Una storia vera che ho scritto anni fa, la storia di due forti amici alpinisti sloveni che ho avuto modo di conoscere nelle terre del Himalaya. La storia di qualcosa che è rimasto e continua ad essere un’amicizia duratura nel tempo e che si rinnova solo per una sporadica visita (Tore Panzeri).
Verso Ovest
di Salvatore Tore Panzeri
Lasciamo ciò che si conosce per avvicinarci a ciò che non conosciamo, lentamente, con rispetto.
La nave salpò dal porto di Genova all’alba di una mattina primaverile; lasciò il molo d’attracco, guidata da un piccolo ma potente rimorchiatore, tra la nebbiolina di marzo, facendosi strada tra decine di altre imbarcazioni di ogni dimensione e tipo.
Sul ponte, quasi arrampicate sulla balaustra, alcune persone sventolavano in aria fazzoletti e cappelli per salutare i pochi spettatori accorsi per auspicare un buon viaggio ai passeggeri e all’equipaggio.
Fischi, grida, baci lanciati con le mani e simbolici abbracci vennero presto nascosti dal grigiore della nebbia e avvolti dal fumo nero dello scarico dei fumaioli.
Lentamente tutti i passeggeri cercarono ricovero sottocoperta al riparo dall’aria fresca del mattino, qualcuno si attardò sul ponte per dare l’ultimo saluto agli amici giù al porto e alla terra che pian piano si allontanava facendosi più piccola, le urla e i fischi furono presto sostituiti da un bisbigliare sommesso quasi rispettoso verso il mare.
Quando anche l’ultima persona abbandonò il ponte, da sotto una scialuppa di salvataggio, nascosti in un angolino buio, fecero capolino due giovani, due ragazzi alti, di bell’aspetto, dai visi abbronzati e dai capelli castano chiaro; i loro occhi svegli e attenti scrutarono in un attimo il piccolo mondo che li circondava spalancandosi ancor più e sprizzando gioia alla vista della terra lontana e del mare sotto di loro.
L’avventura è solo all’inizio per Slauco (Slavko Svetičič, NdR) e Milan (Milan Romih, NdR) ma è già pregna di forti emozioni per due ragazzi poco più che ventenni partiti dalla lontana Jugoslavia con due grossi zaini pieni di attrezzatura per arrampicare e tanta voglia di scoprire e fare. Con in tasca quei pochi dollari riusciti a cambiare al mercato nero e i passaporti senza nessun visto di espatrio sembrava non potessero andare lontano e invece eccoli qui a centinaia di chilometri da casa dopo un interessante viaggio in autostop da Maribor a Genova e ora finalmente imbarcati su una nave che si appresta ad attraversare l’oceano verso le Americhe.
Siamo verso la fine degli anni ’80, la Slovenia sta cercando di rendersi indipendente dal resto della Jugoslavia e grossi cambiamenti stanno avvenendo in Europa, i giovani sloveni già da tempo respirano aria di libertà, voglia di evasione, così quelli più coraggiosi e temerari, amanti del mondo e delle montagne si lanciano in “fughe” rocambolesche alla scoperta del pianeta terra.
Imbarcarsi su di una nave clandestinamente è reato e penso che oramai poca gente lo faccia, ma per i nostri due “fuggitivi” è quasi un gioco, un gioco pericoloso ma interessante per chi ama il rischio; aiutati dalla confusione dell’imbarco e dalla foschia mattutina è stato un gioco da ragazzi intrufolarsi sulla nave e imboscarsi tra le scialuppe in attesa di tempi migliori.
Ebbene, dopo qualche ora di navigazione, Milan e Slauco decidono di presentarsi al commissario di bordo per regolarizzare in qualche modo la loro posizione; soldi per i biglietti non ne hanno, ma possono offrirsi come lavoranti in cambio di questo passaggio di qualche settimana fino in Sud America. E’ una storia già sentita e risentita ma anche stavolta funziona alla perfezione, aiutata dalla freschezza, dalla simpatia e dalla voglia di fare dei due sloveni.
Prima guardati in cagnesco dall’equipaggio, poi tenuti alla larga, poi controllati a vista e finalmente, dopo qualche settimana di navigazione, invitati a cenare allo stesso tavolo del comandante per raccontare e sentirsi raccontare le avventure sulle vette delle Alpi e nei mari più lontani.
La Cruz è una grossa nave spagnola, un mercantile per la precisione che trasporta merce di ogni tipo dal vecchio continente all’America del Sud; avendo anche alcuni alloggi e cuccette ospita a volte anche passeggeri che vogliono raggiungere quelle terre lontane senza fretta, senza grosse pretese e con poca spesa.
Le settimane di navigazione attraverso l’Oceano Atlantico possono sembrare monotone e noiose ma se affrontate con interesse e voglia di raggiungere la meta possono risultare interessanti e istruttive; quale miglior occasione per Milan e Slauco, solcare gli oceani apprendendo le nozioni elementari della navigazione e soprattutto imparando una lingua come lo spagnolo fino ad ora a loro sconosciuta.
Lasciato alle spalle il blu intenso e profondo dell’oceano aperto, la “Cruz” si dirige sulle trasparenti acque del Mar dei Carabi verso il centro America, all’ingresso del Canale di Panama, il passaggio obbligato per accedere all’Oceano Pacifico e quindi alle coste occidentali delle Americhe senza dover circumnavigare il continente sud americano.
Una vera e propria trovata di inizio secolo scorso che tanto ha agevolato e agevola tuttora i trasporti tra l’oriente e l’occidente facendo risparmiare alle navi circa sessanta giorni di navigazione nei mari più terribili del pianeta.
Appoggiati alla balaustra di prua i due ragazzi sono schiaffeggiati dall’aria calda dei tropici mentre scrutano l’orizzonte avvolti da emozioni e sensazioni difficilmente descrivibili.
La sosta della nave al primo sbarramento del canale è l’occasione buona per mettere in pratica la nuova lingua appresa scambiando due chiacchiere con gli addetti al passaggio navale; ormai non manca molto alla fine del viaggio e all’inizio di una nuova avventura.
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La polvere viene alzata dal vento della Sierra mentre il pullman arranca verso i 4200 metri di quota stracarico di gente con bagagli e animali al seguito; ormai manca poco a completare i 400 chilometri di strada che separano Lima da Huaraz, 8 ore stipati nella corriera fianco a fianco con intere famiglie di campesinos che ritornano ai villaggi dopo aver fatto una capatina nella capitale.
Sembra ormai trascorso molto tempo e invece è solo una settimana che Milan e Slauco sono sbarcati a Lima dopo aver affettuosamente salutato tutto l’equipaggio della Cruz ormai di ritorno verso nord. E’ bastato poco riabituarsi alla vita sulla terra ferma e, grazie ad alcuni cari amici peruviani del capitano, anche le più noiose pratiche burocratiche per lo sbarco sono state presto sbrigate.
Huaraz, la Chamonix delle Ande, è la base di partenza per le principali montagne peruviane, è da qui che si organizzano trekking e salite aiutati dalle guide delle varie agenzie turistiche locali, è da qui che partono i piccoli e curiosi pulmini dell’impresa di trasporti Huandoy per raggiungere le varie vie d’accesso alla Cordigliera, è qui che si fanno grandi salite e grandi progetti davanti a litri di birra negli affollati bar turistici.
Dopo aver oziato per qualche giorno nelle piccole casette immerse nella foresta di pini dell’Hostal Colomba è venuto il momento di partire per questa nuova avventura anche per Milan e Slauco, un cordiale saluto di arrivederci alla simpatica e ospitale padrona del locale ed è proprio ora di andare, di agire, di salire sulle montagne.
