Seguo ogni giorno questo blog, e leggo anche vari commenti, non tutti debbo dire. Mi pare di ricordarne uno recente che, riferendosi alla pandemia che ci ha colpiti, esprimeva la preoccupazione per una possibile decimazione dei lettori del blog con riferimento al fatto che il virus sembra essere molto pericoloso per gli anziani e dando per sottinteso che chi segue il blog ha un’età media piuttosto elevata. Io vorrei approfittare di questa occasione invece per lanciare un appello agli alpinisti e frequentatori (in modo rispettoso e non invasivo) della montagna che anziani non sono.
Tanti anni fa, quando la mia attività era frenetica, molto spesso mi interrogavo sulle motivazioni che mi spingevano ad affrontare fatiche e rischi per scalare montagne e pareti, ignorando a volte egoisticamente altri importanti doveri sociali. Svariate erano le motivazioni che scorrevano nei miei pensieri ma sempre emergeva la componente “avventura”: la montagna offriva, ed offre ancora, una delle poche opportunità rimaste all’uomo moderno di vivere avventurosamente. Ora le avventure sono gratificanti quando si vivono ma, a mio avviso, anche quando si condividono. Quale modo migliore di condividerle se non raccontarle?
Invito perciò i giovani scalatori a raccontare le loro avventure di montagna sfruttando le opportunità come questo blog. All’inizio si fa fatica raccontare attraverso la scrittura, specie se si è poco dotati come il sottoscritto, poi diventa più facile e si assapora il piacere di condividere. E’ anche un modo, quando il tempo comincerà ad annebbiare la memoria, di riassaporare un po’ di quelle avventure che altrimenti sarebbero perse come mai vissute. Coraggio giovani amici!
Qui sotto racconto di un nostro tentativo alla via che poi cederà a Michel Piola.
Inoltre, quest’anno 2020, ricorre il centenario di fondazione della Sottosezione GEAT del CAI Torino, organizzazione con la quale ho iniziato a scalare montagne nel lontano 1957. Sono stato interpellato per un articolo da pubblicare sul Bollettino GEAT speciale che celebrerà la ricorrenza. Per rinfrescarmi la memoria, sono andato a rivedermi gli antichi bollettini della Sottosezione che conservo gelosamente. Ho riletto articoli che lì avevo pubblicato e che non mi ricordavo più di aver scritto. Trattando della Tour des Jorasses mi è venuta voglia di riproporre un articolo apparso sul Bollettino GEAT N°2, aprile-giugno 1978, in cui racconto della seconda salita del Gran Diedro Sud, via Calcagno-Cerruti-Machetto su quella possente struttura (Ugo Manera).
Tour des Jorasses, il nostro limite
di Ugo Manera
2018, sto salendo con Valentina verso il rifugio Bertone in una splendida mattinata di inizio estate. Due sono i miei obiettivi: rivedere e salutare Renzino Cosson, nel suo bel rifugio che ha dedicato al grande amico Giorgio Bertone e fotografare, in modalità digitale, le pareti e creste del versante Val Ferret del Monte Bianco che sono state tra le grandi passioni del mio alpinismo.
Quante notti ho passato nei lunghi bivacchi su quelle pareti osservando le luci della val Ferret accendersi al tramonto e spegnersi all’alba. Quante vie ho tracciato, aspettando a volte pazientemente degli anni prima di trovare i compagni disposti a seguirmi nei luoghi più reconditi. Un esempio è la parete sud-est dell’Évêque: per 10 anni ho cercato inutilmente un socio disposto ad inoltrarsi in quell’impervio vallone per tentarla fino a quando è arrivato Franco Ribetti, disposto a qualsiasi avventura pur di ricuperare gli anni di inattività alpinistica.
Salgo fermandomi spesso per numerosi scatti con le due fotocamere che mi sono portato appresso: una reflex ed una compatta di pregio. La mia attenzione fotografica si concentra sulla Tour des Jorasses. Sono sempre stato attratto da quella possente struttura, ho trascorso tante ore su di essa e alla sua storia alpinistica sono legati nomi di amici che dalle scalate non hanno più fatto ritorno. Soffermarmi a ricordare un po’ di storia di questa Torre è anche una occasione per ricordarli.
