Metadiario – 120 – Verdon 1984 (AG 1984-002)
Tanto erano belle ed emozionanti le trasferte da Milano a Torino, tanto erano tristi i ritorni in via della Ghisolfa 26, a Rho. Dell’autostrada A1 conoscevo ormai ogni metro, ogni cartello. Tanto mi dava sollievo l’abitare fuori Milano e dunque il poter guadagnare in pochi minuti il pedaggio del casello, altrettanto mi abbatteva il ritrovarmi la domenica sera alla fine dell’autostrada, di notte, e dunque la consapevolezza che dopo pochi minuti ancora una volta sarei stato prigioniero di quelle quattro mura senza personalità. Ancora una volta a contatto con quel me stesso che non mi piaceva.
Al cuore non si comanda, dicono. Già, è facile dirlo, ma io avrei voluto comandarlo eccome…
Che cosa mi aveva spinto a mollare una donna con la quale, tra alti e bassi, ero stato tredici anni assieme, con la quale condividevo gli stessi gusti, il medesimo stile di vita, nonché aspirazioni e sogni? E che certamente, a modo mio, amavo. La risposta sembrerebbe semplice: un’altra donna.
Ma non mi bastava sapere che anche con Anne-Lise condividevo molte emozioni: c’era infatti un’attrazione oscura, per nulla solare, che a volte percepivo un po’ diabolica.
Poi c’era la competizione con un altro uomo, e questo falsava ogni percezione, perché tutte le volte che io dicevo “ti amo” alla fine di una mia auto-analisi impietosa l’affermazione si rivelava falsa. Non menzognera, no. Semplicemente non vera. Ti amo era ciò che avrei voluto che fosse e il dubbio che non fosse vero nasceva dalla situazione imbarazzante in cui mi trovavo a vivere. Era come se io mi scoprissi a rivelare a me stesso che non poteva essere che io l’amassi così tanto, quando lei non era sulla mia stessa lunghezza d’onda.
Quella sensazione di non-verità in effetti alla fine mi avrebbe salvato, ma io non lo sapevo ancora.
Una delle motivazioni per le quali Anne-Lise, almeno a parole, non voleva impegnarsi con me era la pressoché sua totale sicurezza che io non volessi fare figli. Spalleggiato da Ornella, in effetti fino a quel momento avevo vissuto in quella modalità, il rifiuto a riprodurmi. Probabilmente lo avevo anche affermato in presenza di Anne-Lise. Fatto sta che lei lo prese come motivo per stare con me in modo del tutto provvisorio, rimandando ad altro momento il diventare grandi e prendere finalmente delle decisioni.
Perciò mi spinsi ad affermare il netto contrario. Le dissi che se finalmente avessimo deciso di avere un futuro assieme, sarei stato ben lieto di desiderare un figlio da lei, quando ovviamente lei fosse stata pronta. Espressi questo chiaro concetto più di una volta, nelle nostre discussioni come nei momenti più intimi. Non bastò.
C’era un bel ponte pasquale con la festa del 25 aprile. Ne approfittammo per andare in Verdon. Non ero mai stato in Provenza con lei e quella vacanza prometteva davvero grandi cose. E in parte le mantenne. Di notte in furgone potevamo stare davvero assieme, di giorno si arrampicava, a volte separati.
Gli amici non erano i miei soliti, nessuno era di Milano. C’erano invece molti amici di Torino, ma anche di Lecco e di Bergamo.
La via sulla quale ci gettammo il primo giorno (22 aprile 1984) fu l’Ange en decomposition, un po’ troppo difficile per me, almeno per pensare di salirla in libera. In realtà volevo fare delle belle foto a Marco Ballerini, anche lui testimonial Francital. Accanto a destra, su Fenrir, arrampicava Renato Pirona (di Bardonecchia) con un compagno. A me fece da capocordata niente meno che il Camòs, quel Bruno Tassi già noto allora per la sua generosità e per le sue stranezze. E con il quale, dal pomeriggio alla sera, era bello attardarsi nelle libagioni. Seguivano il Bàllera (Marco Ballerini) e Roberto Red Crotta.
Il giorno dopo fu la volta di Fenrir. Questo era un desiderio di Anne-Lise, e naturalmente fui lieto di fare quella via, anch’essa leggermente superiore al mio livello. Ci calammo nel solito vuoto spaventoso fino al Jardin de Toujourjamé, poi risalimmo le sette lunghezze della via cedendo all’artificiale già da subito sul primo tiro di 7a, ma soprattutto sul terzo di 7c+… Non per nulla la prima in libera l’aveva fatta Patrick Edlinger solo due anni prima. La via, un capolavoro, era stata aperta da Gilles Modica e Denis Brunel con Mademoiselle B. Saint-Maurice, 8 ottobre 1978.