Seduti accanto a gabbie piene di pollame controllate a vista da campesinos dalla faccia non molto amichevole i due amici hanno il loro bel daffare per tener controllati i loro zaini e i loro sacconi carichi di tutto l’occorrente per starsene sulle montagne per diversi giorni; è in questa atmosfera un po’ tesa che si lascia Huaraz per raggiungere prima Mancos poi Yungay e poi ancora Caraz, i villaggi più importanti da dove partono le piste o i sentieri per salire le cime più belle della zona.
Per abituarsi ancora un po’ alla quota Slauco e Milan scelgono di salire con una jeep sino alla Laguna Llanganuco a 3850 metri di altezza: due splendidi laghi montani inseriti in una delle valli più ampie della zona tra verdi pascoli e un vero e proprio circo di montagne tutto attorno.
Scelgono di accamparsi vicino alla “baracca” del guardaparco per avere un ottimo punto di appoggio e un po’ di compagnia; in quella stupenda casetta di legno affacciata sul lago vive infatti un gioviale signore, Felipe, ben felice di avere temporaneamente due nuovi vicini a cui dispensare consigli ed informazioni e con i quali dividere la cena a base di trote pescate direttamente nel lago.
Una scelta, d’altro canto, dettata anche dalla prudenza perché questi sono gli anni in cui il famigerato gruppo di Sendero Luminoso sta seminando terrore sia tra gli indigeni che tra i turisti; a volte non bastava la prudenza e il coraggio per sfuggire a questa organizzazione rivoluzionaria di ispirazione maoista che si proponeva di sovvertire il sistema politico peruviano e di instaurare il socialismo attraverso la lotta armata.
Le condizioni meteo non sono delle migliori per affrontare salite impegnative così, consigliati dal premuroso Felipe, i due amici si dirigono oltre la seconda laguna per salire il Nevado Pisco, una tranquilla vetta di solo 5700 metri di altezza che fa da anticamera alle cime maggiori dalle quali è attorniata.
L’acclimatamento non è ancora perfetto così Milan e Slauco decidono di accamparsi alla base della montagna proprio all’inizio del ghiacciaio e rinviare la salita a domani. Oramai lo spettacolo è incominciato e nemmeno la luna e le stelle che si riflettono nel lago riescono a distrarli da quella che sarà una salita di acclimatamento e ambientamento, basilare per le salite prossime future.
Purtroppo il maltempo non dà tregua ma non riesce nemmeno a fermare i due sloveni che pestando neve e imprecando contro la nebbia che non gli permette di orientarsi salgono impassibili fino in vetta, anzi superandola addirittura diverse volte prima di rendersi veramente conto che non c’è più nulla da salire. Ironia della sorte, dopo aver faticato anche in discesa per la neve alta e le nebbia fitta, vengono accolti al termine del ghiacciaio da un magnifico sole caldo che fa ritornare il sorriso e la gioia sui visi dei nostri amici.
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La notte non ha ancora lasciato il posto al giorno e due figure camminano già sulle rive della laguna in direzione della carrozzabile: curve sotto il peso degli zaini, procedono a zig zag verso il nastro chiaro di terra battuta, unico legame con la civiltà. Ad una certa ora dovrebbe passare un “carro” che li condurrà a valle ma nemmeno il buon Felipe ha saputo essere più preciso sull’orario, d’altronde siamo in Perù e qui è vietato aver fretta.
La palla infuocata del sole sta già dipingendo di rosso le montagne quando un grosso polverone segnala l’arrivo dell’ultimo camion della giornata, l’oscurità ha oramai avvolto le sponde della laguna mentre i due ragazzi prendono finalmente posto sul cassone; non ha importanza la destinazione, basta cambiare zona dopo aver passato più di dodici ore in attesa di trovare un passaggio.
Così sarà ogni volta che la sete di vette porterà Slauco e Milan a cambiare vallate e cordigliere, un procedimento che diventerà abituale e sacro, un modo per lasciare il “conosciuto” senza repentini cambiamenti ed avvicinarsi al nuovo, allo “sconosciuto” lentamente, con rispetto.
Un meraviglioso gioco fatto di neve e rocce che li porterà a fantastiche cavalcate sulla Cordillera Blanca prima e sulla Cordillera de Huayhuash poi, un gioco emozionante ma anche altamente rischioso che gli farà conoscere la paura o la gioia o entrambe con un alternarsi di sensazioni quasi impercettibile.
La neve spugnosa e carica di umidità dell’oceano, gli scivoli quasi verticali di ghiaccio nero, le creste frastagliate di granito rosso, gli speroni strapiombanti di color ocra e i profondi crepacci che si aprono come delle bocche affamate accompagnano per lunghe settimane i due alpinisti in questo ambiente fiabesco, in questa avventura che ancor più sa di fiaba, portandoli sulle principali vette del paese: Huascaran 6768 m, Chopicalqui 6356 m, Chacraraju 6113 m, Alpamayo 6120 m, Artensoraju 6025 m, Jirishanca 6126 m, Yerupaya 6634 m, Huandoy 6395 m.
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Dall’oblò si può ammirare il famoso Pan di Zucchero e la bianca spiaggia di Copacabana mentre un Boeing 747 della linea aerea Iberia sfreccia ad una velocità di 900 chilometri l’ora sopra l’intrigante Rio de Janeiro. Dai circa 9000 metri di quota si può guardare molto lontano, così lontano che a Slauco e Milan non sembra vero di vivere laggiù, sulla terra.
Il fortunato incontro con un ricchissimo uomo americano desideroso di viaggiare e conoscere le montagne europee ha permesso, a spese dello yankee naturalmente, ai due sloveni di far ritorno nel vecchio continente con quel moderno e veloce mezzo di trasporto che è l’aereo.
Ormai padroni della lingua spagnola, dopo mesi passati in Perù, e intenzionati a imparare bene la lingua inglese, attingendo alle nozioni base apprese a scuola da ragazzini, trascorrono il lungo viaggio chiacchierando e raccontandosi con il nuovo amico e compagno di avventura.
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Avvolti nella nuvola di fumo di sigarette del reparto fumatori, sorseggiano vari miscugli di bevande e alcool che, a loro richiesta, la hostess prontamente versa nei bicchieri di plastica. Il loro cocktail preferito è lo screwdriver, una bomba a base di succo d’arancia e vodka, tanta vodka, che alimenta a più non posso le avventure nei racconti dei tre passeggeri.
Quando le gomme del carrello dell’aereo impattano a terra stridendo contro l’asfalto e il rumore dei reattori invade inesorabilmente la cabina i nostri amici si destano da quello stato di torpore che il viaggio e l’alcool avevano procurato loro.
Milan con una mano si strofina gli occhi e con l’altra si fa una sorta di massaggio alle tempie per cercare di ritornare tra gli esseri umani; Slauco a tentoni cerca di aprire la tendina parasole dell’oblò restando abbagliato dalla luce del sole di Madrid; Jimmy, l’americano, imperterrito continua a dormire incassato nel sedile in una posizione poco elegante finché la borsa di un passeggero, cadendo dal portabagagli, gli cade sulla testa.
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Milan guida veloce e sicuro una Ford Escort familiare presa a noleggio all’aeroporto di Linate, mentre Slauco e Jimmy studiano il loro tragitto su di una cartina stradale scrutando a volte, oltre il parabrezza, quel noioso nastro di asfalto che è l’autostrada che conduce a Courmayeur, in Val d’Aosta.
Non vedendo grosse montagne, pensano di aver sbagliato strada, così si rituffano sopra la mappa stradale alla ricerca dell’errore che non riescono a trovare; mentre la radio diffonde nell’abitacolo la stupenda musica dei Dire Straits dalla bocca di Milan esce un esclamazione di meraviglia e nello stesso tempo di stupore, rallenta, quasi si ferma in mezzo all’autostrada facendo sbandare le auto più prossime alla sua e finalmente si decide a fermarsi nell’aerea di sosta che ormai aveva raggiunto.
