Tra sogno, arte e avventura
di Andrea Parodi
(pubblicato su La Pietra grande 2018, Sezione di Bolzaneto del CAI)
Foto di Mosè Carrara, Fulvio Scotto e Angelo Siri
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)
Recentemente mi hanno chiesto di spiegare che cos’è l’alpinismo a una platea di persone svariate, molte delle quali di alpinismo non sapevano proprio nulla. Sembrerebbe un compito facile per uno come me che scala montagne da più di quarant’anni. E invece non è mica tanto facile…
Che cos’è l’alpinismo
Per cercare di spiegarlo sono partito dalla definizione data da un vocabolario: “Sport consistente nello scalare alte montagne per raggiungerne le cime”. È una spiegazione molto semplice e chiara, ma assolutamente incompleta, poiché all’alpinismo sta assai stretto il ruolo di semplice sport: l’alpinismo è anche esplorazione, avventura, arte, storia, cultura, per alcuni è addirittura uno stile di vita. Per me, alla base del mio alpinismo, c’è il sogno ad occhi aperti, e l’azione che ne segue non è altro che il tentativo di trasformare tale sogno in realtà. E il bello è che molte volte ci sono riuscito… Come quando, da ragazzo, sognavo una nevicata eccezionale, per poter scendere con gli sci dal ripido versante sud del Monte Rama, la grande montagna sopra casa mia a due passi dal mare. Capitò veramente, nell’inverno del 1986: la neve coprì le montagne costiere con una coltre di più di un metro e con il mio amico Luigi scendemmo con funambolici zigzag per la Direttissima, con il mare sotto i nostri piedi.

Capitò anche a fine anni Settanta, quando sentii parlare per la prima volta dell’ostica Via dei Fachiri alla Cima Scotoni, in Dolomiti, aperta dal mitico Enzo Cozzolino di cui si dicevano meraviglie: si raccontava che per l’arditissima scalata a strapiombo avesse usato ben pochi chiodi, e che la sua corda fluttuasse quasi sempre libera nell’aria come quella di un fachiro. Sentendo quei racconti mirabolanti pensavo che non avrei mai avuto il coraggio di affrontare una scalata così audace, e invece pochi anni dopo mi ritrovai sull’impressionante traverso della Via dei Fachiri, dicendo “chi me l’ha fatto fare” ma poi felicissimo di esserci riuscito.
Inventare vie nuove
Per me, comunque, la cosa più bella è inventare vie nuove. È un’attività in cui si sommano molte componenti dell’alpinismo: la ricerca e la scoperta di una struttura o di un settore di parete mai salito da nessuno, il sogno di scalarlo, lo studio attento dal vero e sulle fotografie con luci diverse, per capire la roccia, trovare le linee di salita possibili e cercare quella più logica ed estetica. Poi, naturalmente, ci vogliono allenamento ed esperienza, e i compagni giusti, motivati, per provare a realizzare il progetto. Ci vogliono grinta, un po’ di testa dura, ma anche elasticità mentale per affrontare le incognite e gli imprevisti che puntualmente si presentano: un conto è sognare una via nuova su una fotografia, altro conto è scalarla davvero!
Poi le cose che mi piacciono di più, una volta tornato a casa dopo l’apertura di una via, sono: tracciare il percorso su una fotografia per valutarne l’estetica, e arrovellarmi per trovare un nome, estroso ma con un senso, alla nuova creazione. Insomma, al di là dello sport e del grado di difficoltà, credo ci siano molte altre componenti che costituiscono il fascino e il valore dell’alpinismo.
Gracile e malaticcio
Da ragazzo i medici non mi volevano dare il nullaosta per iscrivermi ai corsi di alpinismo, dicendo che ero troppo gracile e malaticcio: ho cominciato lo stesso a 19 anni nel lontano 1976, con un po’ di patemi all’inizio ma poi ho visto che resistevo e da allora non ho più smesso: sono trascorsi più di quarant’anni e scalo ancora montagne.