La Tour des Jorasses venne salita per la prima volta da una cordata di nomi celebri della storia dell’alpinismo: Gabriele Boccalatte, Renato Chabod, Guido De Rege e Piero Zanetti il 5 agosto 1931. La via segue i punti più deboli del versante sud-ovest costeggiando a sinistra una complessa cresta che forma varie torri. Il 10 agosto 1956 la grande guida di Courmayeur Arturo Ottoz tracciò una via sul versante est: come clienti aveva Piero Ghiglione e Alfred Gregory. Ottoz scompariva poi 7 giorni dopo sulla parete della Brenva travolto da una caduta di seracchi.
Il mio primo approccio a questa possente struttura avvenne con l’intenzione di percorrere la via del 1931 ma, quando mi trovai alla base, venni attratto più che dal canale-camino della via originale, dal bello spigolo della prima torre della lunga cresta che porta fino in cima alla Tour. Convinsi il mio compagno ad effettuare un tentativo. Giunti però in cima alla prima torre l’aspetto delle torri successive ci convinse che non saremmo riusciti a passare in giornata, così desistemmo e ripiegammo: eravamo nella seconda metà degli anni ’60.
In quegli anni il grande problema della Tour des Jorasses era l’evidentissimo gran diedro del versante sud, vi erano stati dei tentativi senza successo ed il problema era particolarmente “caldo”. Tra i protagonisti dei tentativi c’era la guida alpina di Biella Guido Machetto.
Nell’estate 1969, di ritorno dal Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul, salito con Gian Carlo Grassi, ci trovammo in una tenda del campeggio Grandes Jorasses a discutere di scalate con vari amici: oltre a me e Gian Carlo erano Guido Machetto, Gianni Calcagno e Paolo Armando. Parlammo anche dei tentativi alla Tour des Jorasses ma i protagonisti rimasero un po’ riservati nel descrivere le loro esperienze in merito.
Il giorno seguente ebbi l’occasione di trovarmi da solo con Paolo Armando e chiesi il suo parere sugli ostacoli che avevano arrestato i tentativi alla Tour e sulla possibilità di superarli. Mi rispose nel suo tipico modo piuttosto pungente: “Su granito non esistono strutture impossibili, esiste sempre qualche soluzione, basta essere capaci di trovarle”.
In effetti il Gran Diedro alla Tour venne vinto nei giorni 5-6 agosto 1970 da Gianni Calcagno, Leo Cerruti e Guido Machetto con mezzi tradizionali, senza ricorrere a chiodi a pressione. Sei anni dopo, il 3 e 4 agosto 1976, effettuai io la seconda salita di questo bellissimo itinerario, mi era compagno di cordata Pietro Giglio, l’attuale presidente delle guide alpine italiane.
Risolta la via del “Gran Diedro, la Tour presentava un altro problema di massimo livello: il formidabile pilastro sud che fiancheggia il Gran Diedro. L’obiettivo venne sfiorato da un gruppo di scalatori cecoslovacchi: Miroslav Béna, Jindřich Sochor, Jiří Švejda e Karel Živnýche, aggirando l’imponente pilastro sulla destra (est), nei giorni 2-4 agosto 1977 tracciarono un difficile itinerario di cui non si conoscono ripetizioni. Un’altra via, a destra della via dei polacchi, venne aperta nel 1982 da Marco Degani e Mario Ogliengo che la chiamarono Ad Est dell’Est, con chiaro riferimento alla nazionalità dei polacchi.
Precedentemente, nel 1976, Alessandro Nebiolo e Franco Piana avevano percorso integralmente, con un bivacco, la lunga cresta sud oggetto del mio antico tentativo fermatosi alla prima torre.
La via diretta sul formidabile pilastro sud restava un problema irrisolto. Nel 1983 con Franco Ribetti, decidemmo di tentarne la soluzione. Da un paio di anni arrampicavamo stabilmente insieme, io avevo una lunga lista di progetti da realizzare e Franco una grande voglia di scalare ed una totale disponibilità di assecondare qualsiasi mio progetto. In quel momento il principale dei miei obiettivi era appunto quello di realizzare una via diretta sul pilastro sud della Tour des Jorasses: era così bello ed evidente! Ribetti aderì con entusiasmo. Non eravamo più dei giovinetti (siamo ambedue del 1939) ed eravamo ben coscienti dei nostri limiti ma, soprattutto io, avevo una grande fiducia nella capacità tecnica di progredire in artificiale ricorrendo a ogni diavoleria quando scomparivano le fessure. Seguivamo attentamente la cronaca alpinistica ed eravamo al corrente delle novità apportate nel gruppo del Monte Bianco da un gruppo di giovani scalatori che avevano iniziato ad aprire vie eccezionali utilizzando con parsimonia gli spit ove non era più possibile proteggersi con i mezzi tradizionali. L’esponente di punta della nuova tendenza era lo svizzero Michel Piola.