Il Monte Bianco, colossale, abbagliante, immenso, lucente si apre davanti ai loro occhi chiudendo l’orizzonte della verde vallata; ghiacciai frastagliati scendono a valle come un gelato che cola dal cono, guglie di granito rosso si ergono al cielo come a volerlo penetrare, pareti innevate si innalzano verso la cima da tutti i versanti come le onde del mare nei giorni di tempesta.
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Lo stridere del metallo dei ramponi è l’unico suono che disturba la notte, accecata dai cerchi di luce delle frontali che sfavillano sulla neve. Dal bivacco Ghiglione alcune cordate si incamminano, lentamente e ordinatamente, lungo un traverso di ghiaccio nero e infido che conduce ai pendii sottostanti della Brenva; una sorta di processione rispettosa e silenziosa attraverso una delle pareti più immense e pericolose del Monte Bianco.
Raggiunta la base della parete una prima cordata di alpinisti italiani si stacca dall’”allegra” comitiva per salire a destra verso la crepaccia terminale dello Sperone della Brenva, una via classica di discrete difficoltà che sale come una scala verso la cresta e poi la vetta del Bianco; ora il traverso si fa più semplice e permette agli uomini di aumentare il ritmo di marcia; solo quando anche la seconda cordata di tedeschi lascia i dolci pendii del ghiacciaio per salire la via Major i nostri amici capiscono che è venuta l’ora di forzare l’andatura e accelerare il passo per attraversare nel più breve tempo possibile quel grosso canalone che convoglia gran parte delle scariche e delle valanghe della parete.
Seduti nella neve al riparo di un grosso seracco Milan, Slauco e Jimmy cercano di riprendere fiato con il cuore che sembra voler scoppiare dopo una corsa del genere a quasi 4000 metri; con gli occhi ancora annebbiati dallo sforzo colgono in quel preciso momento la magica luce della luna che, facendo capolino dall’Aiguille Noire de Peutérey, va ad illuminare con effetti speciali la parete nord dell’Aiguille Blanche, la loro prima meta.
Al freddo pungente e intenso della notte si è ormai da tempo sostituito il sole in una splendida giornata come se ne vedono poche a queste quote; è da tempo che hanno riposto i ramponi e le piccozze negli zaini per affrontare la roccia; la mancanza assoluta di vento permette agli alpinisti di salire velocemente e di arrampicare sul rosso granito del pilone centrale del Frêney senza i guanti e il fastidioso abbigliamento pesante.
Ripercorrere quella via di salita riporta Slauco indietro con la memoria, quando, ancora ragazzino, divorando letteratura di montagna, aveva letto e poi riletto le avventure e le tragedie che colpirono gli alpinisti nei vari tentativi di conquista del pilone centrale; è come se fosse già stato in quel luogo, è come se sapesse già dove mettere la mano o incastrare il piede, è come se avesse già vissuto l’emozione di scrutare l’orizzonte dalla vetta con le diverse sfumature di rosso mentre il sole tramonta.
Dopo aver scavato un riparo nella neve della cima i tre amici si preparano per la notte stanchi e distrutti ma con gli animi pieni di gioia per la salita effettuata; così, mentre anche il lumicino dell’ultima sigaretta va spegnendosi, restano a fargli compagnia le lontane luci delle case di Courmayeur e le strisce illuminate dei fanali dei TIR che si apprestano ad attraversa il tunnel.
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Gli ultimi giorni di agosto del lontano ’89 li sto passando in una tendina ad igloo semi sepolta dalla neve; avvolto nel mio sacco a pelo cerco di leggere un libro senza disperdere troppo il calore che sono riuscito a mantenere nella mia angusta tana; ad ogni mio respiro nuvolette di vapore salgono rapidamente verso il telo condensandosi su di esso e trasformandosi in una sempre più spessa pellicola di ghiaccio; il termometro digitale del mio orologio-altimetro segna 10 gradi sotto lo zero, ma non è questo il problema, d’altronde siamo a 5600 metri di altitudine, il fatto è che sta nevicando copiosamente da una settimana per cui l’unica attività che mi posso concedere è uscire ad intervalli regolari per liberare il telo della tenda dal peso della neve.
E’ proprio durante una di queste uscite obbligate che il silenzio ovattato del campo base avanzato viene disturbato dal vociare di un gruppo di persone che, cercando di aprirsi la traccia nella neve alta per raggiungere le loro tende poco più a valle, transitano vicinissime al nostro campo.
Incuriosito, ma soprattutto bisognoso di interrompere la monotonia, attendo il loro arrivo; sono in cinque, tre di loro, dopo un rapido saluto, riprendono il loro faticoso cammino, gli altri due, con la scusa di una sigaretta si attardano guadagnandosi così una tazza di tè e dei biscotti che offro loro molto volentieri nella tenda mensa.
Sia il mio inglese che il loro a quei tempi non era molto “inglese”, comunque riusciamo a comunicare e a capirci; stanno tentando anche loro la salita della parete nord dell’Everest lungo il couloir Norton mentre noi siamo un poco più a destra lungo la via diretta dei Giapponesi; fanno parte di una spedizione nazionale jugoslava mentre noi siamo quattro poveri disperati senza sponsor e capi; loro due sono sloveni e i loro nomi sono Milan e Slauco…
Avremo occasione di vederci altre volte alle pendici dell’Everest ma i tentativi di salita e le ritirate attorniati dalle valanghe occuperanno gran parte della nostra permanenza in Tibet.
Dopo cinque lunghe settimane di permanenza in quota prendemmo l’unica decisione sensata che si poteva scegliere, smontammo tutto e tornammo a casa; così fecero tutte le spedizioni presenti su quel versante della montagna, e in quell’autunno molto nevoso nessun alpinista riuscì a raggiungere la vetta dell’Everest dal versante Nord.
Avvolto dal fumo di sigaretta e inebriato dai boccali di birra di un chiassoso pub di Katmandu ho fatto presto a dimenticare le notti gelide e insonni passate ad ascoltare le valanghe che scendevano inesorabilmente dalle pareti, ma non ho dimenticato quelle due persone che, comparendo dalla neve, avevano data una sferzata di vita e di allegria al nostro gruppetto; è con Milan e Slauco infatti che passo gran parte delle giornate e delle serate in attesa di un aereo che ci porterà in Europa, un aereo che non attendiamo con impazienza tanto è bella la compagnia che ci siamo creati.
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Per scrivere una lettera, capibile in inglese, basta munirsi di un dizionario e ritornare con la memoria alle nozioni grammaticali apprese sui banchi di scuola quasi due decenni prima per cui, riuscimmo a mantenerci in contatto anche con brevi telefonate fatte di tanti “hello” ma soprattutto con diverse lettere, consapevoli che le risposte dei nostri quesiti viaggiavano con i tempi scanditi dalle poste.
Non si usava ancora il computer come ora e la posta elettronica era cosa da film di fantascienza sebbene non siano passati poi così tanti anni.
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Milan mi attese per più di un’ora nella piazza principale del suo paese, Slovenia Bistriça, poi, non vedendomi arrivare, decise di andare a sedersi nel bar adiacente alla fontana dove, seduto a sorseggiare una birra, poteva controllare la strada e il mio arrivo.
In un’epoca in cui non si utilizzavano i telefoni cellulari gli appuntamenti erano molto più avventurosi e pieni di inconvenienti che, a volte, si tramutavano in occasioni per pensare e osservare, per conoscere e parlare.
Mentre Milan stava attaccando la sua terza birra vide attraverso i vetri semi appannati del bar un furgoncino blu con una targa italiana fermarsi vicino alla fontana ghiacciata: ero finalmente arrivato a destinazione dopo aver perso e ritrovato la strada più volte nell’attraversamento di Maribor.
Neppure il tempo di sgranchirmi le gambe intorpidite dal lungo viaggio ed eccomi di fronte all’amico che, con una vigorosa stretta di mano e un abbraccio veloce, mi strappa dal gelo della strada per offrirmi la prima delle centinaia di birre che berrò in terra jugoslava. Solo pochi mesi fa eravamo degli estranei, ora sembra che ci conosciamo da sempre.
