Metadiario – 53 – Lo sperone sud della Quarta Pala di San Lucano (AG 1974-003)
Nelle Pale di San Lucano occorre dimenticarsi che il gruppo è tra i più dimenticati delle Dolomiti, anche perché geograficamente e alpinisticamente piuttosto selettivo; non ci si deve preoccupare della severità degli approcci, con zoccoli infiniti; qui c’è la wilderness allo stato puro.
Nelle Pale di San Lucano si respira l’aria delle Dolomiti, ma non quella fritta dei depliant e di certi libri illustrati, degli accordi con gli uffici turistici, delle proposte turistiche integrate, delle iniziative per lo sviluppo: si respira l’aria dell’alpinismo vero, quello che senza saperlo e senza alcuna colpa è stato il “peccato” che ha originato l’attuale sistema di proposte, iniziative e pacchetti che oggi purtroppo ci circondano e suggeriscono i nostri movimenti: un sistema nel quale la montagna è divisa in due senza pietà, quella alta, che conta e che bisogna vendere, e quella bassa, che non conta e che bisogna svendere, alla faccia dei valligiani. Quell’alpinismo fatto di avventura e di ricerca, con tanto sacrificio, con amore, è stato purtroppo padre dell’attuale montagna mercantile e da consumo. Ma quell’alpinismo è ancora al suo posto, e può far decidere a una cordata di salire un itinerario selvaggio, senza nome nel gotha delle grandi salite dolomitiche, senza ricompensa mediatica, senza il supporto di un Internet che applaude già alla tua partenza. Dove si presume che la cordata sappia organizzarsi e scegliere lei ciò che fa per lei. L’assunzione delle proprie responsabilità oggi è merce assai rara, ma qui diventa necessaria.
Basta comprendere bene che qui non v’è alcuna salita inferiore ai 300 metri di dislivello o inferiore al V grado di difficoltà.
Certo gli zoccoli sono brutali, con la loro vegetazione: ma vale la pena affrontarli, con simili pareti al di sopra. Inoltre la selvaggia bellezza dell’intero complesso è tale, che secondo me, giustifica ogni fatica e sacrificio.
In realtà la montagna che sto per raccontare ha un nome valligiano, le Cime del Van del Pèz 2267 m: sono stato io a dare la denominazione di Quarta Pala di San Lucano all’enorme e levigato bastione meridionale che in effetti costituisce il quarto, dopo il secondo e il terzo, della magnifica teoria di precipizi sulla sinistra idrografica della Valle di San Lucano, pareggiata solo dalle ineguagliabili pareti del gruppo dell’Agnèr che invece ne occupano la destra idrografica.
Il profondo Boràl di Lagunaz separa la parte destra di questa grande parete di 1280 metri dalla processione dell’enorme cresta che, tramite lo Spiz di Lagunàz, congiunge la Terza Pala al Monte di San Lucano. A sinistra è invece delimitata dall’incavo del Van del Pèz, dal quale nel 1908 precipitò la spaventosa frana che causò una trentina di vittime e la distruzione degli abitati di Prà e Lagunàz. Oltre l’orrido Van del Pèz è l’ultima grande bastionata, quella della Lastìa di Gardés 2114 m: una specie di “Quinta Pala di San Lucano” sulla quale sono stati tracciati altri valorosi itinerari alpinistici.
Un centinaio di metri a valle delle rovine di Lagunàz percorriamo il canalone sassoso verso lo sbocco del Boràl di Lagunàz. Ricordo bene l’attacco, sulla sinistra del salto verticale e nerastro con cui il Boràl ha inizio, in corrispondenza di un canale erboso, al limite sinistro di un terrazzo. Siamo qui dopo circa 30 minuti di cammino.