Io avevo deciso, fin dai tempi del Caporal, di non ricorrere a fori fatti artificialmente nella roccia. Ero stato io a praticare i 5 fori per chiodi a pressione sulla via della Rivoluzione aperta con Gian Piero Motti; ma poi decisi di non ripetere l’esperienza e che non mi sarei più portato appresso il perforatore. La mia decisione non era dovuta a motivi etici ma semplicemente perché preferivo sviluppare al massimo la fantasia nel realizzare chiodature impossibili anziché ricorrere al perforatore. Fino a quel momento i fatti mi avevano dato ragione in quanto non ero mai stato costretto a ripiegare su un tentativo di via nuova, fatta eccezione per la “via incompiuta” alla Parete delle Aquile dove eravamo stati fermati dagli ultimi 20 metri di placca totalmente non proteggibili. Franco poi non aveva mai preso in considerazione il perforatore, egli avrebbe fatto volentieri a meno anche dei chiodi normali. In ogni caso eravamo ormai troppo vecchi per adeguarci alle nuove tendenze inaugurate da Piola.
Salimmo al rifugio Boccalatte ove c’era già una cordata di scalatori (mi pare fossero lombardi). Appresi i nostri nomi uno di essi ci disse: “Siete qui certamente per tentare una nuova via”. Rispondemmo affermativamente, non avevamo nessun motivo per nascondere il nostro progetto.
Al buio raggiungemmo la base del pilastro, trovammo subito un attacco logico che ci portava in direzione di un grande strapiombo scuro. L’arrampicata si dimostrò subito impegnativa, su roccia stellare: diedri e fessure si susseguivano fornendoci buone possibilità di assicurazione, spesso con utilizzo di blocchetti ad incastro. Salivamo legati alle due corde con un lungo cordino libero che consentiva al primo di cordata di ricuperare il materiale quando necessario, evitando così di appendere all’imbragatura del peso eccessivo nel corso dell’arrampicata.
Ad un tratto un grande frastuono ci fece sobbalzare: una valanga di ghiaccio stava precipitando alla nostra destra, una parte del seracco posto a fianco della Tour si era staccata. Un po’ di polvere di ghiaccio giunse fino a noi ma non c’era da preoccuparsi, sul nostro pilastro eravamo ampiamente al sicuro.
Le ore scorrevano e noi salivamo lentamente ma pienamente soddisfatti di ciò che ci offriva la scalata. Trovammo il modo di aggirare il grande strapiombo scuro che ci sovrastava e più in alto mi trovai alle prese con un bellissimo diedro ricurvo (diventerà in seguito il celebre “diedro a banana” con difficoltà di 6c, 6c+ in arrampicata libera). Lo superai parte in libera a parte in A0, proteggendomi quasi esclusivamente con blocchetti ad incastro.
Il giorno era al termine, salimmo ancora fino a un sistema di esilissime cenge alla base di un immenso muro di placche compatte. Le cengette ci consentivano un bivacco, se non da sdraiati, almeno da seduti. Eravamo comunque soddisfatti del “lavoro” svolto e ottimisti per ciò che ci attendeva il giorno dopo.
Dopo un bivacco, non certamente comodo, la doccia fredda: il muro al di sopra di noi, alla luce dell’alba, ci apparve formato da placche compatte senza traccia di fessure di alcun genere. Inizialmente non mi detti per vinto, salii alcuni metri e riuscii a piantare un chiodo al termine di una fessura che si perdeva nella roccia compatta. Feci dei pendoli appeso alla corda verso destra oltre un vago spigolo sperando di trovare qualche ruga ove infiggere una rurp o qualche sporgenza per agganciare un cliffhanger cui appendere una staffa e innalzarmi un po’ nella speranza di scoprire una situazione più favorevole. Nulla! Eravamo sconfitti, quello era il nostro limite, oltre non eravamo capaci di andare.
Un po’ delusi ci approntammo ad affrontare il ripiegamento con calate in corda doppia, poi l’amarezza passò, in fondo avevamo vissuto una bella avventura in un ambiente straordinario, sfidando un ostacolo che era oltre i nostri limiti.