Mai avrei potuto rifiutare l’invito esplicito di passare gli ultimi giorni del 1989 in compagnia degli amici sloveni e così eccomi qui, munito di sci, piccozze e ramponi, attrezzatura per arrampicare e l’inseparabile parapendio.
In Slovenia gli inverni sono molto rigidi, purtroppo quell’anno non c’era neve, ma le cascate di ghiaccio erano in ottime condizioni così che, accompagnato anche da altri amici, conobbi il loro territorio di allenamento tra quelle stupende vallate. Dovetti in breve anche adattarmi alle loro abitudini un poco diverse dalle mie; arrampicate in falesia con il termometro sotto lo zero e bevute esagerate tutte le sere in locali bui e loschi frequentati da giovani che sentivano vibrare già nel loro cuore la nascita del loro nuovo stato, la Slovenia.
Agli stupendi voli con il parapendio nella gelida aria invernale si aggiunse una trasferta di qualche centinaio di chilometri sino a Pakleniça, una località magica, sul mare, in Croazia, dove si apre una vallata di calcare bianco creata nel tempo dei tempi appositamente per arrampicare.
La zona, molto frequentata nel periodo estivo, è comprensibilmente deserta in inverno, così che non incontrammo alcun problema per trovare delle camere in affitto.
La signora che ci aprì la porta della casa parlando in croato ebbe qualche problema a capirsi con l’idioma sloveno di Milan per cui mi suggerirono di fingermi muto così da poter usufruire di un ottimo sconto per la camera passando tutti per jugoslavi; cosa non si faceva per risparmiare…
Naturalmente il mio mutismo si interrompeva quando chiedevo corda o altro arrampicando sulle superbe vie che offriva quella valle incantata, vie corte tipiche di falesia ma anche vie abbastanza lunghe dove, con Milan, ci trovavamo più a nostro agio alternandoci nella salita.
Anche qui valeva la regola di sfruttare le corte giornate invernali rese miti dal Meditteraneo per arrampicare e poi tuffarsi nei litri di birra offerta dai locali sulla costa abbagliati dal riflesso della luna su mare.
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Le visite si alternarono negli anni sia in Italia che in Slovenia ma il nostro appuntamento fisso è sempre stato a Katmandu, in Nepal.
Annualmente, allo scoccare dell’inizio della primavera, ci si incontrava nella metropoli himalayana per prepararsi ad affrontare nuove salite sulle montagne più alte del pianeta; a volte ci si divideva per mete diverse mentre a volte si affrontava lo stesso trekking di avvicinamento per tentare insieme la salita. In una di queste occasioni ebbi la fortuna di tentare la prima salita della parete ovest del Makalu insieme a Slauco; una salita importante e molto impegnativa anche dal punto di vista psicologico, una salita che ha chiesto tanto a noi alpinisti, ma che ha saputo darci tanto, una parete che sembrava voler fare a pezzi anche le più profonde amicizie e viceversa le ha consolidate.
Lungo le lisce placconate di granito o sul verde ghiaccio verticale della Ovest ho potuto ammirare la forza e la bravura di Slauco, la sua disponibilità e la sua capacità di non darsi importanza, il suo modo di elogiarmi quando ero io a risolvere un tratto di parete.
Dopo aver gioito e sofferto insieme sulla parete ovest un piccolo disturbo lo ha costretto al campo base mentre io raggiungevo la vetta, una vetta stupenda che mi sarebbe piaciuto condividere con l’amico sloveno.
Più volte, tornati a casa, abbiamo rivissuto le fasi più salienti della salita, senza nessun rammarico da parte di Slauco, anzi, con una luce nuova negli occhi, donataci da un’amicizia ancor più concreta forte delle esperienze al limite provate insieme.
Quante volte siamo tornati a ricordare i momenti del montaggio della piattaforma artificiale per posizionare la tenda di campo III, ridendoci e scherzandoci sopra, consci delle brutte ore passate a 7000 metri; sento ancora il dolore alle mani mentre martello il pianta spit per più di un ora per creare dei punti di ancoraggio un po’ decenti per quello che sarà il nostro riparo vitale; sono ancora assalito da brividi ritornando con il pensiero ai momenti in cui le slavine scendevano a valle passando sopra di noi, riempiendoci le giacche e gli zaini; vedo ancora l’espressione di forza e volontà uscire dai nostri occhi sebbene la stanchezza volesse sopraffare.
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Nel ’95 Slauco ripartì nuovamente per una delle sue solite avventure solitarie; era proprio in quel modo che riusciva ad esprimere al massimo la sua forza in montagna portando a termine salite di estrema difficoltà riconosciute a livello mondiale sia sulle Alpi che in Himalaya e in Karakorum.
Non è più tornato, a gioire con noi, da quel viaggio, la vergine parete ovest del Gasherbrum IV l’ha trattenuto quando ormai era a pochi passi dalla vetta e alla fine della sua stupenda via.
Probabilmente si è imbarcato per l’ultima volta, come fece tanti anni prima, per terre sconosciute attraverso mari inesplorati, in silenzio, senza chiasso, con molto rispetto.
Una telefonata confusa di Milan mi avvisò della partenza di Slauco e da allora, anche se ci siamo rivisti continuando con la nostra passione, qualcosa è cambiato o forse si è spezzato.
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La testa è sempre rivolta verso l’alto, alla ricerca di chissà cosa tra quegli spigoli, quei pilastri, quelle pareti, quei seracchi che continuano a cambiare aspetto così come cambia il colore di tutto ciò che ci circonda con il girovagare del sole. Un arcobaleno di colori che appare e scompare con le nuvole, con il sole, con il vento che sbattendo ferocemente contro le montagne lancia urla, gemiti, suoni a volte non naturali.
Una storia vera dove la realtà può essere stata modificata dai fumi dell’alta quota o dai fumi dell’alcool.
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Pezzo veramente interessante, capace di far sentire anche a chi non le ha mai viste, il profumo e la bellezza di quelle montagne. Quanto al paventato (sarà vero? mah!) ritiro dal blog di Cominetti trovo che non sia affatto una cattiva notizia proprio in considerazione di quanto scritto dal gestore del blog che parla di “contenuti inquinanti e inaccettabili” e “albergo di animosità personali” In questo senso, spiace dirlo, Marcello è sempre in prima linea.
bellissimo, emozionante.
Anche io ho perso un amico in montagna.
Ho fatto pulizia totale degli ultimi commenti, proprio come un oste sbatte fuori dal locale i clienti rissosi. Non mi piace per nulla fare questa parte, ma i contenuti erano davvero inquinanti e inaccettabili. Era inammissibile che il bel pezzo di Tore Panzeri fosse diventato albergo di animosità personali.
Solidarietà all’autore del (bel)pezzo intenso e dedicato a temi importanti.
—— APPELLO A MARCELLO ——
Caro Marcello, non abbandonare il forum! I tuoi commmenti sono quasi sempre interessanti e si leggono volentieri, anche quando non si è d’accordo.
Pertanto torna fra di noi, magari sotto pseudonimo. Prendendo spunto da Alto Gradimento, io consiglierei il buon Catenacci: “Ducce di qua, Ducce di là. Crovella l’è spaccià, Crovella l’è spaccià”.
N.B. Perdonami, Carlo, ma avevo bisogno del tuo nome…
Amico caro….Lei professore ci mancava. Sappiamo che detesta le vacanze estive nonostante i quarant’anni di duro lavoro e che desidera tornare tra le quattro mura scolastiche per dare una sfraganeta di mazzate ai suoi studenti, ma anche a lei auguriamo una buona estate e un alto gradimento. Senza rancore.
Se tanto mi da tanto, con certi vostri racconti, che in parte ho letto qui, i vostri nipoti li intontirete di noia.
