Un alpinista sui Tavoloni

Metadiario – 171 – Un alpinista sui Tavoloni (AG 1993-003)

Il 31 ottobre 1993 vissi una piccola avventura, le cui emozioni è difficile spartire tanto furono strane e inconsuete le modalità.

Tavoloni-Veduta esterna-Cava Tacca Bianca-Monte Altissimo
La Cava di Tacca Bianca, versante sud del Monte Altissimo (Alpi Apuane)
Tavoloni-09FooF
La parete sud del Monte Altissimo, con il mio percorso (31 ottobre 1993) di salita per la via Nerli, discesa al Passo di Vaso Tondo, discesa alla Cava di Tacca Bianca, Sentiero dei Tavoloni (in rosso) fino alla Cava dei Colonnoni
La parete sud del Monte Altissimo con il Pilastro di Sinistra meglio visibile

In tutta evidenza non ancora pago di quanto mi ero trovato ad affrontare sul Monte Sagro qualche mese prima, volli tornare in Apuane per misurare il mio desiderio di fuga: ancora da solo, scelsi la parete sud del Monte Altissimo 1589 m. Da questo versante l’aspetto della montagna è inconfondibile, anche perché aperta alla vista dalla pianura. Da lontano sembra un unico grande appicco, ma in realtà l’orografia è piuttosto complessa. Ecco la descrizione che ne dà Angelo Nerli nella sua guida Alpi Apuane che scrisse con Euro Montagna e Attilio Sabbadini:

Un lungo crestone, originato dalla cresta sud-est e diretto verso sud-ovest, divide il versante in due anfiteatri: quello occidentale, che fa capo alla cima maggiore e culmina con la vera e propria parete sud; quello orientale, che si attesta al crinale delle due Quote 1471 m e 1460 m e al suo prolungamento che gira verso sud fino al Picco di Falcovaia 1287 m. Questo secondo più ampio anfiteatro può essere detto della Tacca Bianca, dal nome delle grandiose cave che vi sono intagliate a mezza altezza. Ma cave da ogni lato si arrampicano, su fino in prossimità della cima e se ne possono distinguere: un gruppo settentrionale presso la cresta nord; un gruppo orientale a nord delle Quote 1471 m e 1460 m; un vasto gruppo meridionale, tra cui quella della Tacca Bianca, sparse nei due anfiteatri alla testata della valle del Serra, con un’appendice ancora più a oriente, nella zona di Falcovaia“.

Quando dal basso entrai con l’automobile nel solco alla cui testata biancheggiavano le cave e ciò che rimane della parete vidi che Nerli aveva ragione: “l’anfiteatro occidentale del versante meridionale dell’Altissimo soltanto nella parte alta assume caratteri di vera parete, specie al centro, dove si nota una faccia triangolare, striata di costole o pilastri convergenti verso la cima“.

Individuai subito la difficile via che volevo salire, sul Pilastro di sinistra: un itinerario di circa 350 m aperto nel dicembre 1956 da Angelo Nerli con Gian Battista Scatena e Gino Amadei. Dalla Polla salii abbastanza in alto seguendo una strada di cava in un paesaggio sconvolto che neppure lo stesso Michelangelo Buonarroti avrebbe mai potuto riconoscere. Per avere un’idea oggi di questo ambiente c’è il Sentiero CAI 32, inaugurato il 26 ottobre 2013, davvero spettacolare e facilitato da qualche cavo d’acciaio.

Il versante meridionale dell’Altissimo. Sentiero CAI 32 (giallo) e ubicazione dei principali siti di “coltivazione” del marmo. Foto: Giovanni Bertini.

Io invece mirai subito al mio pilastro. C’erano alcuni passaggi dove la prudenza voleva che salissi autoassicurato, così avevo con me la corda, l’imbragatura e i moschettoni. Risolsi abbastanza velocemente la via, che comunque ha un passo chiave di V+. In cima il panorama era grandioso ma un po’ cupo per via del cielo nuvoloso. Decisi di non scendere verso il Passo degli Uncini perché mi ero incuriosito a leggere di uno strano percorso che la guida di Angelo Nerli sconsigliava già nel 1979 per via delle cattive condizioni in cui versava: il percorso dei “Tavoloni”.

Tavoloni Cava Tacca Bianca
Dalla Cava di Tacca Bianca, versante sud del Monte Altissimo (Alpi Apuane) si diparte l’ex “sentiero” dei Tavoloni

Scesi così al Passo di Vaso Tondo, poi per un sentierino veramente esposto, per lo più intagliato nella roccia viva, scesi alla grandiosa Cava della Tacca Bianca, allora completamente abbandonata, caratterizzata da un antro artificiale gigantesco. Questa cava è a picco su una parete verticale che precipita al di sotto per almeno 2-300 metri, un luogo che, per la sua solitudine e per le reminiscenze michelangiolesche, mi mise i brividi.