Cinque anni dopo, nei giorni 12-13 agosto 1988 una fortissima cordata composta da Daniel Anker, Michel Piola e Pascal Strappazzon vinceva il muro di placche che ci aveva fermati; con un capolavoro di salita dal basso, proteggendosi con spit, e con difficoltà obbligatorie di 6c completarono il tentativo che era stato nostro e portarono a termine una via straordinaria: Étoiles filantes.
La Tour des Jorasses
Gran Diedro Sud, via Calcagno-Cerruti-Machetto
(2a ascensione, 3-4 agosto 1976, Pietro Giglio e Ugo Manera)
di Ugo Manera
Un lunedì mattina, mentre, nel pieno della “bagarre” del lavoro quotidiano, discutevo animatamente di problemi di produzione e di personale, squilla il telefono: un amico dell’ambiente alpinistico mi cerca. Ho quasi un attimo di disappunto in quanto non posso mettermi a parlare di montagna nel bel mezzo di una riunione di lavoro. Tosto ogni disappunto scompare cacciato da una sorta di doccia fredda: l’amico mi dice che Guido Machetto è caduto su una via della Tour Ronde, una via semplice, quasi insignificante per Guido che già l’aveva percorsa in invernale molti anni prima.
Rimango addolorato ma soprattutto sconcertato; Guido come alpinista e come uomo godeva della mia massima stima; era per me una di quelle figure che nell’ambito dello sport che pratichiamo, hanno raggiunto una dimensione storica per cui ci riesce impossibile immaginare che possano perire così, all’improvviso su una montagna.
L’attività di Guido era enorme e aveva toccato tutte le forme di alpinismo: dalle grandi vie classiche di alta difficoltà alle prime ascensioni, dalle invernali sulle Alpi all’alpinismo extraeuropeo.
Non avevo mai avuto occasione di arrampicare con Guido, ad esclusione di pochi tiri di corda fatti in una palestra dolomitica in occasione di un Festival di Trento cui entrambi eravamo stati invitati. Fu appunto in quell’occasione, nelle lunghe discussioni scaturite ai margini del Festival, che ebbi occasione di apprezzare il suo modo di intendere l’alpinismo e la sua forte personalità.
Dopo una lunga esperienza di grandi vie classiche, l’attività di Guido si era volta a dare una dimensione personale al proprio alpinismo adattandolo a quella necessità di scoprire e di creare il nuovo che, più o meno sentita, esiste in ogni individuo.
I grandi problemi inventati e risolti dagli scalatori d’avanguardia di ogni tempo non bastavano più, occorreva scoprirne altri più moderni con opera di attenta ricerca, sorretti da volontà e determinazione. Guido si dedicò a fondo a questa ricerca, sia sulle Alpi che fuori dell’Europa, riuscendo ad aprire originali vie nuove, a compiere numerose prime invernali ed a indicare in modo perentorio quale è il futuro auspicabile delle spedizioni extraeuropee. Quest’ultimo obiettivo venne realizzato in modo brillante nelle due spedizioni ai Tirich Mir del 1974 e 1975.
Dopo la triste esperienza della spedizione all’Annapurna Guido cercava, attraverso le sue imprese, una dimensione umana. Egli voleva impersonare quell’uomo che una volta postosi un obiettivo che aveva valutato a fondo, sorretto da una volontà incrollabile, non si arrestasse di fronte a nessuna avversità, fino al raggiungimento della meta.
Credo che il sogno di Guido, infine, fosse poi quello di ritornare all’Annapurna, con un piccolo gruppo di “uomini” nel senso che egli voleva dare a questa parola.
E’ passata una settimana dall’incidente alla Tour Ronde; ho voglia di fare qualche cosa che ricordi l’amico scomparso, così mi trovo in val Ferret ad osservare due grandi vie di Machetto: il Gran Diedro della Tour des Jorasses, salito con Gianni Calcagno e Leo Cerruti, e la via diretta sulla parete sud delle Grandes Jorasses, aperta con Alessandro Gogna nell’agosto 1972: nessuna delle due è ancora stata ripetuta.
La scelta è per la Tour des Jorasses e con Piero Giglio salgo al rifugio Boccalatte mentre nel cielo si stanno addensando scuri nuvoloni. Quando raggiungiamo il rifugio le cime sono ormai avvolte dalle nebbie e comincia a cadere un fine nevischio. Una guida francese, diretta con cliente alle Grandes Jorasses, è ottimista in quanto le previsioni meteorologiche a Chamonix erano per il bel tempo. Invece nevischia tutta la notte e al mattino non ci resta che scendere a valle.