Non saprei quantificare la presenza femminile nei blog a cui ho fatto riferimento. Constatavo solo che la competitività e l’aggressività maschile si manifestano in forme comunicative diverse nelle diverse culture. Nelle culture latinos le forme verbali possono essere molto dirette, esplicite e dure e quindi magari respingere l’intervento sul ring di alcuni segmenti di lettori. Il fenomeno non riguarda solo questo blog. Io leggo online il Corriere ogni giorno e ogni tanto vado a guardare i commenti, tutti di uomini. Qui siamo delle signorine di buona famiglia al confronto. Ci sono alcuni personaggi ricorrenti, come un certo Pippo, che guidano le danze e scatenano su ogni argomento una rissa da taverna. Anzi, ora che ci penso, potrebbe essere la versione moderna e virtuale delle risse da taverna nelle quali si dilettavano con grande piacere i nostri antenati, a volte con esiti mortali, visto che avevano a disposizione armi non solo verbali. Per quanto riguarda i giovani climber. Si può anche non apprezzare il valore di certi traguardi, ma non si può non rispettare lo sforzo, la disciplina, la passione, il sacrificio che questi ragazzi mettono nell’arrampicata, invece di cazzeggiare e dedicarsi ad altri piaceri. Per questo l’intervento di Riva, mi ha indignato, ma ho cercato di contenermi nelle forme, altrimenti si predica bene e poi……Molti di noi, magari nel loro tempo delle fiabe, hanno cercato di allenarsi sistematicamente per cercare di migliorare le loro prestazioni in montagna. Chi lo ha fatto può capire cosa significa oggi arrampicare a certi livelli. Lo fa vedere bene anche Honnold nel suo film. L’evoluzione delle tecniche di allenamento è andata ben oltre rispetto ai primordi degli anni 80. È appena uscito presso Versante Sud un libro di Fabio De Palma, allenatore di alcuni giovani talenti lecchesi, su come allenare i giovani all’arrampicata sportiva. Guardate solo l’indice sul sito dell’Editore e capirete di cosa stiamo parlando. Io mi tolgo il capello con umiltà di fronte alla fatica e sarei orgoglioso che uno di questi fosse mio nipote e gli racconterei volentieri di come alla sera, dopo il lavoro, anche con la nebbia, andavamo ai giardinetti di Porta Venezia ad allenarci e ad ammirare la tecnica di Ivan Guerini e di altri eroi dell’epoca. Sniff..sniff come dicevano i fumetti della nostra infanzia.
@ Pasini: per curiosità come si può quantificare la presenza femminile nei due blog USA che hai citato? 40% 60%, oppure 30% 70%… In Europa e in Italia in particolare, il mondo alpinistico è sempre stato complessivamente maschile. Salvo rarissime eccezioni. Questione di cultura, ovvio. La società americana è più indistinta, per l’ora da tempo un individuo e’ un individuo, se è maschio o femmi a è irrilevante. Da noi le demarcazioni erano forti solo pochi decenni fa. Anche da noi sta cambiando ma è cosa lunga e deve a venire da se’. Forzarla sarebbe innaturale: io sono contrario alle quote rosa imposte (i tutta l’esistenza, non solo in montagna). Le donne verranno fuori, ma devono farlo per loro capacità meritocratiche, non perché apriamo corsie preferenziali. Vedremo maggior presenza di donne protagoniste in montagna con il cambiar delle generazioni. Fra 30-50 anni i rapporti numerici saranno completamente rovesciati. Circa gli arrampicatori (m/f), io mi defilo: è un’attività che non comprendoper miei limiti quindi non riesco neppure ad apprezzarne le caratteristiche come descritto da Pasini. Circa storie per nipotini, son 40 anni che scrivo racconti, romanzi e relazioni per cui materiale ne ho a iosa. Buona serata a tutti!
bellissimo articolo in ricordo di un amico.. Un bellissimo ritratto con un bel messaggio per le generazioni future di spingersi oltre nell’esplorare sempre.
Poi anche gli esploratori alla fine di quella stagione della vita si fermeranno, metteranno radici, ma saranno quelle solide, per raccontare ai nipotini tante belle storie. Sono certo che anche il Crovella ha storie per i nipotini, di montagna e di buone sbronze. Peace and Love (Marcello resta qui con noi)
Leggendo il commento 30 non posso fare a meno di stupirmi nuovamente di quanto ancora si trattino coloro che fanno arrampicata sportiva come ginnasti senza cervello e del tutto lontani dal fare cose analoghe in montagna. Scusate ma questi sono pensieri da secolo scorso…
a parte che chi scala su gradi di un certo livello profonde un impegno completo, fisico mentale, che forse sfugge a molti altri, ma, solo per citarne uno, abbiamo il bell’esempio di una fanciulla Torinese che nei giorni scorsi ha trasportato le sue notevolissime doti di climber sul pilastro rosso del brouillard… e noi qui a parlare delle scimmie. Bah forse ho capito male….Siamo rimasti ai Guelfi e Ghibellini?
@Riva Guido. Tu quoque. Non commento. Peace and Love, come spesso si dice qui, ma non sempre si applica. Solo una dichiarazione personale. Laura Regora, come Stefano Ghisolfi e tanti altri non sono scimmie. Sono atleti, ragazze e ragazzi, sani, puliti, appassionati che con grandi sacrifici e disciplina contribuiscono nel loro campo specifico a raggiungere livelli impensabili in altre epoche e fanno onore al nostro paese. Chiunque arrampichi, sa perfettamente cosa vuol dire in termini di allenamento e preparazione tecnica e psicofisica muoversi in falesia su quei livelli. Io li guardo, ammiro la forza e la grazia dei loro movimenti sulla roccia e applaudo virtualmente con fanciullesco entusiasmo e orgoglio. Avercene, si dice in dialetto dalle mie parti.
@ Pasini al 29 (c’è ancora il 9). Bruno Detassis sosteneva che oltre il 6° (il suo 6°, ndr) sono solo acrobazie. Aggiungo io, acrobazie che dimostrano solamente quanta scimmia ci sia ancora nell’uomo e nella donna. Io auguro a tutti questi di arrivare almeno al 69z perchè fino a quando stanno lì non vengono a rompere i cabasisi dove vado io.
Purtroppo si è ripetuta la solita dinamica. Credo sia necessario, complice l’estate, lasciar depositare un po’ di polvere e dedicarsi all’azione e alla lettura/riflessione, nelle proporzioni preferite da ciascuno. Il tema del ruolo dell’elemento femminile nell’alpinismo vale la pena di essere adeguatamente approfondito con un clima meno caldo. Per quanto riguarda l’aggressività comunicativa e la competizione tra galli/falli nel blog, sicuramente scoraggiante per alcuni, noto che accade anche in altri blog di montagna frequentati da un pubblico maschile più giovane. Nella mia esperienza di vita e professionale la competizione femminile è più sottile, indiretta e stabile e utilizza modalità comunicative meno esplicite. Per quanto riguarda noi maschietti non escluderei un fatto culturale più che generazionale. Seguo ogni tanto due blog USA, uno di montagna e uno di trail running e non accade. Vizi e virtù del maschio latino nelle sue varie articolazioni regionali. Buona montagna. PS. Per curiosità guardatevi un video di come arrampica la giovane Regora su una via lunga di 9a e 9b (1.50 di altezza, 40 kg).
Il Crovella, se non ci fosse bisognerebbe inventarlo.