Tavoloni-sentTaccaBiancaperVasoTondo-a_436
L’esposto sentiero della Tacca Bianca

Sulla destra c’erano ancora dei macchinari, che servivano per calare a valle il marmo tagliato, e una toilette anche questa intagliata nella parete così come un piccolo altarino.

Andai in esplorazione a vedere come era il percorso dei Tavoloni, quello che avrebbe dovuto portarmi alla Cava dei Colonnoni: vidi una serie di putrelle di ferro infilzate nel marmo che in origine supportavano delle tavole in legno e che ne permettevano la percorrenza da parte dei cavatori. Qua e là qualche brandello di tavola marcita era ancora lì a testimonianza. Nessun segno di ringhiera esterna.

I pali erano lunghi tipo 130 cm, ed erano distanziati tra loro fino a due metri. Decisamente impercorribile.

Tavoloni 1988-15399776
Il Sentiero dei Tavoloni nel 1998

Ma l’idea di tornare al Vaso Tondo e poi ancora in vetta all’Altissimo per poi scendere al Passo degli Uncini non mi andava a genio, così decisi di percorrere i Tavoloni autoassicurandomi a due anelli di cordino che avevo con me. Assicurato al primo mi sporgevo nel vuoto per afferrare la putrella successiva, passarvi attorno il secondo cordone, quindi tornare indietro per recuperare il primo. Una fatica bestiale, perché il percorso è lungo sui 300 metri, quindi dovetti ripetere la stessa manovra per 150 volte circa, in qualche caso con grosse difficoltà, costantemente esposto a un vuoto come raramente avevo provato. E in più c’era l’incubo della possibilità che una putrella mancasse, quindi fossi costretto a tornare indietro!

Alla fine arrivai, sfinito.

Tavoloni-Cava Tacca Bianca-Monte Altissimo
L’attuale condizione del Sentiero dei Tavoloni

Mentre tornavo alla mia automobile, mi ripromettevo che avrei fatto di tutto perché quell’espostissimo camminamento un giorno venisse recuperato, per fare del versante sud del Monte Altissimo un parco di archeologia marmifera.
Ora, con ricordi di questo genere, è chiaro che condivido e propugno ogni discorso a carattere ambientalista. Ma vorrei andare un poco oltre, vista l’eccezionalità di questo caso, un gruppo di montagne in via di estinzione.

Qualunque fenomeno naturale stravolga una geografia ci disturba. Al di là dei danni economici per le catastrofi, una frana, un terremoto sono eventi che ci scuotono nell’intimo.

Se poi il fenomeno non è naturale (e quindi a esempio una serie di cave più o meno selvagge), ci disturba ancora di più. L’intensità di questo disturbo è tanto più forte quanto più ci ostiniamo a dare un significato di eternità a ciò che eterno non è mai stato.

La nostra epoca immersa nel virtuale (che è espressione del massimo della volubilità e quindi deperibilità) tende stranamente a negare il valore di ciò che è caduco, illudendoci (in un limbo di preteso e immutabile ottimismo) che la nostra esistenza matematico-informatica e le nostre sicurezze di vita sana e felice siano in costante crescita, quasi tendenti all’infinito.

Qualunque fenomeno contrario, che ci sbatta con evidenza in faccia la realtà, ci infastidisce: ma forse è anche un’occasione per crescere. E direi che nel caso delle Apuane l’occasione per crescere è davvero enorme e non possiamo lasciarcela sfuggire.

La grandezza della montagna (e quindi dell’universo) non è nella sua pretesa eternità, è nell’accettazione della sua “vita” e quindi prima o poi della sua morte. Già Roderick Nash, professore di storia e studi ambientali all’università di Santa Barbara (California), nel 1975 aveva sostenuto, in uno splendido articolo, per certi versi illuminato, i “diritti delle rocce”: in esso dimostrava come l’evoluzione dell’Etica, partendo dall’unità individuale si allargasse alla famiglia e alla tribù. In seguito il rispetto etico si estese alla nazione, alla razza, all’umanità (Cristo, Buddha), per arrivare poi in tempi più moderni ai mammiferi, quindi agli altri animali, poi alle piante. Il prossimo passo etico è l’ammissione dell’inorganico, cioè la terra e le rocce, l’acqua e l’ambiente in generale.

Come è distante a questo punto il concetto di “montagna eterna”…! In ambito etico la “montagna eterna” è solo un concetto, dunque non dovremmo più soffrire per le mutilazioni e gli stravolgimenti. La montagna viva è l’unica esperienza possibile.

Ma il non soffrire più per le vicende dell’ambiente e il sapere che non c’è nulla di eterno non giustificano il nostro essere inattivi di fronte alle aggressioni; al contrario la nostra azione a salvaguardia deve continuare con più forza di prima, perché la caducità è l’unico mezzo che abbiamo per aspirare a qualcosa di davvero eterno.