Le previsioni non erano però del tutto errate e nel pomeriggio ritorna il bel tempo. Il giorno seguente rientriamo in azione, lasciamo il fondo della val Ferret verso sera con il cielo completamente sereno e, nelle ultime luci del giorno, risaliamo le balze rocciose che sostengono il ghiacciaio delle Grandes Jorasses: ci fermeremo a bivaccare sugli ultimi lembi di prato che precedono la lunga morena. Abbiamo scelto questa soluzione per evitare la perdita di quota cui si è costretti partendo dal rifugio per abbordare il ghiacciaio.
La salita per raggiungere la base della Tour è lunga e faticosa ma non presenta difficoltà: il ghiacciaio è di facile percorso e poco crepacciato. Questo ci permette di apprezzare l’ambiente selvaggio e solitario in cui siamo immersi, in contrasto con l’affollamento delle zone più celebri del Monte Bianco.
Quando il sole è appena sorto all’orizzonte raggiungiamo l’attacco, la via percorre un tratto del canale che divide in due la possente struttura della Tour, poi lo abbandona superando a destra le balze che adducono all’alto muro verticale che sbarra l’accesso al Gran Diedro Sud.
Iniziamo sul fondo del canale ma subito lo abbandoniamo per evitare possibili cadute di pietre e ci infiliamo a destra in un lungo diedro obliquo che ci offre delle belle lunghezze di corda su buona roccia, anche se il suo colore grigio scuro rende l’ambiente un po’ tetro. Alla fine del diedro troviamo un chiodo abbandonato dai primi salitori; subito dopo un duro strapiombo ci apre l’accesso ai grandi lastroni verticali e strapiombanti che, con la loro compattezza, avevano arrestato i tentativi antecedenti la prima ascensione.
Dopo alcuni difficili passaggi, tra immensi blocchi monolitici, individuiamo la placca grigia concava, a forma di diedro aperto, che rappresenta il punto debole della parete; delle fessure verticali parallele indicano la via da percorrere. Questo tratto si supera con prevalenza di arrampicata artificiale con lungo lavoro di chiodatura e schiodatura, si passa da fessure che muoiono ad altre che nascono e incidono il granito compatto.
Quando riesco faccio uso di blocchetti ad incastro e alterno difficili passi in arrampicata libera alla monotonia dell’artificiale.
Sopra di noi, oltre i muri verticali modello Grand Capucin, scorgiamo solo l’enorme tetto che chiude in alto il Gran Diedro. E’ impressionate e sporge di molti metri, ornato di stalattiti di ghiaccio che ogni tanto si staccano al calore del sole e vengono a infrangersi poco sopra di noi investendoci con innocui frammenti di ghiaccio. Mente Pietro mi raggiunge alle soste cerco di afferrare al volo questi frammenti per succhiarli e alleviare la sete che questo tipo di arrampicata, sotto i cadi raggi del sole, provoca.
Le ore scorrono veloci e a pomeriggio inoltrato usciamo dai muri verticali ed entriamo nel Gran Diedro che caratterizza la parete. Troviamo presto il comodo terrazzino orizzontale ove bivaccarono i primi salitori. E’ l’unico buon punto da bivacco in tutta la via per cui decidiamo di fermarci anche se possiamo ancora disporre di qualche ora di luce.
Ci sistemiamo in attesa della notte, come tante altre volte nei bivacchi della ormai nostra lunga carriera di scalatori. Come sempre c’è qualche preoccupazione per il tempo che potrebbe cambiare e l’impressionante diedro che ci sovrasta genera qualche timore in noi, poi lentamente arriva il sonno che cancella tutto.
Alle prime luci dell’alba siamo già impegnati lungo il diedro, il cielo è terso ma alcuni veli a ovest promettono un cambiamento del tempo.
Sarebbe monotono descrivere l’arrampicata che si svolge sul fianco sinistro dell’enorme diedro che, totalmente in libera, fa esplodere il nostro entusiasmo che io manifesto cantando a squarciagola alle soste.
Il grande tetto che chiude il diedro si avvicina, poi è alla nostra altezza e infine lo superiamo aggirandolo a sinistra lungo una stretta placca.
Ancora un muro verticale impegnativo, poi usciamo sulla cresta, fuori dalle grandi difficoltà. La cresta non presenta ostacoli rilevanti ma è lunga e faticosa, siamo stanchi e vorremmo riposarci ma il tempo peggiora e non vogliamo trovarci in quel luogo esposti ai fulmini in caso di temporale.