Porto carico da 11, come direbbe Montalbano. Ieri ho chiesto a mia moglie come mai, nonostante la sua passione per la montagna, lei non abbia nemmeno la tentazione di scrivere un rigo su un blog di montagna. Un qualsiasi blog, non necessariamente questo. Superluo, ma doveroso, ricordare che trattasi delle risposte di un solo individuo, sarebbe stupido estenderle con validita’ generale, ma, riflettendo, posso concludere che le mie numerose conoscenze femminili di appassionate di montagna darebbero risposte analoghe. Dunque lei ha dato una risposta molto articolata, ma non spreco qui gli spunti, anche se farei felice Pasini che ha posto la questione femminile. Li tengo da parte, magari ci scrivo sopra qualcosa di più sistematico. Fra questi elementi ce n’è uno che è attinente al tema innescatosi in questa serie di commenti. In realtà è un tema che gira da un po’. Torniamo a mia moglie. Senza aver mai messo piede nel blog, mia moglie ha l’impressione o addirittura la certezza che neppure questo spazio sia del tutto immune dal “clima da osteria” che caratterizza il web in generale. Una donna è ancor più suscettibile di un uomo e non ama sentirsi riprendere, meno che mai con fare e toni da caserma. La citazione pasiniana di Freud mi lascia pensare che i due concetti convergano. Il problema va ben oltre la presenza femminile un questo blog: nei mesi scorsi numerosi miei conoscenti (maschi) mi hanno detto che loro non contribuiscono in questo blog (o hanno allentato o addirittura smesso di farlo) proprio per questo motivo. Infatti per eta’, per cultura, per carattere ecc, molte persone non amano sentirsi dire che “sparano cazzate a nastro” oppure che le loro idee sono “polverose e ammuffite”. Sono affermazioni che possono apparire innocue ma invece sono infelici e ineleganti. Questo andazzo da bettola, da mercato del pesce, seppur marginale nell’economia generale di questo blog, e’ sufficiente per allontanre i lettori, anche maschi, a maggior ragione se donne. Allontana anche in termini di mancato coinvolgimento. Li fa scappare a priori. Puo’ darsi che il clima da osteria sia più genuino, più verace, ma non va bene per la qualita della frequentazione, per lo standing dell’ambiente. Immaginate un individuo (maschio o femmina che sia, ma a maggior ragione se donna) di fronte a un locale, un locale pubblico intendo (bar, ristorante ecc). Se apre la porta e si accorge che, anche solo in un cantuccio, ci sono rozzi giocatori di carte, su di giri, che sbraitano e sbattono i pugni sul tavolo, ebbene l’individuo penserà “mamma mia, qui, se dico una parola fuori luogo, mi scotennano” e richiude la porta e se ne va. Se invece l’individuo, a maggior ragione se trattasi di una signora, apre la porta del locale e vede un clima rassicurante, luci soffuse, filodiffusione in sottofondo, camerieri con camicia bianca e papillon… ebbene l’individuo non percepisce alcun timore ed entra nel locale con serenità. Magari ritorna. Spero che le mie immagini metaforiche siano facilmente comprensibili nel loro significato più profondo. Trattasi di esempi figurati, ma chi vuol capire, capisce al volo.
È per questo motivo che ritengo prioritario questo aspetto procedurale. A Torino diciamo “tropa confiensa, ven men la riverensa”. Troppa confidenza,viene meno il rispetto. Cioè: ci vuole “distanza”, nella realta’ anche distanza fisica, in questo caso una distanza figurata visto che siamo in un ambiente virtuale. La distanza costituisce un “polmone” che garantisce un congruo margine di rispetto. Viceversa il modo di fare da manate sulle spalle, tarallucci e vino ecc, insomma il clima da osteria, cui alcuni di voi sono abituati, porta inevitabilmente e senza rendersene conto a uscite che feriscono (o rischiano di ferire) gli interlocutori, specie se donne, specie se donne di spiccata personalità “femminile”. Per intenderci se a una donna dici, incautamente, fai un’appunto su come è vestita, lei se lo ricorda per l’eternità e non ti perdonera’ mai. Anche in questo caso l’immagine è figurata, ma rende bene l’idea. Allora piuttosto che rischiare di esser sbeffeggiata, una donna se ne sta dignitosamente alla larga, anche da questo blog. E questo non è un bene per il blog. Meditate. Buona giornata a tutti.
PS: Roberto P: spero di aver sviluppato la questione femminile che hai posto. O almeno di aver messo un primo mattoncino. Sono curioso delle tue considerazioni. Ciao!
Francamente, stavolta non riesco a capire perché abbiate “preso su cappelle” a ‘sta maniera…
Un articolo è un articolo. Se ti interessa lo leggi, se non ti interessa no.
Sei libero di commentare sia in un caso che nell’altro e lasci liberi gli altri di giudicare (ed eventualmente giudicarti). Se non ti senti di lasciare agli altri questa libertà, allora l’unica è rinunciare alla tua e non scrivere
Non capisco quale sia il problema
Marcello – scusami se ti chiamo per nome senza averti mai visto – spero che tu ci ripensi.
Sarebbe un peccato non sentire più la tua voce.
L’alpinismo è un’attività ben determinata. Chi fa altre cose in montagna è liberissimo di farle, di gioirne (ci mancherebbe altro) è di scriverne.
Mi rendo conto che non si tratta di una notizia importante e neppure determinante ma questo è il mio ultimo commento in questo blog.
Il motivo è che quanto sostiene Carlo Crovella non mi piace, mi urta e ultimamente riempie con prepotenza ogni spazio.
Peccato perché il Gognablog mi interessava ma da quando ha preso questa piega assurda non lo trovo più interessante e anzi mi sembra quasi pericoloso per la salute mentale di qualcuno.
Saluti a tutti.
che bello è continuare a vivere la montagna reale dall’escursionismo all’alpinismo e avere voglia di mettere nero su bianco gli attimi vissuti senza sentirsi delle CORNICI intorno
Qui scrivo sempre e soltanto con il nome di palms, e nessun altro lo usa, né potrebbe usarlo, né io ho mai usato altri nomi.
Alludere ad abitudini diverse, senza saperne niente e senza prove, alimenta il sospetto che qualcuno sia abituato a scrivere cazzate, già avanzato da altri.
For Palms. Capisco il tuo punto di vista. Le responsabilità sono tuttavia sempre individuali. Usare categorie generali per criticare può essere pericoloso. Amo le categorie e gli schemi, sono come le coordinate geografiche, servono a navigare. Il loro difetto è che forzano la realtà e ci costringono dentro con violenza gli individui. Gli uomini sono molto più articolati e a volte costruiti con pezzi che appartengono a categorie diverse, come nel Lego. Ecco perché mi è piaciuto il bel libro del nostro Master & Host che ho citato. Prima parla di visioni e così fa felice il lato astratto e poi racconta storie di uomini e così soddisfa il lato emotivo ed esperienziale. Un po’ come succede qua. È vero, come ha notato la mia giovane amica, le donne sono poco presenti nel libro, ma putroppo anche qui ci sono meno storie di donne. E si sente. Come direbbe il prof. Sigmund, il fallo tende ad essere divisivo, ma quando il suo imperio sull’io cede con l’età, possiamo diventare un po’ più rotondi e inclusivi, liberati finalmente dall’eterno timore di confondere la nostra identità sessuale. Ciao.
@ Per Pasini 11: io ho la sensazione che girino diversi “nome de plume” che in realta’ sono degli isotopi di uno stesso personaggio, le cui posizioni, appesantite dalle travi negli occhi che tu hai ben evidenziato, sono note da tempo. Buona serata a tutti!
@17 No ho detto che non puoi leggere questo racconto. Ho detto che io non l’ho letto perché so che questa categoria di testi non mi incuriosisce e quindi li salto a pie’ pari. Suggerisco di fare altrettanto, su altri testi/commenti (evidentemente antitetici di contenuto e finalita’) se non sono di vostro gradimento. Se invece volete leggete tutto fate pure, cimancherebbe ma poi non protestate se qualcosa no vi piace. Inoltre non si comprende come voi vi riconosciute il diritto di dire che gli altri scritti non vi piacciono e invece negate pari diritto a chi non predilige i contenuti di vostro gradimento. Non possono esserci due pesi e due misure. Infine, seppur convinto che personalmente non scrivo cazzate (termine utilizzato in un commento precedente), rivendico il diritto di titto di poter scrivere (anche) cazzate. Tra l’altro: chi stabilisce quali sono le cazzate e quali no? Tale valutazione risente di estrema soggettività (ad esempio molte affermazioni altrui – mi riferisco principalmente ai commenti – io le giudico delle emerite cazzate). Anche qui non ci possono essere due pesi e due misure. O tutti possono esprimersi, compresi i “giornalisti che stanno sempre a casa”, oppure non può esprimetsi nessuno. Nel dubbio ritengo meglio tutti, ma rispettando il pensiero che non ci è proprio. Ciao!