Carlo Alberto Pinelli una volta scrisse: «Nessun reale sforzo per cambiare rotta verrà mai tentato se, a fianco degli spettri agitati con fin troppo buon senso dalla scienza ecologica, non verrà innalzato il vessillo dell’amicizia disinteressata e inutile con la Natura. Noi combatteremmo contro la rapina delle risorse naturali anche se, per ipotesi, le risorse del pianeta fossero infinite; combatteremmo contro la distruzione delle foreste anche se la loro scomparsa non provocasse una degradazione irreversibile degli ecosistemi terrestri; combatteremmo contro gli inquinamenti delle acque, dell’aria, del suolo anche se dagli inquinamenti non fosse minacciata la nostra salute fisica e il nostro benessere materiale. E combatteremmo semplicemente perché boschi, ambienti naturali, animali selvatici, acque limpide e così via, hanno dato e danno alla nostra vita un senso al quale non siamo disposti a rinunciare».

La consapevolezza della non eternità, la nostra finitezza ci danno la forza per continuare la nostra lotta. Anche se in tutti questi anni non mi sono proposto di individuare le alternative sociali, ambientali e turistiche all’escavazione. Altri lo fanno e faranno molto meglio di me.

Ma perché gli abitanti delle Dolomiti, che nell’Ottocento vivevano in condizioni assai misere ed erano costretti a emigrare, oggi hanno trovato un decoroso modello di vita tramite il turismo? Perché non si può fare anche qui la stessa cosa? Il mondo sarebbe disposto a vedere distrutti dalle cave la Marmolada, il Sassolungo o le Tre Cime di Lavaredo?

Dobbiamo semplicemente “crederci”, crederci sempre di più, usare per altri scopi più nobili quella potente energia che ci ha fatto conoscere, scalare, colonizzare e sfruttare.

Proprio nei momenti difficili l’uomo si risveglia, di fronte a un disastro si fanno investimenti e piani Marshall in altri tempi difficilmente concepibili. L’italiano deve incominciare ad amare il proprio territorio, solo dopo questo passaggio culturale le risorse economiche salteranno fuori. È questo il momento delle Apuane.

Ci sono state moltissime occasioni per discutere pubblicamente del futuro delle Apuane (e continuano ad esserci). Una è stata a Firenze, l’8 novembre 2014.

In quella data si svolse come da programma al Teatro L’Affratellamento, in via G. P. Orsini 73, Firenze, un importante convegno organizzato dalla Rete dei Comitati per la Difesa del Territorio www.territorialmente.it. I vari relatori si succedettero con interventi di grande spessore, ottimamente moderati da Claudio Greppi.

Il convegno si proponeva di delineare un possibile futuro delle Alpi Apuane in cui l’attività di escavazione fosse ricondotta nei limiti di un’utilizzazione non distruttiva e si integrasse con la valorizzazione di risorse non usate o abbandonate. Due gli obiettivi immediati. Il primo era sostenere le osservazioni presentate dalla Rete e da altre associazioni ambientaliste al Piano di Indirizzo Territoriale con valenza di Piano paesaggistico adottato il 2 luglio 2014. Il secondo era delineare, con la partecipazione di diversi attori – locali e non – le condizioni e le opportunità di un’economia integrativa rispetto alla monocoltura marmifera. Si trattava di un primo passo affinché, ufficialmente o meno, le Alpi Apuane fossero riconosciute come patrimonio che appartiene al mondo e non come proprietà di un gruppo ristretto di imprese, che sfruttano la Montagna in modo non sostenibile e con modestissime ricadute sull’economia locale.

Al mio intervento era stato in precedenza dato il titolo Le Apuane viste da un alpinista, ma io volli aggiungere un punto interrogativo. Queste furono le mie prime parole.

Le Apuane viste da un alpinista?
È vero, sono stato e sono un alpinista: e potrei intrattenervi per ore sulla bellezza delle Alpi Apuane, proprio nei confronti con le altre Alpi, alle quali non hanno nulla da invidiare.
Potrei raccontare ore, giorni, settimane passate in quelle valli, su quelle pareti e sulle cime. In contemplazione oppure nell’azione di una salita difficile.

Potrei dire anch’io come mi sono incantato di fronte a fiori che ci sono solo lì e non altrove, oppure di fronte a un’orografia che, già sconvolta di suo, in più punti è diventata dantesca per mano dell’uomo.

Ma io so che molti di voi sono qui perché come me amano le Apuane, dunque la mia testimonianza va a fecondare campi già fertili. Preferisco dare per scontate quelle emozioni che sicuramente la maggior parte di voi ha vissuto esattamente come me“.