Credo che il trucco sia non smettere mai di sognare, anche se certe volte è difficile perché nella vita si prendono tante batoste, specie noi sognatori… Le prime vie le ho aperte a Finale a partire dal 1978: sulla copertina dello storico libro di Gogna Cento nuovi mattini c’è la via Folletto Rosso, a Rocca di Corno. Era stata creata dal genovese Francesco Leardi imbottendo di chiodi una fessura strapiombante, e dietro alla sua corda c’ero io, allora giovane apprendista, e da secondo già provai a scalare la fessura senza staffe. Tra il 1978 e il 1983, nel Finalese ho aperto alcune decine di vie, con Guido Coppo, Ferruccio Ferraresi e altri compagni. Quasi tutte salendo dal basso senza spit, tranne alcuni rari esperimenti di chiodatura dall’alto che decisi subito di abbandonare: volevo fare l’alpinista, e attrezzare dall’alto una via non ha nulla da spartire con l’alpinismo. Negli anni seguenti ho spostato l’attività esplorativa su montagne più alte: all’inizio con qualche timido esperimento sulle Dolomiti di Brenta, poi mi sono concentrato sulle più vicine (più trascurate dagli alpinisti e quindi per me più attraenti) Alpi Liguri, Marittime e Cozie meridionali.

L’estetica della linea
Tra i primi anni Ottanta e la metà degli anni Novanta ho aperto decine di vie nuove sulle montagne dalla Liguria al Monviso, con compagni diversi tra cui scalatori di grosso calibro come Guido Ghigo, Fulvio Scotto, Giovannino Massari, Luca Lenti, Angelo Siri. Si dice che noi alpinisti siamo un po’ puttane e forse nel mio caso un poco è vero: quando vedo una linea possibile su una parete cerco disperatamente qualcuno che mi possa accompagnare nell’avventura.
Mi è anche capitato di lasciar fuori dal gioco un amico solo perché quel giorno aveva già un altro impegno, mentre io smaniavo per provare il nuovo progetto. Lo ammetto: per me inventare vie nuove è quasi una droga. C’è poi chi dice che io ami la roccia friabile, che ami cacciarmi nei guai, ma naturalmente non è vero.
Mi piace molto di più scalare su roccia solida e a cacciarmi nei guai ci sto molto attento: se fosse vero il contrario non credo che sarei ancora qui, dopo tutti questi anni di alpinismo. La verità è che guardo prima di tutto l’estetica della linea da salire: se poi la roccia non è solidissima, pazienza, ci provo lo stesso. Ho il vantaggio di essere molto magro e quindi leggero, perciò riesco a muovermi con delicatezza, sollecitando poco gli appigli. Sulle montagne tra la Liguria e il Monviso s’incontrano molti tipi di rocce assai diverse tra loro: dai calcari del Mongioie e del Marguareis, allo gneiss del Gelas e dell’Argentera, al granito del Prefouns, alla quarzite di Rocca Castello e Rocca Senghi, alle ofioliti del Monviso. E a me naturalmente piace sperimentarle tutte: non per niente ho studiato geologia…
Come il capitano Achab
Tra le numerose vie nuove che ho aperto negli anni Ottanta e Novanta, alcune sono state esperienze molto belle e di grande soddisfazione. Ricordo in particolare Corvo nero non avrai il mio scalpo all’Aiguille Oubliée (= guglia dimenticata) del Vallonnet nel malfamato Chambeyron: con Fulvio Scotto e Luca Lenti, facendo precarie acrobazie senza spit su per una fessura strapiombante e fuori misura. Anni dopo un francese è passato di lì con trapano e spit tracciando la sua via sopra la nostra… Tra le altre vie nuove di quegli anni, occupano posti speciali nei miei ricordi la Diretta allo Scarason, che ci costò due bivacchi appesi in parete nel primo tentativo e altri tre bivacchi nella scalata risolutiva, poi Inseguendo la balena bianca, dove realmente mi sentivo come il capitano Achab a guidare ostinatamente recalcitranti compagni sul dorso liscio e vertiginoso di una gigantesca balena di calcare. Era il 1989 e noi eravamo i primi a piantare i nostri spit (a mano) sulle levigate placche del gruppo del Mongioie. Naturalmente gli altri alpinisti scuotevano la testa dicendo che era tutto friabile: oggi su quelle placche ci sono decine di vie e sono considerate tra le più belle scalate su calcare delle Alpi sud-occidentali… Poi ancora la Fessura delle streghe: una linea arditissima su una parete assai strapiombante, su un contrafforte del Pian Ballaur nel cuore delle Alpi Liguri. Quella sì friabile, rigorosamente senza spit, con Angelo Siri, tutti e due in un momento di grazia, in una splendida giornata d’autunno nel 1988. È stata ripetuta per la prima volta ben 27 anni dopo, dai fortissimi Gabriele Canu e Pietro Godani, che per superare i 200 metri scarsi di sviluppo hanno impiegato otto ore e mezzo, lo stesso tempo che avevamo impiegato noi. E poi anche una via di ghiaccio, un autentico couloir fantasma: la Colata di stelle alla Forcella dell’Asta in Valle Gesso. Con Ferruccio Ferraresi cogliemmo l’attimo in cui il ripido colatoio era corazzato di ghiaccio. E ce ne sarebbero molte altre da raccontare: L’orologio senza tempo, Tra le pieghe dello Specchio, Rocky Horror Show, Cavalcando la Luna, California Tris, Delirio tropicale, Fuga da Chernobyl… Per raccontarle tutte ci vorrebbe un libro e prima o poi vorrei riuscire a scriverlo.