@Pasini ovvio che ci sono tracce femminili, ci mancherebbe. Dico pero’ che sono poche, pochissime, rispetto al numero reale. Mia moglie, che non è certo una top climber, va peto’ forte (per una persona normale, intendo). In questa fase della vita, per svariate ragioni, va più forte di me. Eppure non segna le gite che fa neppure su un suo quadernino, meno che mai si sognerebbe di registrarle in quei siti di gite fatte, ancor meno le piace l’idea di scrivere o leggere articoli di montagna. La cito perché è l’esempio quotidiano che ho sotto gli occhi, ma se penso alle mie conoscenti che vanno in montagna, più o meno la conclusione è la stessa. Io personalmente, noto misogino, non “sento” particolarmente il problema (cioè se le donne si esprimono o meno sui temi di montagna), ma immagino che, generazione dopo generazione, il fenomeno si risolverà da solo. Magari fra 50 anni ci saranno quasi esclusivamente libri di alpiniste. Però questo è un tema che mi incuriosisce, sul piano dell’analisi sociologia e culturale,e mi riprometto di approfondirlo . Ciao
Ma sai Roberto, ci sono situazioni e situazioni.
Permetterai che se uno scrive un pezzo molto bello, come quello qui sopra, che è un racconto di montagna ma anche e soprattutto il ricordo di un amico scomparso in montagna, e qualcuno commenta che questi articoli non lo interessano eccetera eccetera, permetterai che un po’ mi girano e lo faccio notare?
Dico: ma che bisogno c’è di affermare le proprie regole – peraltro odiose come: se non ti piace non leggere – sotto il ricordo affettuoso di un amico scomparso?
Altrimenti se posso cerco anch’io di essere inclusivo e mi sforzo di essserlo.
Tutto qui.
Palms. Viva la libertà. Il mio avviso era solo di non fare quello che si rimprovera agli altri: creare divisioni e contrapposizioni bipolari che hanno effetti distorcenti (eh sì, gli specchi a volte distorcono). Un richiamo alla coerenza, non al silenzio. Tutto qui.
I giornalisti che stanno a casa scrivono emerite cazzate. Se ne è parlato anche nel blog. Vi siete dimenticati?
Oh beh, ci mancherebbe che adesso io non possa infastidirmi di quello che leggo, e non abbia la libertà – che reclamano in molti – di manifestare il mio fastidio…
Quanto al mio nome de plume sono abituato a vederlo preso di mira, niente di nuovo.
Ed è bene che sia così, perché tutto sommato, se leggi bene quello che ho scritto, è soltanto uno specchio quello che credo di aver mostrato, e da specchio si è tentato di mettermi da parte – (non leggere!; pianta dai frutti molesti!, sembrano proprio lanci dello specchio verso un altrove ?).
Era giusto mostrarlo, credo. Grazie per l’attenzione, comunque.
For Carlo. Un nome solo. Chaterine Destivelle. Non parlano? E come se parlano. Rock Queen è un libro bellissimo. Un punto di vista diverso su molti aspetti dell’andare per monti. Siamo noi maschi che facciamo fatica ad accettare come un eroe di riferimento una figura femminile. Ma la realtà sta cambiando nel mondo della montagna reale e tra un po’ di anni se ne vedranno gli effetti anche nel mondo delle montagne di carta.
C’è un’imprecisione, o quando meno una generalizzazione, nella definizione di chi vive “solo” di parole: sta in quel “solo”. Ci sono soggetti che vivono “anche” di parole, nel senso che alla montagna sul terreno (indipendentemente dalla difficolta’ affontata) si accompagna una loro attivita’ più o meno intensa di tipo intellettuale. Ma vogliamo esasperare? Vogliamo dire che ci sono individui che davvero vivono “solo” di parole e non si schiodano dal loro divano? E be’, anche se fosse, che rilevanza ha? Non è mica necessario “muoversi” per essere accreditati a parlare, altrimenti nessun giornalista farebbe il suo mestiere. Parlo di qualsiasi giornalista, non solo dei giornalisti di montagna. Sono due piani diversi, confonderli è un errore che molti di voi continuano a fare. A parte ciò, ricordo che basta sorvolare quando un argomento o un contributo o un dibattito non suscitano il proprio interesse. Non vi piacciono i dibattiti di chi vive solo di parole? Allora fate cosi’: quel giorno migrate su altre attività. Se vi costringete a sorbire i dibattiti che vi infastidiscono, siete degli autolesionisti nella migliore delle ipotesi. Dite che i dibattiti di quel tipo non trasmettono passione? E che importa a voi? Lasciate che li facciano gli “altri”… evidentenente per loro sono piacevoli e per loro l’eventuale assenza di trasmissione di entusiasmo è un elemento irrilevante. Lo stesso vale al contrario. Per esempio negli ultimi giorni sono stati pubblicati 3 articoli che a me personalmente non suscitano alcun interesse, in quanto io non appartengo a quel modo di fare montagna. Non ho nulla da eccepire sulla qualità degli scritti, è il loro contenuto che non mi intte. Si tratta di due articoli sulla Patagonia e questo qui. Appena li ho visti, non li ho neppure aperti o se li ho aperti li ho scorsi velocemente senza leggere neppure una riga. Ho richiuso e mi sono dedicato ad altro. Mi avete visto commentare tali articoli in modo negativo tipo “che schifo, che palle, che fuori di testa sono questi qui?”. No, anche se in cuor mio penso quelle cose, pero ho chiuso e mi sono dedicato a leggere altro. In modo speculare dovrebbero fare quelli che trovano detestabili i testi o i dibattiti fatti da chi vive di parole. Anziché ripetete alla noia la nenia che “sanno di muffa, che non trasmettono entusiasmo che qui, che la’…”, basta che vi defiliate e non se ne accorge nessuno. Però smettetela di continuare con sta solfa, che tanto è un problema irrisolvibile, in quanto ciò che piace a voi non piace ad altri e viceversa.
PS: per Roberto, alle donne non interessa l’apparire in montagna, è vanità squisitamente maschile. Mia moglie non scrive un rigo della “sua” montagna, né è gelosa e non la vuole condividere con nessuno. Chissà quante alpiniste forti o fortissime esistono, ma non lasciano traccia, per cui non se ne sa nulla e non incidono sull’evoluzione dell’alpinismo. Se ci tengono, dovranno cambiare loro, non ha senso che ci attiviamo noi per stanarle. Ciao!
For Palms. Possibile che tu non veda la famosa trave ? Critichi chi vive di divisioni e poi tu fai una netta divisione bipolare tra chi partecipa al blog e ci appoggi sopra anche un giudizio etico, condito da un certo disprezzo. Non so da dove derivi il tuo nome de plume, visto che palm in inglese ha vari significati (esiste anche un verbo: to palm off, appioppare, affibiare). Se è il plurale della pianta, mi permetto di dire, con rispetto, che anche tu metti in circolazione datteri tossici. Sarebbe meglio portare al mercato frutta che magari non piace, ma contribuisce a dare sapore alla macedonia senza inacidirla. Salut.
Ognuno faccia come vuole, certo.
Eppure nei commenti a questo blog, a tutto il blog, una differenza netta si nota tra chi vive di montagna e chi vive di parole.
Sempre appassionati i primi, che cercano di trasmettere il senso di qualcosa di profondo che la lettura del pezzo ha suscitato o risvegliato, per coinvolgere anche tanti altri lettori.
