Tre stagioni di tentativi portano a una nuova via sulla parete est del Fitz Roy.
Un Mar de Sueños
di Jorge Ackermann
(pubblicato su The American Alpine Journal, 2013)
Era un’idea nata da anni di scalate a Chaltén, di ricerca di avventure, di movimento veloce e leggero: Michi Lerjen-Demjen e io volevamo scalare la parete est del Fitz Roy. Abbiamo iniziato a pianificare il tentativo di prima ripetizione del Pilastro Est (Ferrari-Meles, 1976) all’inizio del 2012. Ma quando ho parlato di questa idea al mio amico Tincho, un grande marinaio e avventuriero, mi ha detto che se volevo prendermi la briga di ripetere una via così impegnativa, perché non aprirne una nuova? Tincho mi ha dato la spinta di cui avevo bisogno.

Fu più o meno nel periodo in cui la città di El Chaltén fu coinvolta dall’intero dibattito sui chiodi a pressione del Cerro Torre. Michi e io volevamo aprire una nuova via in un modo che avrebbe lasciato queste montagne incontaminate, come crediamo debbano essere. Volevamo scalare la parete est in stile alpino, senza lasciare corde o spit, in modo che parte dell’avventura che avevamo vissuto rimanesse per coloro che ci avrebbero seguito.
Il massiccio del Chaltén è come lo Yosemite, per noi argentini. Molti di noi hanno iniziato qui a scalare le big wall e il livello di arrampicata e creatività tra gli scalatori argentini è molto alto. In Argentina, scalatori come Luciano Fiorenza hanno aperto dozzine di linee creative ed estetiche senza cercare molta visibilità, e molti scalatori che vengono qui per la prima volta ne sono piuttosto sorpresi. Abbiamo la nostra comunità di scalatori, le nostre riviste di montagna e, in qualche modo, questo rimane sconosciuto al resto del mondo.

A Bariloche, dove sono cresciuto, la cultura montanara che è arrivata con i coloni europei è ancora forte oggi. Il rifugio Frey, uno dei rifugi di montagna vicino a Bariloche, è un punto di riferimento per scalatori e sciatori, circondato da guglie di granito e a poche ore di cammino dalla città. Ho trovato lavoro al rifugio Frey quando avevo 16 anni. A quel tempo lavorava lì Peter Lüthi; era un personaggio vivace e un mentore per molti scalatori argentini: mi prese sotto la sua ala e mi trasmise il suo amore per l’avventura. Qui ho anche incontrato Rolando Garibotti, Luciano e Bicho Fiorenza e Ramiro Calvo, un gruppo di leggendari alpinisti argentini. Da loro ho imparato a muovermi in montagna. Le loro storie mi hanno fatto sognare il massiccio del Chaltén.
Quando avevo 18 anni, mi sono diretto a Chaltén con l’attrezzatura da arrampicata che mi ero portato dietro e qualche pesos in tasca. Ero felicissimo di essere finalmente lì, circondato da quelle montagne mitiche. Ho imparato a scalare grandi pareti, e naturalmente anche su ghiaccio. Sono tornato a Chaltén ogni anno e ho scalato molte cime, e credo che questo mi abbia dato la tranquillità di provare cose nuove. Tentare nuovi percorsi con esito incerto mi era possibile perché comunque le cime le avevo già raggiunte, dunque un po’ di pressione era sparita, in un certo senso. Ho iniziato ad amare l’avventura del trovare la via, di non sapere cosa c’è dopo il tiro successivo, della dinamica che si forma in una cordata quando si decide quale sia la via successiva.
Michi e io abbiamo scalato insieme per la prima volta il Fitz Roy per la via della Supercanaleta nel 2007. Diversi anni dopo, nel dicembre 2011, assieme abbiamo portato un cliente sul Fitz Roy. Abbiamo lavorato molto bene come squadra, raggiunta la vetta col cliente e poi di nuovo giù in 20 ore. È stato fantastico. Michi è tornato in Svizzera subito dopo, ma l’ho richiamato quando ho visto che stava arrivando il bel tempo e gli ho proposto di provare la nostra nuova via sul Fitz Roy. È tornato subito a Chaltén.
Nonostante tutte le nostre buone intenzioni e aspirazioni di grandezza, eravamo ingenui su ciò che ci aspettava. Nelle foto del percorso proposto, le fessure sembravano grandi: un sacco di offwidth, pensavamo. Una volta sul percorso, ci siamo resi conto che queste offwidth erano in realtà fessure sottilissime. Ciò è stato deludente, poiché avevamo lasciato la maggior parte dell’attrezzatura piccola per lasciare spazio alle nostre grandi camme.

Mentre stavamo portando i nostri No. 4 a fare una passeggiata sul Fitz Roy, il sole splendeva e le rocce volavano giù per la parete tutt’intorno a noi. Fortunatamente, il percorso è così ripido che le rocce sfioravano la parete prima di colpire il ghiacciaio. Le condizioni di quella stagione erano surreali. La Patagonia è rinomata per la durezza delle sue tempeste, e ora era il bel tempo a rendere le cose difficili. Molti incidenti si erano verificati nei giorni precedenti la nostra scalata, e Michi e io avevamo operato assieme alle squadre di soccorso. In seguito, entrambi stavamo facendo dei giochi mentali.
