per fortuna uno degli altri mi indicò una fessura chiodabile, però molto distante e, proprio per questo, il cui asse sottostante era nettamente fuori dal flusso della corrente. Attrezzare una nuova sosta là ci avrebbe permesso di sottrarre il nostro amico dal bombardamento della cascata, alleggerendo il suo peso e consentendoci di recuperarlo con un paranco.

Occorreva però raggiungerle la fessura. Il problema era che tale fessura si trovava a metà di una placca liscia dove era troppo rischioso arrampicare senza assicurazione. Con uno spezzone aggiuntivo di corda (tirato fuori dallo zaino, altro trucco da “lupo di mare”) assicurai il socio, permettendogli di raggiungere la fessura. Attrezzata la sosta, con un gioco complicato di progressivi spostamenti di peso (dell’amico appeso sotto l’acqua), riuscimmo a portare le corde della doppia fuori dal flusso della cascata e, con un paranco, a recuperare infine l’amico, letteralmente stremato dalla continua e violenta doccia fredda. Quando fu con noi ci disse: “Credevo di morire”.

A quel punto dovevamo però uscire dalla forra. Eravamo stanchi, anzi stravolti, infreddoliti e con pochi minuti di luce a disposizione: le manovre (durate complessivamente più di 3 ore) ci avevano portato via delle preziose ore di luce. Assicurato dal basso, dovetti risalire paretine di roccia marcia frammista a erba scivolosissima, indossando con scarponcini zuppi d’acqua: la peggior arrampicata della mia vita. Finalmente uscimmo dal bordo superiore della forra. Proprio con l’ultimo bagliore del giorno trovammo il sentiero che ci portò giù a Foresto.

Questo episodio si inserisce nella fase di vita in cui ero diventato padre da qualche tempo. Nei giorni successivi percepii molto forte il mio disagio esistenziale per essermi esposto a rischi potenzialmente molto gravi, le cui conseguenze avrebbero potuto condizionare le successive vite dei miei familiari, in particolare dei miei figli. Data la mia mentalità tradizionale e la rigida educazione ricevuta, non potevo sottrarmi al mio senso del dovere.

Decisi quindi che, da quel momento in avanti, avrei limitato il canyoning a percorsi molto semplici, più ludici che tecnici. Ma questo inevitabilmente ridusse piano piano le giornate dedicate all’attività del torrentismo, che non è scomparso del tutto, ma si è progressivamente affievolito. Ultimamente realizzo un paio, forse tre discese per estate, recandomi nei dintorni di Briançon durante la mia villeggiatura estiva.

Doppia acquatica nel Briançonnaise

Non fu però solo questa la causa della rarefazione del canyoning nella mia vita. C’è un altro motivo che mi ha allontanato dalla ripetizione di percorsi di impegno medio e, proprio per questo, molto alla moda: la “commercializzazione” dell’attività che viene letteralmente venduta come un pacchetto tutto compreso dalle scuole d’acqua viva.

Non è necessario avere alcuna esperienza: il cliente si presenta alla base, paga (ammesso che non lo abbia già fatto online), lo vestono di tutto punto (muta, imbrago, casco), lo caricano sul furgoncino e lo portano alla partenza del canyon. Il gruppo, accompagnato da uno o due istruttori, scende il torrente fra schiamazzi, urla, risate, selfie, “batti cinque”, come se si fosse a Disneyland: tutto molto “cannibalesco”. Arrivati giù, tutti salgono sul furgone che li riporta alla base, dove restituiscono muta, imbrago e casco. Forse fanno una doccia, oppure prendono un caffè al bar della scuola. Salutano e nessuno li vedrà mai più. Bon, tutto finito lì. Domani sarà imbarcata un’altra carovana.

Non mi preoccupo dei risvolti connessi alla sicurezza di questi gruppi. E’ ovvio che portare giù mandrie del genere può trasformarsi improvvisamente in situazioni molto complicate. La cronaca anche recente riporta notizie di incidenti dalle conseguenze tragiche. Ma non è questo il punto, che pure esiste: le mie riflessioni riguardano l’inquinamento umano connesso a questo fenomeno commerciale.

Per poter vivere giornate di “vero” canyoning, senza il fastidio dei “cannibali” fra i piedi, occorre proseguire nell’attività esplorativa oppure impegnarsi in torrenti molto difficili e, quindi, piuttosto rischiosi. Lì i “commerciali” non ci sono.

