Zio, nipote e le Valli di Lanzo

Ugo Manera ci regala questo bel ritratto di due personaggi che hanno fatto la storia alpinistica delle Valli di Lanzo ed in particolare della Val d’Ala: Giuseppe Dionisi e Franco Ribetti

Zio, nipote e le Valli di Lanzo
di Ugo Manera
(pubblicato su vallidilanzoinverticale.it, 25 gennaio 2021)

Se si scorrono le vicende alpinistiche delle Valli di Lanzo si incontrano dei personaggi che non possono essere dimenticati. Tra questi vi sono sicuramente Giuseppe Dionisi e suo nipote Franco Ribetti.

Zio e nipote (Giuseppe Dionisi e Franco Ribetti)

Dionisi è stato, con Giorgio Gino Rosenkranz, il fondatore della Scuola di Alpinismo Giusto Gervasutti di Torino. Era nato nel 1915, originario del biellese. Troviamo una sua traccia alpinistica in valle di Lanzo fin dal 1934 quando, diciannovenne, con suo fratello, tracciò una nuova via sulla Piramide del Plu. Sulla stessa struttura negli anni ’50 aprì altre due vie. Divenne un frequentatore della Valle di Ala quando iniziò a scalare con i fratelli Rosenkranz. I Rosenkranz erano quattro fratelli, tre maschi: Giorgio, Daniele, Sergio ed una femmina: Neva. Possedevano una casa ad Ala di Stura ove trascorrevano le vacanze. I tre fratelli maschi scalavano, loro è la celebre via aperta sulla parete nord dell’Uja di Mondrone nel 1939. Con i tre fratelli in quell’impresa vi era anche Adriana Ribetti, sorella del padre di Franco Ribetti. Dionisi, tramite i Rosenkranz, conobbe Adriana che divenne sua moglie, quindi zio acquisito di Franco.

Giuseppe Dionisi

La famiglia Ribetti era da molto tempo in pianta stabile ad Ala di Stura ove possedeva una grande casa nei pressi della Stura. Tutti in famiglia andavano in montagna, soprattutto Adriana, spesso compagna di cordata dei Rosenkranz. La casa di Ala era diventata per loro la casa di vacanze e durante la guerra, sfollata da Torino, la famiglia si trasferì lì quando nella città capoluogo iniziarono i bombardamenti.

Giorgio Rosenkranz

Giuseppe Dionisi era uno sportivo, prima dell’alpinismo praticò il ciclismo e mi pare anche il pugilato. Quando l’Italia dichiarò guerra alla Francia egli era militare e si trovò impegnato sul fronte delle Alpi. Nel corso di una azione di guerra gli scoppiò vicino una granata e venne ferito gravemente ad una spalla. La ferita si infettò ed i medici decisero di amputargli il braccio, ma Dionisi non dette il consenso dicendo che preferiva morire di infezione che perdere un braccio. Non morì e guarì dall’infezione; perse però parte della mobilità della spalla e tale menomazione gli limitò per sempre alcuni movimenti nell’arrampicata su roccia. Si specializzò perciò nella scalata su ghiaccio quando scalare pareti ghiacciate significava praticare centinaia e centinaia di gradini nel ghiaccio con la piccozza.

Pino Dionisi alle Courbassere

Dopo l’8 settembre 1943 entrò nella resistenza e da partigiano partecipò ad azioni di guerriglia. Di questa parte della sua vita non amava parlare e, se raccontava volentieri delle cose di montagna, non l’ho mai sentito accennare alla sua attività di partigiano. So che effettuò un coraggioso sminamento della sede SIP di Torino e che nascose ad Ala di Stura Maggi, lo storico custode del rifugio Terzo Alpini di Valle Stretta, anch’egli partigiano, ricercato dai nazifascisti. Ma non so altro.

Franco Ribetti mi raccontò che loro sapevano di un mitra con relative munizioni nascosto da qualche parte nella casa di Ala, lui e suo fratello lo hanno cercato per anni ma, per fortuna, non lo hanno mai trovato.

Finita la guerra Dionisi riprende l’attività alpinistica spesso in cordata con Giorgio Rosenkranz; nel 1947 decisero di fondare una nuova scuola di alpinismo diversa dall’allora esistente scuola Boccalatte del CAI Torino. Una scuola non più vincolata ai canoni piuttosto elitari e borghesi del CAAI (Club Alpino Accademico) ma più aperta ai giovani emergenti di estrazione proletaria. Dunque nel 1948 diedero vita alla scuola di Alpinismo Giusto Gervasutti.

