Metadiario – 52 – La parete est della Seconda Pala di San Lucano (AG 1974-002)
Ho già avuto modo di dire che, dopo la tragedia dell’Annapurna, il contatto con l’Italia e con il mondo di sempre fu assai violento: mi pareva una situazione senza speranza. Due amici con i quali ebbi un po’ di sollievo, Gian Piero Motti e Piero Ravà, mi aiutarono, ma purtroppo senza grande successo. Come pure inservibili erano le mie occupazioni, le conferenze, le monografie per Tamari, le fotografie. Cercai disperatamente di reagire tentando di dedicarmi ai due bambini di Leo: non ci riuscii. Pensavo di ritornare in montagna, ma all’inizio ne provavo solo disgusto. In quei mesi è venuto a galla tutto il mio essere. Mia madre era morta e così mia nonna e così Paolo Armando e Andrea Cenerini: fantasmi che quasi non mi toccavano. Poi sono scomparsi Miller Rava e Leo Cerruti, e con loro il mio «credo» nella montagna. Cosa mi era rimasto? Non capivo perché mi fosse svanita anche la fiducia in me stesso, mi sembrava che le persone più vicine mi considerassero un estraneo, mi mancava la capacità di dare qualcosa agli altri, mi sentivo lentamente perdere. Sentivo quanto fosse difficile improvvisarsi generosi, anche se mi era chiaro che una vita solo per sé è sbagliata e porta soltanto all’autodistruzione.
Con le prime uscite sulle montagne di casa, assieme a mia moglie e alla nostra cagnolina, cominciò a sfiorarmi che forse avevo ancora delle carte da giocare, alcune buone. Certo avevo idee, e avevo ancora chi mi aiutava. Forse dovevo solo essere più umano.
Il 24 marzo 1974 mi misi d’accordo con Vasco Taldo, e ci ritrovammo a salire in tre ore la via Boga alla Corna di Medale. Come ricorderete, lui si era trattenuto al campo base dell’Annapurna con Gianni Calcagno, Guido Machetto e Carmelo Di Pietro per documentare le loro eventuali ulteriori gesta, mentre io con gli altri tornavo a casa. Sapevo perfettamente che Vasco avrebbe voluto essere con noi invece che rimanere lì a recitare un ultimo atto senza storia e senza vero perché. Parlammo molto di quell’esperienza che ci aveva segnati entrambi, senza mai scadere in giudizi negativi sui tre amici. Quella era stata la storia e cercavano di farcene una ragione. In ogni caso lo sentivo vicino: ed era proprio ciò di cui avevo più bisogno.
Il 4 aprile andai con Giovanni Favetti alla Pala del Cammello, sopra a Lecco, per salire la via Anghileri-Corti, terza ripetizione. Questa è una via assai dura, che feci pieno di ammirazione per l’amico Aldo. Giovanni l’avevo conosciuto non ricordo più dove, sapevo che era un forte secondo di cordata e mi dava fiducia. Infatti quella primavera avremmo fatto parecchie cose assieme. Il suo modo di agire e i suoi discorsi erano semplici, pratici. Difficilmente protestava e accoglieva con entusiasmo qualunque mia idea. Sulla Pala del Cammello intendevo metterlo alla prova, e lui superò brillantemente l’esame.
Mi erigo il monumento
Di quel periodo buio è un inedito che avevo intitolato Le mie prime e che qui di seguito voglio riportare integralmente. Era il febbraio 1974, le ferite dell’Annapurna faticavano a richiudersi perché in effetti continuavo ad agitarmi nell’idealismo maniacale della “prima”. Erano gli ultimi sussulti. Infatti si erigono i monumenti proprio quando c’è l’esigenza interiore di dimenticare più in fretta. Avevo avuto il cattivo gusto di spedirlo alla redazione di La montagne et alpinisme, ma per fortuna non fu mai pubblicato. Ho messo in “tondo” le espressioni che più mostrano il fanatismo per l’idea e più sono intese a celare la competizione.
Quel fanatismo mascherava anche una grande insicurezza. Già, forse qualche lettore s’infastidirà a leggere ciò che io stesso non approvo più, però dovrebbe ricordarsi che è molto facile fare un certo tipo di dichiarazioni e di critica sulle idee degli altri mentre è molto più raro e più difficile sondare nel proprio passato, con il rigore che si userebbe se il passato fosse altrui. E quindi posso e devo confidare nella sua benevolenza.
Le mie prime
(febbraio 1974)
Nonostante che si sia parlato del più grande, dell’ultimo, del massimo problema delle Alpi, su questa catena montuosa ogni anno continuano ad essere aperti nuovi itinerari, le più difficili vie sono percorse da uomini solitari, i più repulsivi canaloni e le più nascoste pareti sono vinte da agguerritissime cordate nella stagione più rigida.