Conosco molti appassionati genuini di canyoning, anche in Piemonte, e la loro attività è di tutto rispetto. Ci vuole però sistematicità di attività: è molto raro che chi fa due o tre torrenti a stagione riesca a spingersi con sicurezza su tali livelli.

Invece nei torrenti di medio-basso impegno, specie se “belli” e divertenti, non c’è giornata estiva in cui non vi si trovino gruppi commerciali. Non è un male che caratterizza solo il canyoning, perché purtroppo accomuna molte attività di acqua viva, dal rafting all’hydrospeed, e coinvolge anche altre attività “terrestri” (MTB, e-bike, ferrate, ecc.).

Un giro di giostra, dico io con fare un po’ sprezzante. Non sono in polemica con chi si guadagna il pane attraverso il sudore della propria fronte, ma anche questa mi pare una delle tante strumentalizzazioni ipocrite della nostra società consumistica ed edonistica. Una volta, al termine di un percorso (facile) di canyoning, ho sentito un cliente dire al telefono “Oggi ho fatto sport estremo!”. E’ l’opposto della mia mentalità e del mio approccio alla montagna.

Al massimo potrei accettare un giro di giostra come primo test da parte di chi vuol capire se la disciplina gli piace o meno, ma poi gli interessati dovrebbero proseguire con l’attività privata, puntando a livelli estremi oppure a livelli medi a seconda dei propri gusti e del proprio talento.

Purtroppo invece il modello attuale del canyoning commerciale è solo “usa e getta” e in quanto tale è un indiscutibile “cannibalificio”.

Non me ne voglia il giornalista autore dell’articolo pubblicato su La Repubblica: oltretutto Guido Andruetto, con il quale ho avuto diversi contatti in passato, è autore di pregevoli libri relativi a personaggi della storia alpinistica (su tutti cito quello dedicato a Giorgio Bertone), per cui immagino che anche lui, sotto sotto, converrà con la mia conclusione.

Torrentismo in Piemonte ultima modifica: 2020-09-01T05:07:50+02:00 da GognaBlog

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6 pensieri su “Torrentismo in Piemonte”

  1. In realtà i canonisti di acqua mossa hanno storicamente sempre detto il Sesia. Magari e’ sbagliato, ma se dicevi la Sesia ti guardavano stupiti. Ho visto che, oggi, i siti di acqua viva della zona se la cavano utilizzando la formula Fiume Sesia o Torrente Sorba, senza compromettersi con articoli maschili o femminili. Molto democristiano… Ciao!

  2. Mi è piaciuto questo articolo di Carlo. Mi ha riportato indietro nel tempo, quando nel 1985 cominciammo la nostra breve stagione (qualche anno) di torrentismo, come amo chiamarlo ancora.
     
    Il nostro terreno di elezione furono gli impetuosi torrenti dei Monti della Laga, tra Marche, Abruzzo e Lazio. All’epoca il parco nazionale non esisteva ancora e l’esplorazione pura regalava emozioni grandi. Prima del grande turismo, che non posso oggi giudicare in quei luoghi avvilente, si trattava di terre davvero selvagge.
    Termini inglesi se ne usavano pochi e anche noi si usciva attrezzati con per una via sul Gran Sasso.
    Imparammo da chi conosceva quei torrenti (e a nostre spese) cosa volesse dire confrontarsi con i meccanismi e gli ambienti delle acque (oggi queste conoscenze sono parte della mia professione).
    Fu uno dei periodi più avventurosi (ma forse perché ero giovane) mai vissuti nella mia lunga frequentazione della Natura.
    La Laga ai tempi era una terra dimenticata, nessun sentiero, pochi paesini, o vici, ai suoi contrafforti. Chilometri di spazio selvaggio, foreste e cime, la luna come lume che ne svelava la straordinarietà notturna, riflettendo le nevi. E da esse i suoni che tutto permeavano, di centinaia di cascate. 

  3. Testo molto divertente. Una curiosità: si dice “IL” Sesia o “LA” Sesia? In pianura vercellese dicono La Sesia

  4. Nella seconda metà degli anni settanta percorsi o provai a percorrere diverse gole scendendo con doppie e materiali tradizionali . No spit, Ovviamente. Col succitato Bonelli e altri amici vissi svariate belle avventure. In silenzio e senza selfie. Lo chiamavamo forrismo. La commercializzazione mi ha allontanato anche da questo mondo, banalizzato come troppi altri ambienti. Diverse nostre discese sono poi state riscoperte e vendute come “prime” da spittatori seriali che non potevano non aver trovato tracce. Francesi, foto e riviste no limits hanno contribuito al degrado

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