Sono le ore 10.15 del 14 aprile 1974: per la terza volta in quattro anni mi trovo all’attacco del gigantesco zoccolo che difende l’inviolata parete terminale della Quarta Pala di San Lucano. Con me sono gli amici Giovanni Favetti e Flavio Ghio, e siamo da pochi giorni reduci dall’aver salito con successo la parete est della Seconda Pala di San Lucano. Anzi siamo ancora eccitati, desiderosi di riuscire a salire questa parete così ostica. Inutile dire che Flavio, ben consapevole della conoscenza che ho di questo zoccolo di 1000 metri, mi cede volentieri il comando. Arrampichiamo tutti e tre in scarponi e zaino sulla schiena, pronti al bivacco sulla grande cengia. Ciò che stiamo salendo è lo zoccolo, coperto di vegetazione, divisorio fra la verticale parete meridionale e le grigie muraglie orientali: questo si esaurisce alla base della parete sommitale, che vorremmo aggirare con accortezza e senza forzature alla ricerca della linea naturale più opportuna.
Il tempo è buono, la temperatura gradevole. Ci si trova subito su uno strapiombetto (V-) per poi proseguire lungo il canale erboso per 50 m (III, passaggi di IV e IV+). Qui un grande strapiombo ostruisce il percorso, allora devio a destra, dove si trovano due fìttoni in ferro evidentemente infìssi in passato dai boscaioli che salivano alla zona di esbosco sovrastante, per poi tornare a sinistra a sostare vicino a un grosso faggio. Traversiamo ora 6 metri a sinistra per poi salire in parete, poi su spigolo (chiodo) e in camino (30 m di V-). Proseguiamo su una rampa ascendente a sinistra, traversiamo brevemente a sinistra e attacchiamo un diedro di 15 m (V-, 1 chiodo di sosta rimasto). Abbandoniamo ora il camino per traversare sulla parete di destra aiutandoci con la vegetazione, fino a giungere al pendio boscoso (IV-, III-), che si risale fino al successivo salto.
Ora, sul filo dello spigolo, c’è un costolone giallastro con a destra un camino, entrambi ben visibili da fondovalle: li evitiamo salendo in diagonale a destra per 40 m (III, III+); una cornice erbosa a destra dopo 12 m ci porta a salire in un canale erboso per 20 m fino ad un faggio, sormontato da uno strapiombo friabile. Questo lo evitiamo sulla sinistra, poi obliquiamo per 40 metri finché la pendenza diminuisce. Poi galoppiamo a lungo fino al successivo evidente salto, seguendo il filo dello sperone; si percorre quindi un canalone erboso che termina in alto con un camino strapiombante e dopo 15 m traversiamo a destra su un forcellino.
Ci troviamo così sullo spigolo che delimita il canalone, lo saliamo (20 m, IV, un passaggio di V+, 1 chiodo rimasto) e proseguiamo di conserva fino al quarto risalto. Saliamo in diagonale a destra per 50 metri finché prendiamo (III) un camino che ci riporterà sul filo dello sperone: percorriamo il camino fino al termine (IV+), quindi continuiamo per il filo dello sperone raggiungendo la sommità del primo avancorpo (quota 1740 m circa; 760 m di dislivello dall’attacco). Scendiamo 10 metri sul versante ovest (III-) fino al forcellino che unisce l’avancorpo alla montagna; superiamo una breve fessura di 3 metri (IV-) e proseguiamo a destra del filo dello sperone per aggirare un masso staccato. Saliti all’intaglio del masso con lo sperone, dopo una spaccata di un metro si sale la parete grigia di 7 metri fino ad un grosso mugo (V+), sorpassato il quale si esce alla base di un bel diedro a destra: che però evitiamo, per salire invece a sinistra dello spigolo (35 m, IV, V, un passaggio di V+, 1 chiodo rimasto). Ormai il grosso è fatto: proseguiamo facilmente nel canale erboso fino ad una spalla; ancora diritti 10 metri per mughi, poi obliquiamo a destra. Superiamo un altro blocco staccato per 10 m (IV+), scendiamo brevemente dall’altra parte; da lì seguiamo a destra una cornice erbosa che ci porta con 2 lunghezze a un canale invaso dai mughi che dopo 50 metri porta ad una grotta.