La scuola Gervasutti a fine anni ‘60

Dionisi e Rosenkranz avevano il loro centro di riferimento per l’attività alpinistica ad Ala di Stura perché lì avevano casa ma anche perché attorno vi erano tante possibilità di scalata su terreno che ben soddisfaceva la loro idea di insegnamento dell’alpinismo. Rosenkranz era un atleta, riserva della nazionale olimpica di ginnastica, prediligeva l’arrampicata elegante su roccia. Scoprirono i massi delle Courbassere, il Plu, l’Uja di Mondrone e, per il ghiaccio, le nord di Ciamarella, Piccola Ciamarella, Punta Chalanson. Nella parte più bassa del Monte Plu crearono la Cresta della Scuola che per molti anni restò il percorso ideale per avviare gli allievi del primo corso allo “sviluppo della cordata”. La facile Cresta dell’Ometto poi, all’Uja di Mondrone, fungerà da primo contatto con l’alta montagna per i principianti.

Pino Dionisi ai Denti di Cumiana

Anche se l’attività futura della scuola si svilupperà su vari gruppi delle Alpi, la Valle d’Ala resterà un passaggio fisso per tanto tempo e le Courbassere, ancora oggi, rappresentano una tappa obbligata per la Gerva.

Pino Dionisi era un uomo determinato dalle pronte decisioni. Per usare una terminologia forse passata di moda di lui si poteva affermare: “E’ un uomo tutto di un pezzo”. Era convinto che ogni cosa, soprattutto nella scuola, dovesse scivolare lungo i binari di una perfetta organizzazione e che tale organizzazione poteva reggersi in piedi solo se la divisione di compiti e responsabilità rispettava una rigida scala gerarchica. Nella “Sua Scuola” l’allievo doveva dare del “lei” all’istruttore e la stessa cosa doveva fare l’istruttore nei confronti dell’allievo. Per lui la confidenza era nemica della disciplina e dell’ordine. Questa regola esisteva poi solo nei desideri di Dionisi, in pratica istruttori ed allievi si comportavano in modo molto diverso.

Istruttori della Gervasutti istruttori del corso guide al rifugio Zappa seduto Arturo Rampini ultimo a destra Franco Ribetti

I suoi giudizi erano piuttosto tranchant anche se non sempre coglievano nel segno. Citerò un esempio: Claudio Sant’Unione si iscrisse diciasettenne al primo corso della Gervasutti, alla prima uscita il suo equipaggiamento era un po’ raffazzonato e (cosa gravissima!) era ancora sprovvisto dello zaino. Si presentò con le sue cose poste in un sacchetto di nylon. Dionisi lo scorse, lo guardò con disapprovazione e gli disse: “Lei non sarà mai un buon alpinista!“. Claudio in quel corso venne bocciato ma, in seguito, mai una sentenza così drastica come quella di Dionisi si rivelò tanto errata.

La visione dionisiana dell’alpinismo è rigidamente conservatrice: emblematico un suo articolo apparso su Scandere, l’annuario della Sezione CAI Torino, nel 1949:

Perché nacque la scuola di alpinismo Giusto Gervasutti
di Giuseppe Dionisi

E’ un vero manifesto programmatico della scuola secondo Dionisi e, nello stesso tempo, un documento di rigido conservatorismo; come tutte le posizioni conservatrici, destinato ad essere stravolto nel tempo. Gli odierni scalatori possono sorridere e non capire la contrapposizione tra alpinismo e sport ma debbono sapere che, fin dalle origini della nostra attività, questa contrapposizione è esistita. I puristi conservatori consideravano un sacrilegio associare la parola sport all’alpinismo. L’alpinismo era per loro una attività ad alto livello morale che spingeva l’uomo a migliorarsi nell’eroica corsa verso l’alto. L’arrampicata fine a se stessa, in un’ottica sportiva, era considerata una degenerazione. Fortunatamente tali ideologie sono scomparse ed oggi più nessuno né prova nostalgia.

