I Torrioni del Castello della Pietra (AG 1962-011)
(dal mio diario)
17 novembre 1962. Marco e io abbiamo in programma il Castello della Pietra, un torrione in val Vobbia da noi a lungo sognato. Ci avevamo già provato il 25 aprile scorso, ma avevamo rinunciato perché terrorizzati. Questa volta della partita doveva essere anche Alberto Martinelli, ma questi, spaventato dal tempo del sabato, rinuncia. Marco e io, molto più matti, decidiamo di andare lo stesso e ci diamo l’appuntamento alle 4.35 della domenica. Per tutto il sabato non faccio altro che preparare e verificare il sacco, passeggiare nervoso e guardare il tempo che minaccia. Alla sera c’è un po’ di sereno, ma dura pochissimo. Fatico ad addormentarmi.
Il Castello della Pietra come si presentava nel 1962, molto prima dei restauri
Sveglia alle 3.55. Mi alzo e corro subito alla finestra: pioviggina appena. A mia madre, che dal letto mi chiede che tempo fa, “sereno, bello” rispondo.
Poi in fretta e furia mi vesto, non mangio ed esco subito per paura che si alzi a controllare.
Di buon passo arrivo alla stazione Brìgnole, e dopo una decina di minuti arriva anche Marco. A Ronco Scrivia, dopo le gallerie, guardiamo dal finestrino: nevica. Ma non importa, noi tireremo diritto. Quando arriviamo a Isola del Cantone scendiamo ancora immersi nel buio. Sono le 06.03, nevica, ma poco. prendiamo subito la strada per Vobbia. Appena fuori dal paese, camminando, ci guardiamo attorno. E’ tutto bianco, l’aria è fredda e umida, non ci sono rumori. Questi sono momenti che restano impressi. La strada, asfaltata, è bagnata, ma di mano in mano che ci addentriamo nella valle, la strada si ricopre di neve umida. Ora cominciamo a distinguere gli oggetti e intanto oltrepassiamo Vobbietta. Da Isola del Cantone all’Osteria del Castello ci sono 7 km. Quasi alla fine ci appare il massiccio delle due torri: è una visione scoraggiante. Nutriamo forti dubbi di arrivare in cima. Ormai tutto è coperto da circa quattro centimetri di neve. Accanto all’osteria, facciamo provvista d’acqua nel rio Imbusti, poi cominciamo a inerpicarci su per il versante occidentale del Castello. Evitando le sterpaglie arriviamo al castello diroccato e, grazie a un tronco appoggiato a sostituire una scala che non c’è più, entriamo.
Come il Castello della Pietra ci si è presentato alle prime luci dell’alba
Riparati i nostri zaini in una specie di stanzetta sulla destra, diamo l’assalto al Torrione Piccolo, armati di due chiodi e due moschettoni, più l’imbrago di cordino, la corda e qualche cordino. Nevica e fa un freddo cane. A occhio e croce individuiamo la via, per superare un muro verticale di roccia di 8 metri. La roccia è grama, un conglomerato (puddinga) che non offre né appigli seri né fessure per i chiodi. Secondo la guida, la via non presenta grandi difficoltà, III grado, ma ora siamo praticamente in inverno, nevica. Gli appigli sono gelati, la neve ricopre tutto e in certi punti vi è anche del vetrato (verglas).
Attacco per primo, dopo essermi legato. Faccio due metri, faticando per le dita che mi si gelano, poi pianto un chiodo che, da come balla, non giudico sicuro. Poi, esausto, scendo. Ma risalgo subito dopo e riesco a mettere con difficoltà i piedi vicino al chiodo. Ritengo di aver superato le maggiori difficoltà, perché ora c’è un muretto artificiale dove presuppongo vi siano più appigli.
Invece no, non c’è neanche la più piccola fessuretta. Con la pancia sono aderente alla parete.
– Tieni duro, Marco. Ora traverso a sinistra.
Usufruendo solo di appoggi prima per il piede sinistro e poi per quello destro, completamente ghiacciati, molto malsicuro riesco a spostarmi tre metri a sinistra. A questo punto, se cadessi, il chiodo non servirebbe a nulla. Marco mi incoraggia dicendomi: – Se cadi, tiro più corda possibile, così magari non tocchi terra!