A sinistra della grotta continuiamo per 15 metri aggrappandoci ai mughi, poi a sinistra per una decina di metri fino a una spalla. Dopo una traversata a sinistra di 20 metri, si sale diritti altri 40 metri (III+, mughi) fino a raggiungere la grande cengia che costituisce la sommità del secondo avancorpo: e solo a questo punto ci si ritrova sotto la levigata e bella parete finale, che mai prima ci è stato dato di vedere bene. Sono le ore 18 e non ci resta che trovare il miglior posto per bivaccare. Non abbiamo difficoltà a trovare un luogo orizzontale, coperto di soffice erba, sul quale stendere i nostri sacchi piuma e cominciare a fare cucina con l’acqua che ci siamo portati.
Siamo in un luogo incredibile, a mille metri da terra, contornati da pareti abissali: il carico che avevamo ci ha provati, nessuno di noi ha voglia di grandi chiacchierate. Anche perché i miei compagni non sono gran che loquaci già normalmente, figuriamoci dopo una sfacchinata del genere. Ci limitiamo a dare un occhio, con l’ultima luce, a ciò che ci aspetta domani. Sembra di poter vedere un itinerario assai logico, con qualche punto problematico.
Il 15 aprile la partenza è alle 6.30, la notte è passata benissimo nel comfort dei sacchipiuma e del terreno morbido.
Sappiamo che ci aspettano ancora 280 metri sconosciuti di parete, però a occhio e croce non potremo salire diritti, lo sviluppo di arrampicata sarà ben superiore.
Intanto ci spostiamo verso l’estremità sinistra della cengia per poi salire obliqui a sinistra fino a un diedrino preceduto da un tetto grigio (III, IV+, V, 1 chiodo rimasto sotto il tetto); il diedro è un osso abbastanza duro (VI), ma riusciamo a uscirne quasi subito sulla sinistra proseguendo per 12 metri (V+, IV) fino ad un terrazzino (45 m). Qui obliquiamo un po’ a sinistra fino a una nicchia dove pianto un chiodo. Dopo averlo munito di cordino e moschettone, scendo 7 metri e pendolo 3 metri a sinistra, fino a fare una sosta su dei piccoli gradini. Traversiamo ancora a sinistra in piena parete sud fino a una cornice erbosa (30 m, IV-, un passaggio di V, 2 chiodi rimasti), poi saliamo verticalmente su roccia friabile a un grosso mugo, fino a una cengia sotto a grandi e gialli strapiombi (35 m, V+).
Finalmente ora possiamo ritornare a destra e facilmente lungo la cengia. Per evitare gli strapiombi gialli dobbiamo continuare a destra per una rampa con fessura (III+). Quando la rampa termina ci si presenta una placca da traversare a destra con molta delicatezza (V+, un cordino rimasto) fino a una cengetta con mughi (30 m). Poi scendiamo un poco e traversiamo a destra per la cengetta (10 m, 1 chiodo di sosta rimasto). Tutto questo traversare è assai logico e costituisce ormai lo stile di questa salita. Dopo qualche metro diritti, infatti, traversiamo ancora leggermente a destra per prendere un diedrino svasato che seguiamo fino ad un terrazzino sotto due caratteristiche fessure parallele (25 m, V+, un passaggio di A1). Flavio attacca la fessura di sinistra e dopo 5 m traversa in quella di destra che percorre fino ad uscire in una zona più coricata, alla base dei camini terminali (25 m, V+, un passaggio di A0, 1 chiodo rimasto).
Nelle traversate assurde di questa via, e nell’ansia di riuscire a trovare un passaggio, non sono sereno, anzi penso che sto finendo. Vedo in Flavio il giovane in scarpe da tennis che non ha ancora i miei problemi, ma non provo neppure invidia. Cosa ci sono venuto a fare qui? Per il mio piacere personale, per gli amici, per dimostrare che sono ancora vivo? Quale piacere, quali amici… quale vita? I passaggi si sgranano sotto di me, ma non c’è più il vecchio sapore di conquista. È scontato, è privo di senso. Questa è solo pietra inutile e potenzialmente criminale.