Appassionati anche quelli che vivono di parola, ma sempre divisivi nei loro commenti, sempre intenti a tracciare un noi/loro. E si capisce: se vivi di parola la polemica fa audience, ascolto, presenze, la polemica movimenta e infiamma, ciò che viene scambiato per interesse diffuso – ma pare invece soltanto specchietto per le allodole a chi ama sentirsi coinvolto, da chi vive di montagna in particolare.
Addendum. Me ne sono accorto ora, perché me lo ha fatto notare una donna. Nelle biografie degli eroi di riferimento prima citate non ci sono donne. Ci entrerà lei tra 30 anni? Chissa? Difficile dirlo. I criteri possono cambiare, a volte in modo imprevedibile. Mi colpisce il numero 9: 19 anni, 9 b. “Ieri nella falesia di Rodellar in Spagna la 19enne climber romana Laura Rogora ha ripetuto “Ali hulk sit extension total” diventando una delle pochissime persone al mondo capaci di salire una via di 9b e soltanto la seconda donna a salire una via di queste difficoltà.”
A proposito di calcio, è buona educazione fare il tifo, anche sfegatato, per la propria squadra del cuore, ma evitare assolutamente di fare il tifo “contro” le altre squadre. Fuor di metafora: è bello, oltre che legittimo, lasciar scritto che un qualche contributo (articolo o commento o dibattito inteso come sequenza di commenti) ci è piaciuto, è invece fastidioso esprimere valutazioni sconvenienti e denigratorie sull’altrui modo di pensare e di vivere. Vivere in assoluto e vivere la montagna nello specifico. Anche perché le valutazioni sono speculari, per cui gli antagonisti potrebbero fare commenti analogalmente negativi sul vostro modo di vivere. Non c’è il giusto e lo sbagliato oggettivo. Non tutti i gusti sono alla mente, diciamo in Piemonte, e spesso chi predilige il cioccolato detesa la crema, aggiungo io. È inutile continuare a dire “secondo me, chi fa così, non fa cosa’…”, tanto se la crema non piace, non piace. Basta, quel giorno, non leggere l”articolo/commento/dibattito e tutti viviamo più sereni, senza darci fastidio. Ognuno faccia la montagna che predilige e ne parli con i modi che gli sono più propri. Quanto alla corrispondenza fra attività sul terreno e legittimazione a esprimersi, conosco rinomati giornalisti del settore che non toccano l’alpe da decenni, per cui ognuno è libero di muoversi (sia sul terreno che sul foglio bianco) come meglio crede. Aggiungo infine: “La forma è sostanza” dicono i giuristi e quindi anche le frasi, il tono, le parole in cui ci si esprime possono contenere un taglio fastidioso per gli interlocutori. Siate accorti, evitate in ogni modo di infastidire chi non la pensa come voi. Buona domenica a tutti!
“Signorina il catalogo è questo”. Sto leggendo l’ultimo libro di Gogna (ma vado anche in montagna Marcello, compatibilmente). Contiene la descrizione di 13 “Visioni verticali” o schemi/modelli interpretativi e motivazionali dell’andare per monti che si sono succeduti nel tempo, accuratamente delineati con la collaborazione di Lorenzo Merlo. A seguire, 17 biografie di eroi dell’Alpe, sintetiche ma molto illuminanti. C’è di tutto: dall’eroe borghese al borderline. Ognuno può trovare la “filosofia” e l’eroe di riferimento che più è allineato coi suoi sogni/bisogni: visto che l’alpinismo è contemporaneamente azione e rappresentazione, per qualcuno più azione, per altri più rappresentazione, per altri ancora entrambi. C’è poi chi non si contenta dell’enciclopedia ma ritiene di dover stabilire graduatorie in base ai suoi personali criteri. Che dire ? “Grande è il disordine sotto il cielo” diceva il presidente Mao e aveva ragione perché la vita è “disordine” organizzato.
Cesare Maestri ha sempre sostenuto che per cento alpinisti ci sono cento alpinismi e credo abbia avuto ragione. Sta di fatto che, nel caso specifico cui mi riferivo, leggendo questo racconto schietto e uscito dal cuore, le emozioni provate mi abbiano fatto pensare con un bel sospiro: finalmente un racconto di quell’alpinismo come lo intendo anch’io, fatto di rischio, fatica e vita fuori dall’ordinario che poco o nulla ha a che vedere con l’accademia che fanno quelli che teorizzano da casa sulla montagna che fa da sfondo e non da protagonista. Per carità, nessuna condanna a chi non ama sporcarsi le mani, ma per me l’alpinismo è un qualcosa di profondamente grezzo da associarsi alla sopravvivenza e non a discorsi assimilabili ai dotti teorici del calcio, per esempio, che a parole sanno tutto ma coi piedi mandano la palla dove vuole lei. Per me fare accademia e non salite complesse è un richiamo alla storia della volpe e l’uva, ma con ciò non nutro nessun sentimento di disprezzo verso chi non rischia la pelle abbastanza. Una cosa credo sia certa: senza trovarsi in certe situazioni limite non c’è alpinismo (di nessun tipo) ma c’è semmai attività ricreativa. Si può scegliere, per fortuna, e a ognuno le gesta.
infiniti sono i modi di scrivere, di leggere, di ragionare e di dibattere sulla montagna. Io prediligo utilizzare la montagna come strumento per ragionare di altro, attualità, politica, letteratura, ideologie…
non riesco a vedere la montagna come strumento per ragionare di altre cose
utilizzerei altri strumenti per farlo
ho scritto tanto di montagna e solamente perché le esperienze vissute mi portavano a narrare nero su bianco….in automatico
mi piace godere di quello che scrivo, di quello che leggo, e dell’andare in montagna
Usare il termine “alpinismo”, al singolare è un errore concettuale molto diffuso in cui incappo spesso anche io, per comodità. In realtà occorrerebbe utilizzare il termine “alpinismi”, perché infiniti sono i modi di andare in montagna. Nessuno migliore degli altri. Tutti rispettabili allo stesso modo: le preferenze sono esclusivamente personali e soggettive. Allo stesso modo, infiniti sono i modi di scrivere, di leggere, di ragionare e di dibattere sulla montagna. Io prediligo utilizzare la montagna come strumento per ragionare di altro, attualità, politica, letteratura, ideologie… ma il punto è ancora un altro. Se si sceglie una sola linea editoriale, si circoscrive la platea dei lettori. Viceversa alternando i temi, i contenuti, gli stili e gli approcci, si tiene vivo l’interesse di un più ampio pubblico di lettori. Ogni giorno ciascuno sceglierà se addentrarsi o meno nella lettura del testo proposto quel giorno. Io, per esempio, articoli come questo mi limito a scorrerli molto velocemente, ma in genere non li “leggo” con attenzione. Non catturano il mio interesse. La montagna che trattano non mi appartiene o, meglio, io non appartengo a questa montagna. Troppo distante da me, da come sono fatto e da come vivo, per vocazione, per educazione familiare, per limiti del mio talento. Però non protesto se ci sono testi così: è corretto che sia rappresentata anche l’antitesi del mio pensiero. Altrettanto, però, va fatto da chi, prediligeno questi testi, trova ammuffiti e stucchevoli quelli antitetici. Altrimenti non c’è equilibrio, non c’e’ rispetto reciproco. Fermo restando che la linea editoriale di una rivista o di uno spazio web non compete né ai lettori né agli autori dei testi, bensì alla redazione… Buona serata a tutto@
Racconti belli. La voglia e l’incanto del partire per le montagne. Subito.
Alpinismo fatto da alpinisti!
Nulla collega tutto ciò a gerarchi baffuti dispensatori di teorie necessarie soltanto a loro stessi.
Questo bel racconto di vera vita serve a scrollarci di dosso la polvere e la muffa di tanti discorsi recenti che usavano la montagna per parlare di tutt’altro.
Peace and love, ma sul serio!
Bellissimo, Grazie Tore.