Indipendentemente dal grado di difficoltà
Alla fine degli anni Novanta, passati i quarant’anni e con tre figli piccoli, non avevo più il tempo e la testa per lanciarmi in imprese alpinistiche. Ma invece di darmi all’arrampicata sportiva e alle falesie, come hanno fatto in molti, ho preferito continuare ad andare in montagna, su gradi più bassi nei rari giorni liberi. In realtà la montagna fa parte del mio lavoro, poiché per vivere scrivo (e cerco di vendere) libri di escursionismo. Per continuare a scalare montagne, con la scusa del lavoro, ne ho scritto anche uno di alpinismo: Nelle Alpi del Sole con itinerari dal primo al quarto grado sulle tracce dei pionieri. Per me è affascinante curiosare tra le pieghe delle montagne indipendentemente dal grado di difficoltà: basta che ci sia un minimo d’incognita, di avventura in qualche angolo selvaggio, che si trova facilmente anche sulle montagne di casa. A volte basta cambiare solo un poco le carte in tavola: mi è capitato di percorrere creste di secondo grado spruzzate di neve in autunno provando una gioia indescrivibile. Pensavo comunque che la mia attività alpinistica fosse ormai in lento, inesorabile declino.

Destinazione Paradiso
E invece, superati i cinquant’anni, con i figli cresciuti e il matrimonio naufragato (lo so, noi alpinisti siamo soggetti difficili…) mi è tornata la voglia di scalate impegnative. Altri per la crisi della mezza età si comperano una macchina sportiva e corteggiano le ragazze, io invece ho cominciato a frequentare la palestra artificiale di arrampicata che prima snobbavo. Magari, direte voi, perché in palestra s’incontrano anche belle ragazze… Non stiamo a sottilizzare sui motivi: ho ripreso ad allenarmi in palestra e ho visto che, malgrado gli acciacchi dovuti all’usura, le dita e le braccia facevano ancora il loro dovere. Così ho ripreso vecchi sogni rimasti per molti anni nel cassetto: a partire dall’elegante parete nord-est del Monte Baueria, in bella vista nel vallone sospeso sopra le Cascate di Stroppia. L’avevo già notata più di trent’anni fa ma non avevo trovato un compagno disposto a seguirmi: i soliti pregiudizi sulla roccia friabile… E infatti fino al 2010 non mi risulta ci sia salito nessuno, malgrado fosse sotto gli occhi di tutti. Nell’estate del 2010, dunque, ci sono andato col mio amico Giorgio Massone, un autentico pioniere dell’alpinismo, catapultato chissà come negli anni duemila. Per me era la prima notevole via nuova dopo più di dieci anni di pausa: una scalata bellissima, almeno per noi, e in cima, sopraffatto dall’emozione, mi sono messo a piangere come un bambino. La via, per sottolineare la gioia che ci ha procurato, l’abbiamo battezzata Destinazione paradiso. Da lì ho ricominciato, con nuovi e vecchi compagni, tra cui l’inossidabile Fulvio Scotto e il giovane talento Pietro Godani, che ha esattamente trent’anni meno di me: tra il 2011 e il 2018 ho “inventato” una ventina di nuovi itinerari, spesso su strutture rocciose che nessuno fino ad allora aveva mai preso in considerazione.
