Metadiario – 51 – Il Mount Kenya (AG 1974-001)
Il primo problema che si deve affrontare appena scesi all’aeroporto di Nairobi si riferisce alla sistemazione del cappotto con il quale si è partiti dall’Italia. Sebbene tutto all’inizio sembri assai complicato, le cose lentamente si avviano: dopo la dogana, i bagagli sono imbarcati sui pulmini, e quando anche noi siamo stivati dentro, si parte. Il centro di Nairobi è assai moderno e non è molto interessante, a parte una notevole lezione urbanistica, seguita dallo squallore delle bidonville periferiche che naturalmente non attraversiamo.
Subito dopo incomincia la grande distesa dell’altopiano, verso l’equatore e verso il Mount Kenya 5199 m. Non abbiamo ancora smaltito i vari pranzi natalizi, ma ciò non c’impedisce di fare notevole onore alla cucina dell’hotel Naro Moru, un po’ inglese con variazioni africane. L’organizzazione “Alpinismus International” ha preparato la spedizione a puntino: qui ci forniscono i portatori e la Land Rover per salire su una pista di terra e fango battuto fino a 3000 metri.
Il breve soggiorno al Naro Moru è godibile, con quell’atmosfera ancora vagamente colonialista, una gestione prettamente british.
Siamo in sette: la guida Cosimo Zappelli (che pochi giorni fa ha già salito la montagna con altri compagni), tre lombardi, Oliviero Elli, Giuseppe Mosca e Pedrini, un torinese, Marco Ravera, il bolognese Venturoli ed io.
La salita nella foresta prima e poi a piedi sui vasti pendii erbosi non finisce di riservarci belle sorprese, anche nel mio caso che sono già stato qui l’anno scorso. All’intrico delle più contorte e gigantesche piante tropicali, seguono le caratteristiche macchie di seneci; lobelie molto sviluppate fanno da sentinella a questo magnifico mondo intatto e protetto dalla tutela di parco nazionale. A 4170 metri vi è un campo fisso, il McKinder Camp (dedicato a Halford John Mackinder, il primo salitore della montagna): un attendamento assai comodo con cuochi di colore, prima del rifugio situato ancora più alto.
A quest’ultimo il gruppo, condotto dalla nostra guida locale, arriva il 30 dicembre 1973: il malessere della quota, senza una grande acclimatazione non tarda a farsi sentire, si spera solo che duri il minimo necessario.
In quella giornata Cosimo ed io ci concediamo la parentesi della via Merendi dello spigolo sud della Punta John 4883 m, un meraviglioso torrione di circa 300 metri addossato al massiccio del Kenya. Si tratta di un itinerario molto estetico aperto da Romano Merendi, Lorenzo Marimonti e Giorgio Gualco il 17 gennaio 1958. Saliamo con il gruppo fino a un caratteristico lago gelato alla fronte del Lewis Glacier, poi ci separiamo e traversiamo sui detriti morenici fino all’attacco, situato a destra dei canali che costituiscono la via normale della Punta John, che quasi nessuno oggi segue più in salita. Lo spigolo si presenta con quattro distinti risalti verticali. Dopo qualche facile lunghezza ci alziamo sul primo salto di granito rosso e verticale. Con un camino arriviamo alla base della seconda torre. Le due lunghezze necessarie per salirla sono le più belle della via, con arrampicata elegante ed esposta, mai superiore al IV grado. Con altre cinque lunghezze, molto affiatati, Cosimo ed io raggiungiamo la vetta della torre finale. Da lì scendiamo, un po’ in arrampicata e un po’ in doppia, per la via normale. Recuperati gli zaini andiamo al Lenana Hut per ricongiungerci con i nostri compagni.
E’ il tramonto: la vetta del Mount Kenya ci sta proprio di fronte, la Punta Lenana è a portata di mano e un orizzonte sconfinato, con il magnifico cielo d’Africa, fa da cornice. Il giorno di San Silvestro saliamo tutti la Punta Lenana 4985 m e la Punta Thomson 4955 m, solo un soffio per i 5000 metri.
E a Capodanno la grande avventura: mentre i nostri compagni effettuano l’intero periplo di tutto il massiccio, Oliviero Elli ed io attacchiamo, all’alba di una magnifica giornata, le rossastre rocce del Kenya. Lo storico percorso si snoda intelligentemente, le difficoltà vengono superate ad una ad una, su una roccia vulcanica assai compatta: ad ogni terrazzino è una piccola sosta per vivere meglio e per inserirsi di più in questo ambiente.
Dopo il primo tratto di media difficoltà (III), la famosa Donkey Walk (passeggiata dell’asino), superiamo il tratto più difficile, quella Rabbit Wall (muro del coniglio) subito accanto al camino Mackinder. Con difficoltà decrescenti arriviamo al termine della bastionata sud-est, dove ci si affaccia sul tetro bacino del Diamond Couloir. Ma vediamo assai poco, perché ormai le prime nebbie cominciano ad avvolgere la montagna, come sempre accade di pomeriggio. Fin qui non siamo stati così veloci, ed è con senso di responsabilità che assieme decidiamo di rinunciare alla vetta più alta (il Batian 5199 m), che avrebbe richiesto un’impegnativa traversata obliqua del ripido ghiacciaio, preferendo così toccare le rocce della vetta gemella (Punta Nelion 5188 m), di soli undici metri più bassa del Batian.