Cioè si attribuisce ancora un’importanza essenziale alla parola “prima”.
Ci sono (o c’erano) i problemi che s’impongono da soli, evidenti, e ci sono quei problemi più nascosti, che celano la loro originalità in valloni o in angoli poco frequentati, invisibili e poco nominati. L’ambizione, l’intelligenza, l’amore per la natura e per l’avventura danno luogo alla forza creativa necessaria per affrontare le difficoltà, la paura, la sofferenza: ma la loro combinazione in maggiori o minori quantità, il prevalere di anche uno solo dei loro aspetti particolari definiscono le differenze estetiche (non sportive) delle varie prime. Occorre cioè cercare di isolare il problema in una delle due classi precedenti.
Il mio alpinismo ha sempre ricercato la “prima”, ma la mia preoccupazione è stata anche di trovare “prime” valide, che avessero una ben logica giustificazione e che non si chiamassero tali solo per il fatto che di lì non era mai passato nessuno. Non cioè “prime” ad ogni costo, ma ragionate, scelte, da me apprezzate per determinati valori quantitativi e qualitativi. I risultati di questa mia ricerca spesso sono mancati: vuoi per imprese fallite, vuoi per errori di valutazione iniziale di un certo aspetto estetico del problema.
Nel dicembre 1966 salii con Paolo Armando lo spigolo sud-est del Dente del Gigante, la via di Arthur Ottoz e Sergio Viotto. L’importanza che attribuivo io personalmente a questa impresa superava di gran lunga un’eventuale importanza di carattere generale: era ormai un dettaglio, dopo tante magnifiche invernali effettuate negli anni precedenti su pareti ben più impegnative. Per me comunque era la scoperta di un alpinismo nuovo.
E fu così che, ancora con Paolo Armando, affrontai nel 1967 i 400 metri della scorbutica parete nord-est dello Scarason, una montagna delle Alpi Liguri. Ritengo questa la mia più difficile salita in roccia. Si trattava di una parete completamente inviolata e avevamo intuito che, soprattutto per la friabilità della roccia, là sopra avremmo potuto compiere qualcosa di più difficile di tutto ciò che fino ad allora avevamo incontrato su roccia dolomitica o granitica nelle nostre tante ripetizioni. Ciò ovviamente non esclude che gli stessi progressi potessero essere effettuati nello stesso momento in altre regioni delle Alpi da altri alpinisti; rimane però la constatazione oggettiva e la soddisfazione personale di aver contribuito anche noi all’avanzamento della vera capacità arrampicatoria, senza uso di chiodi a pressione e su una parete completamente sconosciuta.
A cavallo tra il 1967 e 1968, in tredici giorni di arrampicata, fu la volta della prima invernale alla via Cassin del Pizzo Badile.
Questa celebre via era l’unica, tra le grandi pareti del sesto grado classico, a non aver avuto ancora una ripetizione invernale, a causa soprattutto della sua mancanza di verticalità che favorisce la formazione di un’unica crosta ghiacciata dalla vetta fino alla base. Era perciò evidente il problema: s’imponeva da solo, e per di più tante cordate lo avevano già tentato. Alla stessa categoria appartiene la prima solitaria allo Sperone Cassin sulle Grandes Jorasses, che ebbi la fortuna di compiere nel luglio 1968, e la prima solitaria (giugno 1969) della via Devies-Lagarde alla Punta Gnifetti del Monte Rosa. Quest’ultimo è il più elegante itinerario sulla più alta parete delle Alpi. La tentazione era veramente forte!
In seguito non feci più solitarie. Dopo quelle grandi di Reinhold Messner, René Desmaison, Patrick Cordier, Jean-Claude Droyer, e tanti altri ero sicuro che ci fossero altri molto più in grado di me di continuare la ricerca. Solo allora ho capito che, forse anche per riflessiva maturazione, la “prima solitaria” è la meno alpinistica e la più sportiva di tutte le prime, proprio perché pone in competizione più con se stessi e con gli altri che non con la montagna con le sue vere e oggettive espressioni problematiche estive e invernali.
Mi sembrò di raggiungere veramente il massimo nella categoria del “sempre più difficile” e “più evidente” salendo con Leo Cerruti il Naso di Zmutt al Cervino nel luglio 1969. Una vera e propria parete di 1200 metri con tetti e strapiombi, incastrata nella più esemplare montagna delle Alpi, in normale stile alpino e come al solito senza chiodi a pressione.
La prima invernale della nord-est della Grivola (gennaio 1970) fu compiuta da me e dai miei quattro compagni (Guido Machetto, Gianni Calcagno, Leo Cerruti e Carmelo di Pietro) più che altro per allenamento, senza una precisa scelta di valori.