Il 24 aprile fu la volta della parte bassa di Pichenibule (che l’anno prima avevamo evitato). Non ricordo bene quella giornata, nei miei appunti c’è scritto che ero con Anne-Lise, ma che uscii fuori dalla parete con il Camos lungo una via che oggi non riesco a trovare sulla guida, la voie des Strasbourgeois (e della quale nulla rammento).
Più chiaro è il ricordo invece del giorno dopo (il 25 aprile) quando con Anne-Lise e Paola Mazzarelli andammo a fare Roumagaou, la grande rampa-fessura obliqua che intaglia la parete sud-est dell’Imbut. Sono 200 metri verticali o strapiombanti, una via aperta da Jean-Paul Bouquier e Gérard Creton il 26 agosto 1973. Finalmente riassaporai la gioia di fare un itinerario tutto in libera, per di più così entusiasmante, specialmente il penultimo tiro che arriva al 6c.
Purtroppo la sera Anne-Lise approfittò di un passaggio per Torino: l’attendeva la scuola il giorno dopo.
Il 26 aprile con Marco Bernardi e Davide Marnetto affrontammo un’altra grande classica del Verdon, Au de là du Delire. E’ una via veramente di gran classe, perfino superiore alla roccia come ci si aspetta in Verdon. La gran esposizione, la problematica ritirata a causa dei due traversi e l’obbligatorietà di alcuni passaggi danno sugo a questo itinerario un po’ ricercato ma di gran soddisfazione, al di là dei gradi dichiarati (provare per credere il primo 6b+ dopo il traverso). La via era stata aperta nel maggio 1981 da Michel Fauquet, Marc Guiot, Pierre Guiraud e Denis Mottin. In questa salita ero affiancato da Davide, che non conoscevo: un ragazzo apparentemente svogliato e pigro che nascondeva invece una volontà di ferro (solo ovviamente per gli obiettivi che si sceglieva lui). Per Davide semplicemente l’alpinismo e il free climbing erano cose “terrorizzanti”, da evitare con puntiglio. Solo l’arrampicata valeva il suo impegno. Per il resto tipico umorismo torinese, generoso anche se ovviamente senza una lira. In ogni caso, la presenza di Marco Bernardi nella cordata faceva tacere qualunque discussione, essendo lui il più forte nelle varie discipline.
L’esperienza continuò il giorno dopo sulla celebratissima Surveiller et punir e il giorno dopo ancora su Troglobule. Surveiller et punir, che arriva al 7a+, era stata aperta da Jean-Marc Troussier nel 1981. Troglobule invece era una mia idea, perché m’intrigava il 7a in fessura: una via grandiosa, aperta da Didier Mille e Stéphane Troussier nel 1978. Il 7a a vista era fuori dalla mia portata, sia su parete aperta che in fessura. Ma in quest’ultimo genere di arrampicata mi sentivo più a mio agio, e probabilmente ero più vicino al livello necessario. Su quella via eravamo però in quattro, si era aggiunto il simpatico e ben giovane romano Andrea Di Bari, del quale ancora oggi sono grande amico. Il percorso da lui fatto con l’arrampicata e con le competizioni lo ha portato a una visione della vita considerevolmente profonda, con impegno anche nel sociale. Lo dimostra il suo bellissimo libro Il fuoco dell’anima, che scrisse tanti anni dopo (2017): quando una vita è veramente vissuta la lettura ti porta precisamente in quel mondo, in quell’essere individuale che riassume un destino ma anche le tante cose meravigliose che tutti abbiamo in comune (e a volte non lo sappiamo neppure).
Il mio soggiorno in Verdon continuò fino al 1° maggio. Il 29 aprile con l’amico Claudio Persico salii Ouah, con, c’est du libre, una via di due lunghezze di 6a al settore Miroirs, attrezzata nel 1982 da Françoise Lepron, una delle poche ragazze ad avere simili iniziative. Il 30 aprile, sempre con Claudio, salimmo la Dulf du Fou, una lunghezza di 6a+. Non ricordo perché quel giorno facemmo così poco, forse cominciavamo ad essere un po’ “stanchini”. E il primo maggio, eccoci prima su Toujourjamè, una via di 180 m di V+ e 6a, aperta nell’ottobre 1976 da Bernard Gorgeon e Jacques Nosley; e poi, scesi ancora una volta, eccoci su Pain et Chocolat, due tiri fino al 6b aperti da Gérard Merlin nel 1984.
A Milano mi aspettava la chiusura di A piedi in Valtellina. Il libro era stampato dalla De Agostini, pertanto seguii io l’impaginazione con un loro tecnico.
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Grazie, che belle foto! Aggiungo un piccolo ricordo.
Durante la prima visita (una trentina d’anni fa) avevamo sentito dire che i ladri aprivano le macchine per cui eravamo molto attenti a non lasciare nulla di valore e comunque un pò di timore l’avevamo.