Dopo otto tiri di fessure sottili (arrampicata artificiale, semplicemente dura) decidemmo di ritirarci. Scherzando, dicemmo che sarebbe stato più facile con il ghiaccio sulla via. “Dovremmo tornare in inverno”, dicemmo. Che idea folle: nessuno in giro, nessuna tragedia tranne forse la nostra, nessuna controversia, nessuna caduta sassi: più ci pensavamo, meglio ci sembrava.
Nel luglio 2012, ho preso Michi a Calafate e ci siamo diretti a Chaltén attraverso l’estepa ghiacciata. Non ero mai stato a Chaltén in inverno e non avevo idea di cosa aspettarmi. Le colline attorno alla città erano coperte da una spolverata di neve. Era tutto tranquillo. A parte la manciata di persone che vivono a Chaltén tutto l’anno e qualche operaio edile del nord, non c’era nessuno in giro. Era fantastico avere la tranquillità per concentrarci sul compito da svolgere. Avevamo bisogno di pace e tranquillità per affrontare le sfide future.
Nonostante la serenità che abbiamo percepito in città, le condizioni si sono dimostrate difficili. La prima volta che abbiamo portato l’attrezzatura al nostro campo base a Paso Superior, c’erano due metri di neve fresca sul terreno e il percorso era accidentato (anche se la discesa con gli sci è stata surreale). La seconda volta che siamo saliti, la neve si era trasformata in ghiaccio. Abbiamo trascorso quattro giorni sulla parete e siamo saliti solo di cinque tiri più in alto rispetto all’estate, nonostante tutta l’attrezzatura extra che avevamo e la nostra conoscenza del percorso. Ci siamo ritirati prima che arrivasse il maltempo.
Questo tentativo invernale è stato duro, ma è stata probabilmente la più grande esperienza di arrampicata che abbia mai vissuto in Patagonia. Eravamo del tutto soli, e sembrava come doveva essere la Patagonia 50 anni prima. In effetti, è stato un viaggio così bello che abbiamo deciso di darci un’altra possibilità, ma questa volta in estate, dato che le condizioni invernali non si erano rivelate poi così utili.
Ho incontrato di nuovo Michi a novembre. Un altro tentativo, e basta. Avevamo trascorso molto tempo insieme nel 2012, e ci sentivamo molto preparati. Durante la nostra prima finestra meteo, abbiamo raggiunto il Paso Superior solo per renderci conto che la parete era in condizioni peggiori di quelle che avevamo visto in inverno, e le corde che avevamo nascosto erano sparite. Ci sentivamo come se fosse finita. Siamo tornati in città, e dopo un bel po’ di malumore ci siamo ripresi e abbiamo aspettato la successiva finestra meteo favorevole, che è arrivata tre giorni dopo.
In inverno, avevamo capito che la parte inferiore del percorso era abbastanza riparata da poter essere scalata anche in caso di maltempo, quindi abbiamo colto l’occasione quando le previsioni davano solo pochi giorni di bel tempo. Ci siamo avvicinati alla parete in condizioni tempestose. Una volta in parete, nevicava e il vento ululava, ma intorno a noi l’aria era ferma. Quali sono le probabilità di poter scalare in tali condizioni in Patagonia? A ogni tiro guadagnavamo terreno. Sembrava di barare. Alla fine, ci stavamo muovendo.
Abbiamo trascorso quella notte sulla Ledge of Hope, un nome che avevamo coniato molto più in basso, mentre esploravamo il percorso, quando ci è sembrato che il terreno sopra la cengia potesse essere più facile. Qui abbiamo trovato ben poco conforto, ma molta speranza per la scalata che ci aspettava. Il camino che avevamo temuto da quando l’avevamo visto per la prima volta durante il nostro tentativo invernale, una scaglia spalancata che temevamo potesse essere inproteggibile, si è rivelato avere una fessura da pugno nella parte interna. Dopo 40 metri di arrampicata relativamente facile, siamo riemersi sulla parete. In alto, una crepa molto sottile, lunga circa 20 metri, scompariva in un diedro liscio. Ma ancora una volta siamo stati fortunati: un incredibile dicco arancione (striscia di roccia intrusiva, NdR) conduceva verso diedri più invitanti sulla destra. Dopo un po’ di arrampicata libera, un po’ di passi con sky-hook e un grande pendolo, abbiamo raggiunto i diedri: sui nostri volti campeggiava un grande sorriso. Avevamo studiato questa parte della parete davvero intensamente nelle nostre foto: non potevo credere che fossimo finalmente arrivati.