La pila frontale nel vuoto
Dopo i cinquant’anni mi sono scoperto più forte di prima: magari avevo perso un po’ di potenza ed elasticità, ma resistenza, autocontrollo e maturità erano sicuramente migliorati rispetto a quando ero giovane. Cosi gli anni Dieci del XXI secolo mi hanno visto di nuovo lanciato alla ricerca di belle linee di scalata. Incredibilmente in questi ultimi anni ho realizzato progetti che quando ero giovane m’incutevano timore. Come le vie di misto invernali nel Marguareis: avevamo aperto le danze negli anni Ottanta Fulvio Scotto ed io sul Canale dei Pancioni, percorso in primavera su neve non ottimale e poi pubblicato nel 1985 nel nostro libro Montagne d’Oc, in cui avevo scritto entusiasta: «Ammantati di neve, i versanti settentrionali del Marguareis acquistano un fascino tutto particolare. Le cenge e i canaloni detritici, che d’estate danno alle pareti un aspetto un po’ triste e diroccato, diventano lenzuoli bianchi sospesi tra lisci strapiombi». In effetti nei vent’anni seguenti si registrarono varie ripetizioni primaverili dello stesso Canale dei Pancioni (che oggi è diventato una via quasi classica, con addirittura gli spit alle soste), ma nessuno, a quanto ne so, si avventurò nel frattempo alla scoperta di altre linee di misto, che pure con lo sguardo e la fantasia si potevano ben intuire. In primavera spesso c’è troppa neve e il sole comincia a diventare troppo caldo rendendo le vie pericolose, così ho deciso di andarci d’inverno (la prima volta il 26 dicembre 2011) con Pietro Godani, allora giovanissimo apprendista. Abbiamo vissuto fantastiche avventure, sulle pareti nord del Castello delle Aquile e dello stesso Marguareis. Sarebbe troppo lungo raccontarle qui: cito solo la volta in cui, ormai al buio cercando l’uscita della via, mi cadde la pila frontale nel vuoto…
Vie rigorosamente trad
Anche su roccia, in questi ultimi anni, ho rispolverato vecchi sogni che ormai pensavo perduti e ne ho inventato nuovi. Il bello è che di solito all’inizio mi sembrano sogni campati per aria o troppo grandi per me, e invece poi quasi sempre riesco a realizzarli. Tra i vecchi sogni realizzati c’è Il ritorno dei Mescaleros, un bel pilastro nel frequentato vallone di Collalunga, che abbiamo scalato nel settembre 2012 con Fulvio Scotto: lo avevo già adocchiato negli anni Ottanta e nel frattempo incredibilmente non ci è andato nessun altro, forse perché è esposto a nord e di sole ne prende ben poco.
Nel 2015 una bellissima via nuova l’abbiamo aperta per sbaglio… Con Nico Abrate sul granito del Prefouns. L’abbiamo chiamata Violiniste e tromboni per via di due violiniste conosciute la sera prima in rifugio… L’intenzione iniziale era di ripetere una via del grande Michel Dufranc sulla parete est del Prefouns. Ma non l’abbiamo trovata, perché la parete è solcata da decine di fessure, tutte simili tra loro. Così a un certo punto ne ho scelto una e ho provato a salirla. Difficile direi: per superare il primo tiro ci ho messo due ore… Poi per fortuna più in alto la parete si addomesticava un poco. Verificato che era una via nuova, a casa ho tracciato la linea sulla foto e mi è sembrata bellissima. Ve la consiglio: su ottimo granito e nel primo tiro difficile abbiamo lasciato ben tre chiodi.
Già, perché una cosa bisogna dirla: nel mio secondo periodo di cercatore di vie nuove ho deciso di lasciare del tutto a casa gli spit (non che prima ne avessi usati molti…) e quindi le nostre vie recenti sono rigorosamente “trad”, da scalare con nut, friend, e con gli ormai negletti chiodi da fessura.