Flavio prosegue diritto per un caminetto, ma poi traversa ancora una ventina di metri a destra su placche (45 m, III e III+). Ormai è chiaro che abbiamo la salita in tasca: anche se un po’ di nebbia ci fa vedere ciò che abbiamo intorno solo a tratti, tutto ci sta parlando di vetta vicina. Saliamo a destra per lo spigolo, poi obliquiamo sulla sinistra per prendere un camino-diedro (III, IV); usciamo sulla parete di sinistra del diedro (V-) e continuiamo fino ai mughi (45 m). Traversiamo a destra per 40 m su placche inclinate (II), poi ecco le ultime due lunghezze, con una placca fin sotto a un tetto (V) e successivo canale a destra con mughi che porta in vetta.
Sono le 17.15. Negli sprazzi di visibilità percepiamo il clamoroso abisso della Valle di San Lucano e la vista maestosa sulla dirimpettaia catena dell’Agnèr: ma ancora più stupefacente è la visione delle vicine pareti occidentali della Terza Pala, della Torre e dello Spiz di Lagunàz, quest’ultimo dominato dalla perfetta incisione del futuro grande diedro di Renato Casarotto. Un vuoto che sgomenta e un colpo d’occhio che non si scorda. Tutte queste sensazioni giustificano ampiamente i nostri sforzi: molti dei miei pensieri negativi si squagliano.
Passeranno otto anni prima che questa via, di VI e A1, sia ripetuta. I primi saranno Ilio ed Ettore De Biasio, il 3 aprile 1982, che misureranno uno sviluppo della parete terminale di 460 metri. La terza ascensione sarà di Ivo Rabanser e Adam Holzknecht, il 19 maggio 2003 (in 6 ore). Tanti altri itinerari saranno aperti su questa parete, il primo quello di Renato Casarotto e Piero Radin, la diretta della parete sud, dal 23 al 25 maggio 1974.
Ci buttiamo giù in discesa verso la Forcella di Gardés 2006 m, su terreno facile e nevoso. Da qui inizia la nostra lunga marcia per raggiungere Col di Prà.
Dopo una cena alla Baita del Tita Bona, per fortuna non troppo a lungo protratta dalle libagioni, Flavio prende la sua auto e si dirige a Trieste. Noi saliamo sulla mia BMW rosso fiammante e, per non dormire, ci stordiamo fino a Milano con le musiche dei Led Zeppelin e dei Pink Floyd.
10Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
@Paolo
GB?
Fabio!!! Piuttosto mi calo in doppia dal grattacielo dell’Unicredit! E già mi sono sorbitol i ridenti Lidi Ferraresi (dal momento che vivo prigioniero nella più bassa e lontana dalle montagne città d’Italia, Ferrara).
Ma sono fuggito rifugiandomi tra impenetrabili paludi. Anzi, mi permetto una anomala anticipazione: pare, forse, che vi porterò tutti a spasso tra gli acquitrini proprio qui sul GB. Avventura ma in orizzontale. 🙂
già.
quando la mente è affollata
e la ragione prende il sopravvento.
Paolo, colgo in te un leggerissimo tono di protesta, intollerabile.
Per punizione, subito a leggere per venti volte UrbanWall (per gli ultimi italiani irriducibili: Muro Urbano oppure Muri in Città oppure Pareti in Città). A seguire, un riassunto di almeno una pagina. E per finire, interrogazione generale in lingua inglese sulle ultime tendenze.
In caso di bocciatura, prossimo agosto a Gabicce Mare.
Montagna.
Boccate di ossigeno. Grazie!
Bel racconto Alessandro, grazie per condividere questo con noi 🙂