Ora le fessure erano più profonde e, sebbene la scalata non fosse in realtà più facile, eravamo più rilassati sapendo di avere un’attrezzatura adeguata. Verso le 22 raggiungemmo la seconda cengia della scalata. Ci sentimmo grati per quel piccolo spazio orizzontale, sapendo che non avremmo dovuto dormire appesi nei nostri zaini. Dopo aver pulito il ghiaccio che ricopriva la cengia, preparato l’acqua e mangiato la nostra polenta, all’una di notte andammo finalmente a dormire.
La mattina dopo, quando ho guardato giù dalla nostra piccola cengia, mi sono reso conto che potevo ancora vedere il primo tiro della scalata: è raro sul Fitz Roy trovare una scalata così verticale. Abbiamo ricominciato a scalare con il sole alle nostre spalle. La parete è diventata meno verticale e il terreno più facile. Quando ci siamo uniti alla via Ferrari-Meles, abbiamo deciso di lasciare un po’ di attrezzatura su una cengia per raggiungere la vetta più velocemente. È stato un errore enorme. Mentre avanzavamo, la parete è diventata di nuovo molto ripida e avevamo appena lasciato indietro la nostra attrezzatura da artificiale. Ma ce l’abbiamo fatta ugualmente. Dopo sei tiri sulla Ferrari-Meles, abbiamo deciso di cercare roccia migliore e terreno più facile più a destra. La roccia è migliorata, ma scalare non era certo facile. Dopo altri cinque tiri di arrampicata mista impegnativa ma divertente, siamo arrivati in cima a soli 50 metri dalla vetta.

Non mi ero mai sentito così felice su una vetta prima. Ero stato affascinato da questa scalata per tre stagioni e ci eravamo riusciti senza lasciare spit o usare corde fisse. Tuttavia, l’euforia della vetta durò poco perché ancora dovevamo scendere. Dovevamo farlo lungo il Pilastro Est per recuperare l’attrezzatura che avevamo lasciato lì. Ci sembrava rischioso scendere in quel modo, ma eravamo curiosi di questa salita non ripetuta. Avevamo sentito dire che c’era un sacco di attrezzatura abbandonata lungo il percorso e ci aspettavamo di trovare ancoraggi fissi lungo il cammino in discesa, ma alla fine abbiamo scoperto solo tre soste di calata. Mentre continuavamo a scendere nella notte, abbiamo dovuto costruire i nostri ancoraggi di calata per tutto il percorso. Era verticale e pregavamo a ogni calata che le nostre corde non si impigliassero. Abbiamo raggiunto la base del percorso alle 6 del mattino, dopo 24 ore di movimento.
Solo mentre camminavamo verso Paso Superior, intontiti, abbiamo potuto guardare indietro al muro e capire che il nostro sogno si era avverato. Avevamo scalato questo muro enorme, questo mare di granito, un mar de sueños.
Sommario
Prima salita di Un Mar de Sueños (“Un mare di sogni”, 1200 m, 7a A3 M4) sulla parete est del Fitz Roy, da parte di Jorge Ackermann (Argentina) e Michael Lerjen-Demjen (Svizzera), dal 14 al 17 novembre 2012. I due hanno scalato 23 tiri a sinistra della via del Pilastro Est (Ferrari-Meles, 1976), poi si sono uniti a quella via per sei tiri, quindi hanno deviato a destra per altri cinque tiri per raggiungere la cima. Hanno bivaccato due volte lungo il percorso e poi durante la notte si sono calati in corda doppia dal Pilastro Est per scendere.
Informazioni sull’autore
Jorge Ackermann, 26 anni (nel 2013), è cresciuto a Bariloche, Argentina, ma ora vive in Canada per gran parte dell’anno. “La mia passione è arrampicare e scoprire nuovi posti per l’arrampicata, ma ogni tanto ho bisogno di staccare dal mondo dell’arrampicata“, dice. “Lavoro come falegname fuori stagione e mi piace molto lavorare con il legno e risolvere problemi di costruzione“.
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#2: bellissimo!!! Mostra che di una spedizione la salita è solo una parte….
Perle d alpinismo racchiuse in contenitori semplici condita con modestia e umiltà…bello…sia il testo del articolo con foto super, sia il video proposto da Cominetti che trovo un opera magistrale ;grafiche, regia, musiche insomma todos.
Grazie bella proposta!
Mondi lontani nello spazio e nel tempo…senza link e senza like.
Bellissimo e avvincente racconto, ricco di modestia ma anche di tanta voglia di fare, di scoprire. Conoscevo il pilastro est per aver letto della via di Casimiro Ferrari, ma non sapevo di questa altra fantastica linea.
In questa frase, c’è l’essenza dell’alpinismo.
Provare per credere: https://youtu.be/LIU13_lASbs?si=1KDrMNUkFxYYfK_s
È la prima volta che leggo dell’alpinismo argentino che ha la sua comunità locale, le sue riviste e i suoi ritrovi in un mondo a parte. Lo sapevo da decenni e ho sempre pensato che alcuni degli alpinisti più forti e determinati al mondo fossero proprio in Argentina.
Ma restano nel loro mondo senza essere noti al grande pubblico. Meglio per loro.