Amore a prima vista
L’estate del 2016 è stata per me una delle migliori dal punto di vista delle vie nuove: ne ho aperto ben cinque, dalla Valle Maira al Marguareis. Notevole è Gran Burrone, una linea fantastica per diedri e camini: 580 metri di stampo dolomitico, sulla parete nord del Bric Content nel Vallone di Enchiausa. Ero con Gabriele Canu e Francesco Di Luca e, tanto per cambiare, siamo arrivati in vetta che era quasi buio. Ma la via più bella di tutte, almeno per me, è stata Il battesimo di Mosè, a inizio settembre, su un torrione dimenticato che sorge di fianco all’impressionante parete nord-est dello Scarason. L’idea iniziale era di ripetere una fantomatica via di Aste e Biancardi, che non compare nella Guida dei Monti d’Italia e neppure in quella del Marguareis, ma che Fulvio aveva trovato in un misterioso libretto regalatogli dallo stesso Biancardi. La via in questione, però, sale sulla parete nord, cupa e in parte erbosa. Molto più bella e invitante mi è apparsa la parete est: amore a prima vista, un po’ strapiombante a dire il vero, ma con alcuni diedri e fessure ad interromperne la compattezza. Insomma: mi sentivo in gran forma e ho convinto Fulvio e Mosè a tentarne la scalata. È stata una bella lotta, con tanto di bivacco imprevisto seduti su una cengetta spiovente. La via mi è piaciuta tantissimo per la varietà dei passaggi: dai diedri strapiombanti ai traversi delicati, con un muro finale di una trentina di metri assai difficile da interpretare, e infatti al buio proprio non ci sono riuscito, ma poi la mattina seguente col sole e con tutto il giorno davanti me lo sono lavorato con la dovuta calma… Il nome della via deriva dal fatto che, con me e Fulvio Scotto, c’era il giovane Mosè Carrara al suo primo bivacco in parete.
Ancora una e poi
basta
Ora,
se devo dirla tutta, da un anno o due mi sembra di cominciare a sentire i sintomi
del declino: sarà che ormai ho passato i sessanta… Comunque, nel 2017 ho
ancora aperto una via di misto invernale (il Couloir degli Amori perduti) e in estate un pilastro vertiginoso
sull’Oronaye (grazie all’apporto fondamentale del fuoriclasse Enrico Sasso) che
poi abbiamo dedicato ad Angelo Siri, morto proprio quel giorno dopo lunga
malattia. E ancora nel 2018 in febbraio ho inventato una bella via di misto
sulla parete est della Rocca dei Campanili, e in agosto una di roccia
sull’appartata Nord-est della Testa di Tablasses, che risultava ancora inviolata.
Quest’ultima l’ho chiamata Ancora una e
poi basta, lasciando in sospeso la spiegazione: sarà davvero la mia ultima
via nuova o, come fanno i bambini con le caramelle, si dice “ancora una e
poi basta” e invece poi si continua all’infinito?
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Con un po’di ritardo mi associo a quanto ha già detto Giova.
Con l’auspicio di portarti dietro nelle tue salite un normale orologio da polso e non quella pesante sveglia che avevamo sull’Armusso !
Ciao Andrea !
Grazie a tutti per i commenti bellissimi e affettuosi. Ah… La via “Ancora una e poi basta” non è mica stata l’ultima: pochi giorni fa ne abbiamo salito un’altra nuova sulla negletta Cima Centrale di Valrossa 😜
Lo voglio anche mettere in grassetto perchè è vangelo!
Ammiro molto il modo di vivere l’alpinismo di Andrea Parodi, pur avendo fatto cose molto difficili mi dà l’impressione che viva questa attività in maniera molto umile ( nell’accezione positiva del termine). Sono felice di avere ripetuto un paio delle sue vie sul Rama e spero di ripeterne ancora di più.
Bravo Andrea, hai trasmesso molto bene quella passione per l’avvenatura ed il nuovo che ti ho spesso sentito decantare e che altrettanto bene trasmetti nelle tue serate.
Il tuo è un affascinante Alpinismo d’esplorazione forse di altri tempi ma sicuramente molto valido e credo che l’unico che non se n’è ancora ancora accorto è l’accademico…
Per Marcello: sulla Fachiri eravamo insieme e con Federico Bausone. Era l’82. Un abbraccio
Eh, eh, credo che quella vosta della Fachiri fosse con Fulvio Torre e che al ritorno verso Genova gli esplose il parabrezza dell’R4 e si fecero tutto il viaggio inghiottendo mosche e zanzare….Mitico Andrea, che considero (forse lui non lo sa) , assieme a Francesco Leardi, uno dei miei maestri silenziosi.
Non è negli accademici occidentali, quelli che si raccontano spesso : deve proprio essere uno molto bravo di quelle parti. 🙂
Se ha ripetuto la Fachiri negli anni settanta ha trovato solo il chiodo all’inizio del traverso, poi pian piano ne han messi 7.
Ma io sbaglio sempre tutto: spiegatemi bene le cose.
Grande. Uno dei mie miti giovanili anche se ci dividono pochi anni. Parlavamo sempre con timore delle sue vie. Ho il rimpianto di non averne salita nessuna, ma magari visto che dopo i 50 dice che si trova meglio…😀
Andrea Parodi, un cavaliere della montagna.