Tornare indietro non voglio, andare avanti adesso mi sembra impossibile. Frugo nella roccia innevata senza trovare appigli. Sento che sono vicino a cadere e quasi mi lascio andare… ma no, con uno sforzo supremo riesco a porre le ginocchia su un po’ di neve posata su un appoggio. Ficco il piede destro in un buchetto, obliquo e coperto di vetrato. Ora il piede trema e mi sento vicino a cadere, Marco è in tensione e si aspetta da un momento all’altro di vedermi precipitare.
Ma si sbaglia, perché con la forza della disperazione disordinatamente riesco a fare un altro metro e aggrapparmi a una radice.
– Ci sono – gli urlo dopo un po’, ma lui aveva già visto che ce l’avevo fatta. Non riesco neppure a parlare, ma poi lo assicuro.
– Vieni – gli urlo. Anche lui sale al limite della caduta, io lo aiuto un po’ con la corda. Quando mi raggiunge, ha le mani freddissime. Ci scambiamo i guanti. Poi conquistiamo la cime, che è un piccolo masso rotondo di tre metri di diametro, a 584 m.
Scendiamo in corda doppia, poi tentiamo mentre nevica furiosamente di recuperare il chiodo (che non è nostro, ma di Alberto). Pareva mal piantato, invece non riusciamo a estrarlo, pur provandoci in due. Alla fine, ci si rompe il martello!
Siamo stufi di neve e di freddo. Ci ritiriamo a mangiare, come porci affamati. Friggiamo delle uova che ci cadono poi per terra, ma le raccogliamo e le mangiamo lo stesso. Finito di mangiare ci rivolgiamo al torrione orientale, la Torre Grande. Esisteva in epoca remota una piccola scala in muratura (ora rovinata) che, aggirando la vertiginosa parete nord, alta 180 m, permetteva il facile accesso alla vetta dove probabilmente si trovava un osservatorio. Dall’interno del Castello, questa torre misura 40 metri di altezza.
Saliamo su per la scala fino al suo termine, poi continuiamo per qualche metro su una cengia innevata. Qui Marco assicura la corda a un albero e così io posso assicurare lui che progredisce su una minuscola cengia (altrettanto innevata) traversando a sinistra in leggera salita, in grande esposizione. Sentiamo la presenza fisica del burrone di quasi 200 metri, sentiamo che è facile scivolare. Con lentezza il traverso di Marco raggiunge una caverna orizzontale che trafora il torrione da parte a parte. Qui si ferma e mi assicura a un albero. Assieme arriviamo a un terrazzino fortificato sullo spigolo orientale. E da lì saliamo facilmente fino in cima. C’è il libro di vetta sepolto nella neve e vediamo più volte la firma di Euro Montagna. Scriviamo i nostri nomi, aggiungendo le condizioni meteorologiche. Ci fotografiamo accanto alla croce, a 625 m.
La discesa è emozionante non meno della salita. Il viaggio di ritorno non ha niente di speciale, se non che siamo al massimo della felicità.
Peccato che a casa in qualche modo abbiano scoperto che le mie gite non sono escursionistiche… Viene reperito anche un mazzo di chiodi e moschettoni che ho comprato da poco. Mio padre mi intima di riportarli indietro e cambiarli con qualcosa d’altro. Seguono prediche. Mio padre ha ragione, ma io non posso ubbidire.
Una foto recente del Castello della Pietra, dopo il restauro. Si noti la tettoia (inesistente al tempo della nostra salita) nei pressi della vetta del Torrione Piccolo. Questa tettoia oggi copre la paretina di 8 metri che costituiva la via normale di salita.
0
Ho sempre pensato che si potrebbe fare uno straordinario documentario suul’alpinismo eroico genovese gli uomini della pietra che ho conosciuto sono scrigni di meraviglie che difficilmente ai giorni nostri si riescono a raccogliere.
la passion e la determinazione sono quelle che fanno la differenza.
Bella la storia e bello anche il posto. Certo che rischiavate non poco già da piccoli! E tu avevi una passione e una determinazione che non è cambiata nel tempo.
Favoloso!
Ogni nuovo racconto è più bello del precedente!