Nel gruppo delle Pale di San Lucano, in Dolomiti, andai più volte in vera e propria esplorazione: non credo infatti esista una catena di montagne così sconosciute, con altissimi spigoli e pareti.
Nel giugno 1970 la Sud-ovest della Seconda Pala, con Leo Cerruti, 1400 metri di parete, due bivacchi. Nel maggio 1972 la Sud della Terza Pala, con i Ragni di Lecco Piero Ravà, Aldo Anghileri e Gianluigi Lanfranchi, 1500 metri di parete, due bivacchi. Ambedue le imprese alla ricerca di nuovo terreno sul sesto grado in ricerca non infruttuosa, dati i risultati e soprattutto per le possibilità intraviste per il futuro nello stesso gruppo.
La direttissima sulla Sud della Marmolada di Rocca, con Almo Giambisi, Alberto Dorigatti, Bruno Allemand (agosto 1970) rientra nei problemi per “sentito dire”. Il suggerimento arriva da non ben precisate origini, si verifica l’estetica del problema, si decide di attaccare e, fortuna aiutando, si arriva in vetta, constatando di aver realizzato forse una delle più belle vie delle Dolomiti, con pochi chiodi, nessuno a pressione, con una dirittura e una logicità sorprendenti. È l’unica via sulla Sud della Marmolada che possa essere ripetuta anche dopo giorni di cattivo tempo: all’uscita infatti si arrampica su un lunghissimo spigolo e non sui soliti canaloni intasati di ghiaccio o d’acqua. Febbraio 1971: dopo sei giorni di continua arrampicata, Guido Machetto, Gianni Calcagno, Bruno Allemand ed io siamo costretti a fermarci in vetta al Pilier d’Angle da una bufera violentissima. Mentre Serge Gousseault muore sulle Grandes Jorasses, noi quattro al nono giorno siamo recuperati al Col Peutérey da un elicottero della Gendarmerie francaise. È la fine di un sogno a lungo accarezzato, l’integrale di Peutérey d’inverno, la “Grande Cresta”. Un sogno condiviso da molti, un problema evidente. Sono i tristi ricordi che ogni alpinista ha, e a nulla può valere la consolazione di essere arrivati in vetta al Pilier d’Angle e aver così superato i 7/8 della salita. Tutti abbiamo applaudito al merito di Yannick Seigneur, Michel Feuillarade, Louis Audoubert, Marc Galy e Arturo e Oreste Squinobal nel dicembre 1972.
La mia ricerca è continuata. Nel luglio 1971 la direttissima sulla Nord-ovest della Cima di Terranova, con Alberto Dorigatti, Aldo Leviti e Heini Holzer: le intenzioni sono le stesse della Marmolada di Rocca, con la differenza però che questo problema è stato individuato da noi e si svolge purtroppo a non molta distanza dalla via Gabriel-Livanos-Da Roit.
Nel luglio 1972, con Piero Ravà e Aldo Anghileri saliamo lo spigolo nord-est della Brenta Alta: una lotta durissima, dove la posta in palio era il raggiungimento della linea perfetta su una direttiva naturale, il tutto però a settanta metri o poco più dalla via Detassis.
Poi nell’agosto 1972 la Sud delle Grandes Jorasses, con Guido Machetto. Tre giorni per la parete rocciosa più alta del Monte Bianco: 1500 metri fino ad allora rimasti praticamente inosservati, su una parete esteticamente soddisfacente.
Poi, ancora nello stesso mese, con Miller Rava, la direttissima sulla parete nord-est della Punta Leschaux, meticolosa correzione moderna della storica via di Cassin.
Vorrei concludere queste note con un mio giudizio sulle prime dell’estate 1973. Tra le tante segnalate, tutte validissime, la più sorprendente, quanto improvvisata, è stata compiuta da Dominique Roulin, che dopo aver salito da solo la Nord dell’Aiguille Bianche, incontra per caso i suoi amici coniugi Yvette e Michel Vaucher e se ne va con loro al Pilone Centrale! La più diabolica è di Guy Dufour e Jean Frehel che sezionano veramente il capello in due e salgono sul Pilier d’Angle tra la Cecchinel-Nominé e la Bonatti-Zappelli. A quando il superamento diretto del seracco centrale? Tipicamente teutonica la Superintegrale di Peuterey, con l’acquisizione cioè del Mont Rouge de Peuterey e di alcune Dames Anglaises, dei germanici Gottlieb Braun-Elwert e R. Kirmeier.
La conclusione è che avremo ancora “prime” per molti anni sulle Alpi. Diventa però sempre più difficile una scelta, una valutazione: sarà meglio affidarsi per il futuro all’improvvisazione di Roulin, alla sistematicità di Braun-Elwert e Kirmeier o alla precisione geometrica di Dufour e Frehel?