Un breve riposo accompagnato da uno spuntino prima di scendere il più velocemente possibile a corde doppie. Il mio compagno sente la stanchezza e la quota, ci muoviamo lentamente rifacendo lo stesso percorso della salita, con tratti in corda doppia e tratti in arrampicata fino ad arrivare alla base. Sarà alle ultime luci che arriveremo al rifugio, dove passeremo ancora una notte.
Il giorno dopo incomincia la discesa, e l’avventura si può dire terminata, a parte la visita del selvaggio parco delle Aberdare Mountains, con incontro notturno di branchi di bufali ed elefanti.
Il rientro in Italia, dopo circa 10 giorni di viaggio, si presta ad alcune considerazioni: ormai viaggiare è facile e tanti lo fanno, ma una salita al Kenya, pur notevolmente addomesticata rispetto ad alcuni anni fa, è sempre una bella esperienza degna della miglior tradizione africana. Le vette di questo continente hanno una vastità di panorama eccezionale, perché sono molto isolate, e l’ambiente naturale, flora e fauna, è parte integrante dell’esperienza, come non sempre sulle Alpi succede.
Sono ancora capace di arrampicare, nonostante l’Annapurna. Mi ha impressionato la volontà del mio compagno, non più giovane: mentre penso che sono ancora con i piedi e le mani sulla roccia.
Mi sento debole: sono stato fiaccato alla radice dei miei sogni. Ho grande bisogno di famiglia, di vicinanza, di affetti. Con Nella riprendiamo ad andare un po’ in montagna, cominciando dalle vicine mete lecchesi. Così il 13 gennaio 1974 salgo con lei sulla vetta della Grigna Settentrionale (il Grignone 2410 m): è domenica, ha nevicato forte qualche giorno fa. Dal Colle di Balisio raggiungiamo di buon’ora il rifugio Tedeschi al Pialeral: sono qualche decina gli escursionisti che salgono per l’uniforme pendio orientale fino al rifugio Brioschi e fino alla croce, carica di neve ventata. Con noi è la nostra cagnolina, Skippy, che si sta rivelando sempre più appassionata di montagna: sembra che la neve sia il suo terreno, eppure non ha nulla a che vedere con qualsiasi tipo di razza “esquimese”, tipo husky o samojedo. Inutile dire che lei la salita la fa quasi due volte, perché ci precede, poi riscende da noi, poi va di nuovo avanti, accarezzata da tutti gli altri gitanti. Una bellissima giornata, che decidiamo di ripetere, questa volta dirigendoci allo Zucco di Campelli 2161 m. E’ la domenica dopo, 20 gennaio. Con la telecabina saliamo ai Piani di Barzio, poi al rifugio Lecco, quindi ci addentriamo con gli sci e le pelli nell’ancora ombrosa conca che racchiude il versante occidentale dello Zucco. Alla base del conoide che sta sotto al Canalone dei Camosci lasciamo gli sci e proseguiamo a piedi con i soli bastoncini da sci. Il canale non è ripido, ma occorre comunque fare attenzione. La neve buona ci permette di salire velocemente fino in cresta, finalmente al sole, e da qui alla cima. Skippy sempre più brava, e faccio a entrambe i complimenti. Anche la discesa si svolge regolarmente: recuperati gli sci, li toglieremo solo arrivati all’auto che avevamo lasciata al posteggione della telecabina. Ma qui, in questa parte di gita, eravamo noi ad aspettare Skippy…
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Nel 1980 ci sono stato ma volontariamente non sono salito alla Nelio, ma sono molto contento ugualmente.dopo averlo letto mi è ritornata la voglia di farlo.Ho preso 2 tue foto, ma ho citato la fonteCi ho scritto un racconto con fotografie su FB, se volete guardarlo lo trovate qui.https://www.facebook.com/meissner53/posts/pfbid02JYi3czSYjj2WsJg41UhZYmB5rbRejhnYYsG2qYDbDA3my421Wskdaq9mdUom5vul
Stasera ripenso al mio caro amico Oliviero, quanto mi manca!! davvero mi manca, ripenso quanto fatto insieme nonostante il divario di età. Sapevo della sua salita al monte Kenia perchè me l’aveva raccontata, ascensione effettua in età matura credo intorno ai 50 anni. Casualmente stasera ho trovato questo articolo, ringrazio chi lo ha scritto. Bene, grazie molte Sandro
un sogno che non ho mai realizzato salire il monte Kenya
un piccolo dispiacere che è stato assorbito dalle avventure e dalle foto delle montagne di casa mia in Valsasina
montagne che ho goduto sia per piacere che per gli allenamenti
complimenti per l’articolo
Alessandro, se sei “vecchio” adesso, o non più giovane è perché, hai avuto la fortuna di nascere nel momento giusto e vivere esperienze attualmente impossibili.
Complimenti Alessandro, questi racconti mi fanno vivere il “cuore” della montagna.
Potrà sembrare strano, ma oltre il fascino del breve e tranquillo racconto africano, è l’ultima parte a emozionarmi.
I miei sabati e domeniche, prima di vivere qui a Ferrara, erano caratterizzati dalle tranquille notti nel Vallone dei Camosci. E poi colazione sul Capelli.
Appena porevo, se non andavo più lontano, quel Vallone è stato la mia seconda casa.