Non successe nulla di brutto finchè, ironia della sorte, il penultimo giorno chiudemmo l’auto lasciando le chiavi all’interno (giuro che era possibile!) .
Armati di una grossa pietra di qualità verdoniana, come topi d’auto distruggemmo il vetro del finestrino sotto lo sguardo disperato della proprietaria dell’auto (ex di mio fratello).
Rimaneva però una giornata, che si svolse così: la ex di mio fratello si recò a sostituire il vetro infranto mentre io e lui SCALAMMO!
Bellissimo racconto, ricordo giusto nel 84 la mia prima volta, appena si poteva nei ponti estivi si scendeva in Verdon con tanti amici milanesi era la mecca dell’arrampicata, di giorno a ripetere le vie famose, e alla sera tutti alla Palud a bere una birra e le patatine fritte, in quel piccolo bar c’era il gotha dell’arrampicata sportiva nonché dell’alpinismo dato che non erano ancora discipline staccate.
Indescrivibile
Bei tempi! Prima visita primavera del 1978. Con me Flaviano Bessone, Isidoro Meneghin, Giovanni Marino. Vie: Eperon des Ecureuils e Demande. E’ stato anche l’anno della Gervasutti all’Ailfroide.
Anch’io ci arrivai qualche anno dopo, comunque anni ’90, quando Edlinger era ancora appeso in camera in un paio di poster (in compagnia di Berhault e Manolo). Ho un ricordo indelebile di quando, mentre al mattino ci stavamo preparando per le doppie, poco più in là da qualche via sbuca Lui, Le Blonde, ci raggiunge, mentre io e il mio socio rimaniamo a bocca aperta, ci saluta sorridendo con un bonjour e se ne va… quel giorno arrampicando ci sentimmo molto più leggeri.
Bell’articolo!! Anch’io ci andai nell’86 e poi molte volte dopo. Anche per me ormai sono 40 e più anni senza mai smettere 😁
@gianni, bellissimo avere AVUTO LA FORTUNA DI ESSERE LÌ MENTRE TUTTO ACCADEVA 👍
ABBIAMO AVUTO LA FORTUNA DI ESSERE LÌ MENTRE TUTTO ACCADEVA.
Potrebbe essere il titolo di un libro o addirittura di un film. Bello.
Io ci sono arrivato un po’ di anni dopo, per ragioni anagrafiche. Ma comunque le informazioni circolavano ancora per passaparola e l’idea che si potesse incontrare Edlinger per strada o a una sosta metteva i brividi. Quando vedo le foto de “L’ange en decomposition” non posso non pensare a “Lang in putrefaction” a Finale….
Le. Scarpette blu con stringhe rosse erano un modello BRIXIA , bello bello articolo su l VERDON gustoso assai
Io ci andai due anni dopo , i primi dalla Romagna a scalare il sogno.
Ricordo un’ aia stracolma di climber da ogni paese, un odore di gangia e libertà. 6 giorni sulla luna che culminarono con un saluto in parete al grande Edlinger. “Ciao Patrick j sui Mago Zano dalla Romagna”. Mi diede una pacca sulla spalla. Io ero il Mago perché facevo la monobraccio come Manolo. Zano era una storpiatura di Gianni, Zvan in dialetto. Tornammo a casa ed iniziammo a cercare miseri massi nella nostra Romagna povera di vera roccia. Il tarlo si era insediato, il free climbing ci aveva catturato. Ancora continuo ad arrampicare e questo anno son 40. Mi lamento della troppa folla, dei giovani impertinenti ed ignoranti che nulla sanno di tutto quello che è esistito prima di internet. Alcuni libri diventarono la Bibbia. Cento nuovi mattoni, il Dinoia e Yosemite Climber. Abbiamo avuto fortuna di essere lì quando tutto accadeva. Bei momenti per riempire una vita intera.
Ma il vero Gogna io lo vedo là, sul Naso di Zmutt, a ventitré anni, mentre lotta come cavaliere senza macchia e senza paura (anzi, forse con un po’ di paura).
E alla fine della battaglia ne esce vincitore.
Beninteso, sarebbe stato cavaliere anche senza vittoria. Bastò la sola battaglia.
Per me è sempre sorprendente la dovizia di particolari che arricchisce ogni racconto di scalate condito dalle emozioni dell’autore. Viene voglia di vivere quei tempi, di entrare in una di quelle giornate così intensamente vissute.
Finalmente una boccata di vero ossigeno di “montagna”, dopo le menate dei giorni scorsi. Belle le foto di tutti ‘sti maschi cisgender eterosessuali bianchi!
Le scarpette azzurre con stringhe rosse erano Asolo, vero? Non le ho mai provate.
È vero che il libro di Andrea Di Bari, Il fuoco nell’anima, è molto bello.