Arriviamo in vetta quando comincia a nevischiare. È una cima un po’ strana, formata da una breve cresta orizzontale che a un tratto viene inghiottita dal ghiacciaio delle Grandes Jorasses. Velocemente ci portiamo al colletto per iniziare la breve discesa in corda doppia che ci permette di raggiungere il ghiacciaio.
La cima della Tour des Jorasses ha ricevuto ben poche visite prima di noi e il vecchio cordino di canapa posato attorno ad uno spuntone, ove iniziamo la discesa, è con tutta probabilità dei primi salitori della Tour del lontano 1931.
La storia finisce sul ghiacciaio ove scendiamo lentamente commentando la via appena salita, parlando dei primi salitori e formulando già dei progetti per il futuro mentre l’ultima avventura non è ancora completamente finita.
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Ciao Ugo, a proposito del tuo invito a scrivere, sarebbe ora che tu e Franco metteste finalmente mano a quella che potrebbe essere la vostra opera memorabile, le “Cazzate Alpine” alla pari di Tartarino di Tarascona o di Voyages en zig-zag. Un vostro dono al mondo dei lettori di alpinismo.
Bel racconto! Mi viene da ridere quando leggo che allora il ghiacciao per avvicinarsi al Diedro Machetto era facile e poco crepacciato. Nel 1989, due tizi di cui uno era il sottoscritto, fallirono il primo tentativo al diedro machetto poiche passarono tre ore di notte prima dell’alba a cercare di passare nel labirinto di crepacci. Di fronte ad uno enorme fummo costretti ad abdicare. Anche perche’ pensavamo di scendere in doppia e ripassare dallo stesso ghiacciaio, nel pomeriggio: ci venne allora in mente il racconto di Bonatti del crepaccio sotto il pilastro rosso in uno dei suoi tentativi e quindi pensammo di lasciar perdere…
quella volta anche noi non salimmo al Boccalatte ma bivaccamo direi nello stesso posto descritto da Manera ( quindi in montagna ci si puo’ andare anche senza rifugio….). Ricordo ancora lo zaino enorme, i koflac gialli fosforescenti ai piedi fin dall’asfalto della val ferret ( a proposito di scarpe basse e aderenza della gomma dura) ma non ricordo la fatica…. semplice avevo 19 anni. In ultimo, non ha nulla a che vedere con la Tour de Jorasses, ma viene citata da Manera nel racconto, ricordo invece benissimo i chiodi a pressione della Via della Rivoluzione, secondo tiro!
@2 Mi pare proprio che la premessa sia firmata. Basta leggere. Se non si sa neppure “leggere”, è meglio non esprimere considerazioni, specie se palesemente ridicole e maleducate. Buon week end anche a te.
Sto diedro salito dai tre che mi entusiasmavano, perché girate il coltello nella mia piaga, che Ballera, Norberto e Sergio avevano aperto 40 anni fa?
Per colpa mia quel giorno non siamo andati lì vicino per salirlo e abbiamo “pilunato”, poi c’è stato sempre altro, anche con tanti altri.
I sogni però si avverano se si ha tempo, chissà se il virus lo permetterà.
Comunque Grazie, è sempre bello fare questi sogni!
Non scrivo… però il modo con cui mi esprimo esula , di solito, dalla considerazione che sto per fare –
Non so chi è colui ha avuto il coraggio di fare la premessa iniziale, ma a mio avviso è un semplice presuntuoso, arrogante e coglione. Leggono queste avvincenti avventure del passato e/o presente, gli amanti della montagna qualunque sia lo loro età; tra l’altro, tutto è molto relativo comprese le caratteristiche individuali di ciascuno( dettate dal DNA) ed è evidente che le capacità atletiche, resistenza, ecc, pur diminuendo oggettivamente con l’aumentare degli anni, potrebbero essere sfruttate più adeguatamente di alcuni giovani. Tutti siamo consapevoli che l’età, purtroppo, è un deterrente per chi si dedica a queste attività, ma gli imbecilli con il loro ego esagerato e con tanta ignoranza ,non potranno mai capire.
Che Franco Ribetti non amasse l’uso frequante del chiodo lo si vede nelle foto dagli abbondanti metri di corda libera mentre scala da primo. Complimenti per tutto, questo è l’alpinismo dei sogni, senza tempo né età!