La parete est della Seconda Pala di San Lucano
Sulle Pale di San Lucano avevo già salito le due pareti meridionali della Seconda e della Terza Pala, nonché tentato due volte la Sud della Quarta. In tutti questi andirivieni non mi era sfuggito che la Est della Seconda, pur essendo meno evidente e più discreta, era là ancora da fare: e quanto a dimensioni e bellezza non sembrava avere nulla da invidiare alle altre. Insomma, era un vecchio disegno quello della parete est. Non sapevo ancora che quella primavera sarebbe stata un’orgia di «prime»: la parete est della Seconda Pala di San Lucano fu un aperitivo di 1200 metri alla più problematica parete sud della Quarta.
Nel dicembre 1973 ero stato a fare una conferenza alla Società Alpina delle Giulie, a Trieste, la città ormai da un anno e mezzo orfana di Enzo Cozzolino. In quell’occasione avevo conosciuto uno dei suoi compagni, lo studente di filosofia Flavio Ghio. Dalle poche parole scambiate con il taciturno Flavio, avevo capito quanta intelligenza e quanta passione albergassero in quel ragazzo. Con il quale scambiammo indirizzo e numero di telefono, in previsione di possibili nuove avventure assieme.
E l’occasione si presentò ai primi di aprile, il mese giusto per le salite in San Lucano. Non ci volle nulla a convincerlo, a già alle prime battute al telefono fu chiaro che Flavio sarebbe stato con me e Giovanni Favetti nel tentativo alla Est della Seconda Pala.
Iniziammo la marcia d’avvicinamento nel canale al mattino presto (ore 5.30) del 7 aprile 1974. Raggiungemmo l’attacco per l’innevato fondo del Boràl della Besàuzega, evitando il salto finale e strapiombante del Boràl del Mul per le rocce dello zoccolo della parete est, e quindi rientrando nel canale del Boràl fino alla cengia ascendente a sinistra, proprio sotto agli strapiombi nord del Campanile della Besàuzega. Al termine della cengia ci calammo sul cengione alla base della parete e lo percorremmo per circa 300 m in direzione sud fino all’attacco vero e proprio (in seguito i ripetitori trovarono un altro accesso più comodo e logico del nostro). Individuammo l’attacco in base al punto di minor resistenza, sulla sinistra della verticale del grande diedro fra i gialli che caratterizzano la parte alta. Erano le 11.15.
La via non si rivelò difficile. Pur aumentando le difficoltà gradualmente, tutte le prime lunghezze sono sull’ordine del III grado, arrivando al V solo in pochi casi. Fu la undicesima lunghezza il tratto chiave, ma anche questa non superava il V grado, anche se continuo. Era un diedro giallo abbastanza caratteristico. Flavio ed io ci alternavamo ogni tanto al comando, io con i miei rigidi scarponi Galibier, lui con delle scarpe da pallacanestro, forse ancora quelle della via dei Fachiri alla Cima Scotoni. Con questa lunghezza raggiungemmo la bella cengiona con mughi alla base dell’ultimo risalto: qui si poteva dire che avevamo la parete in tasca. Ma erano le 18, dunque decidemmo di bivaccare, preferendo rimandare al mattino dopo le ultime lunghezze e la marcia nella neve per scendere. Avevamo neve in abbondanza per la cena.
Sopra di noi una specie di spigolo caratterizzava l’ultimo rossastro settore: alla sua destra una specie di rampa suggeriva l’evidente prosecuzione sugli ultimi 100 metri o poco più di parete. Calato il silenzio tra di noi, riflettevo che anche quattro anni fa ero qui vicino, sulla Sud-ovest, anche allora a cento metri dalla cima: ma ora il mio compagno non c’era più. Nella notte mi illusi che il tempo non fosse mai passato.
Dopo una comoda notte, il mattino dopo, sempre con tempo bellissimo, affrontammo serenamente le ultime tre lunghezze che ci portarono sull’innevata vetta della Seconda Pala di San Lucano. Erano le 9 di mattina.
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Buttali via i rigidones di pelle speciale :si trovano in commercio pure nel 2020 e costano un’occhio. Piu’ che altro sono pesantones..ormai il rigido nelle scarpette si ottiene con intersuola di fibra di carbonio. Chissa’ se troveranno la gomma effetto geko…intanto ce stanno a provà. C’e’ del buono nella chimica e scienza dei materiali.
Sbirciate a naso in su le pareti Valle san Lucano in 21 febbraio 2020..una desolazione di tronchi schiantati..poi il lockdown..come lama di ghigliottina.
sono delle belle e difficili prime, forse una certa delusione che si percepisce è che, in fondo, il problema della parete era già stato risolto da altri?
Ben diverso quindi la prima allo Scarason dove la parte era tutta vostra.
Profondo, bello. Bello il testo. Certo non bello aver attraversato quel periodo. Notare cosa si riusciva a fare con i rigidones…