9
Un alpinista sui Tavoloni ultima modifica: 2014-12-09T07:30:19+01:00 da GognaBlog

Scopri di più da GognaBlog

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

6 pensieri su “Un alpinista sui Tavoloni”

  1. Dev’essere il più bel post che ho letto da quando frequento questo blog.
     

  2. l’Altissimo è un vero museo a cielo aperto dove sono raccolte storie e testimonianze di un tempo che fu, di un interesse e un valore enorme.
    Basterebbe avere una pò di visione, di apertura mentale.
    Invece no, si pensa a riaprire l’escavazione e distruggere tutto.
    PARCO DELLE APUANE DOVE SEIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII!!!!!!!!!!!

  3. Mi piacerebbe che qualunque luogo fosse preservato senza secondi fini, solo per il fatto che esiste e che è una risorsa preziosa da vivere con attenzione e cura.

    Vorrei che i luoghi fossero respirati al di là degli affari che possono portare, vorrei che fossero amati soprattutto dai locali, senza tanta pubblicità, e che fossero custoditi senza darli in pasto a orde di turisti.

  4. Ogni volta che ho la fortuna d’andar per le Apuane non posso far altro che pensare quale e quanta distruzione sopportino quotidianamente. Quanto potranno durare se continuiamo così? Ho letto da qualche parte che l’escavazione, negli ultimi vent’anni è stata superiore a quella fatta dall’epoca pre romana sino giusto a vent’anni fa. E non certo per statue o monumenti, ma piuttosto per scopi industriali. Addirittura si mette mano ai “ravaneti”. La fame di carbonato di calcio pare non avere fine. Povere Apuane; poveri noi.

  5. Alessandro dimenticavo una cosa importante. COMPLIMENTI per la solitaria. Credo sia la prima!
    Quelle vie li dell’Altissimo sono praticamente dimenticate. Certo la roccia non è delle migliori ma l’ambiente è spettacolare.

  6. Assieme ad altri tre amici siamo stati sabato scorso proprio in questi luoghi salendo direttamente dalla Polla. Nonostante il meteo non proprio bello… eravamo saliti con l’idea di ripetere il pilastro centrale lungo la via Benincasi – Canciani del 1970. Le avverse condizioni meteo ci hanno impedito di fare la salita, in compenso abbiamo fatto un bel giro salendo al passo degli Uncini, vetta dell’Altissimo e ritorno alla Cava dei Colonnoni scendendo per vecchio sentiero di cavatori dal passo dell’Orso (questo nome è dubbio) e poi giù alla Polla per il recente sentiero 32.
    Alcuni anni fa avevo ripetuto la via “Nerli” al pilastro di sinistra, via ormai decisamente dimenticata e, poco dopo, salito lo sperone che sovrasta la cava dei Colonnoni trovandoci tracce di cavatori con nomi e date scolpite sulla roccia.
    Altre volte ho percorso il bellissimo, ardito e impressionante sentiero del “Vaso Tondo”, sentiero che dalla Cava della “Tacca Bianca” porta al Passo del Vaso Tondo. Questo sentiero veniva usato dai cavatori del paese di Arni che è sul versante opposto del Monte Altissimo.
    Insomma questo versante sud del monte Altissimo è un vero e proprio “MUSEO A CIELO APERTO”, è un luogo dove si può fare alpinismo, escursionismo. Dove si possono vedere delle bellezze ambientali uniche, dove si può ammirare l’abilità tecnica e il durissimo lavoro fatto dai vecchi cavatori di Arni e Azzano. L’enorme muraglione di sassi che sostiene la Cava dei Colonnoni è un vero capolavoro. E’ fatto tutto di soli sassi a secco senza malta o cemento, eppure è li da una vita. Oggi quelli moderni fatti in cemento armato vanno giù alla prima piena… Meditate gente!
    Poi ci sono le arditissime via di “LIZZA”, altro capolavoro di abilità costruttiva, anche queste di soli sassi a secco, con i bellissimi “PIRI” di marmo dove si vedono i solchi scavati dalle corde che sostenevano il carico della lizza mentre si calavano i blocchi a valle.
    Alla Cava della TACCA BIANCA si possono leggere scolpiti sulla roccia i nomi dei vecchi cavatori. E poi c’è l’aereo sentiero dei TAVOLONI, una vera passerella sospesa sul vuoto che metteva in comunicazione la cava della Tacca Bianca con quella dei Colonnoni.

    Insomma, ripeto, un vero museo a cielo aperto che sono sicuro, fosse fatto conoscere, ci verrebbe il mondo a visitarlo.

    Nonostante tutto questa ricchezza, adesso invece di valorizzare tutto questo PATRIMONIO unico, che si fa? si dà una nuova autorizzazione per riaprire le cave. Già alla Mossa e alla Fitta stanno lavorando.

    Perché qui chi comanda è la HENRAUX S.P.A.

    Come siamo MIOPI !!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.