Sulla base di tale descrizione si potrebbe immaginare il personaggio Dionisi con tendenze dittatoriali; in effetti egli aveva in sé un naturale atteggiamento da “Capo”, ma era anche estremamente disponibile nei confronti degli altri, sempre pronto a farsi in quattro quando qualcuno aveva bisogno di qualsiasi tipo di aiuto. Aveva poi talento e grande disponibilità nell’avviare e seguire i giovani nell’attività alpinistica. Egli era in rapporti con la famiglia Motti che passava le vacanze a Breno nella Val Grande di Lanzo. Quando vide che il giovanissimo rampollo della famiglia, Gian Piero Motti, correva con grande passione per i sentieri della valle con il desiderio di salire sempre più in alto, lo prese un po’ sotto la sua ala e lo portò, allievo molto giovane, alla scuola Gervasutti, con i risultati che tutti conosciamo.

Pino Dionisi

Dell’attività alpinistica di Pino Dionisi nella “sua Valle” voglio ancora ricordare la prima invernale della parete delle Lance alla Ciamarella nel 1954, una nuova via sull’Uja di Mondrone, un’altra via nuova sulla Bessanese, la ripetizione con varianti di una via di Gervasutti sulla Torre d’Ovarda.

Nel 1954 Giorgio Rosenkranz, cofondatore insieme a Dionisi della Gervasutti, partecipa ad una spedizione al monte Api in Himalaya e da quella spedizione non fa più ritorno: muore per malore su quella montagna lontana.

Pino Dionisi ai Denti di Cumiana

La famiglia Ribetti era una famiglia numerosa: tre sorelle e due fratelli. Franco era il più giovane dei due fratelli e, probabilmente, il più viziato dalla mamma. Ad Ala di Stura trascorrevano le vacanze estive e dai genitori, e dalla zia Adriana, Franco e suo fratello Giorgio, hanno ereditato la voglia di andare in montagna; fin da ragazzini scorrazzavano sui pendii della valle cacciandosi spesso in posti pericolosi.

Giorgio (a sinistra) e Franco Ribetti

Franco mi racconta che lui era magrolino e cagionevole di salute. Dice di sé: “Ero una ‘mezza sega’, sempre ammalato!”. Lo zio Pino sosteneva che bisognava fargli fare attività fisica per rinforzarlo così, tredicenne, lo portò alla scuola Gervasutti. Non solo Franco si rinforzò ma si dimostrò eccezionalmente dotato nell’arrampicata e totalmente senza paura, tanto che spesso suo zio interveniva per frenarlo. A 16 anni, nel 1955, divenne istruttore nella scuola. Scalava spesso con suo fratello Giorgio con il quale aveva uno stretto legame. Anche Giorgio divenne istruttore della scuola Gervasutti.

Al centro Ribetti quattordicenne con lo zio Dionisi con pipa in bocca e distintivo della scuola Gervasutti sul petto

Da come l’ho conosciuto io, Franco è un tipo che non ama parlare troppo ma è sempre pronto alla battuta spiritosa, credo sia sempre stato così: portato più all’azione che alle parole. Un loro problema a quel tempo era la cronica mancanza di soldi; Franco per guadagnare qualche cosa si mise a tracciare i sentieri a cottimo, vestito di un vecchio impermeabile, con i barattoli della vernice appesi a vita, su e giù di corsa per i sentieri della Valle. Sempre per racimolare qualche cosa si mise a catturare le vipere che poi vendeva ai centri di raccolta per la preparazione del siero antiofidico. Non disponevano di mezzi di trasporto e le salite cominciavano quasi sempre a piedi da Ala con avvicinamenti infiniti.

Franco Ribetti quattordicenne alle Courbassere

In quegli anni l’arrampicata sui massi era quasi sconosciuta. Era noto che i parigini scalavano sui massi nella foresta di Fontainebleau e si conoscevano altri pochi esempi qua e là, ma da noi questa pratica non esisteva prima delle Courbassere e, sui massi vicino ad Ala, Franco fu il principale protagonista. Superò per primo dei passaggi molto difficili e rischiosi. Come è stata sempre sua abitudine, egli minimizzava le prestazioni in genere e soprattutto le proprie. Non gli è mai importato nulla di apparire per cui raramente dava notizia delle cose fatte così, anche alle Courbassere, molti passaggi attribuiti ad altri erano già stati saliti da lui come il passaggio Casarotto, che Franco aveva già superato molti anni prima che il celebre scalatore vicentino venisse condotto da Gian Carlo Grassi sui quei massi.

Franco Ribetti, 1960

Oltre all’attività nella scuola, Franco sviluppò la sua azione con molti degli scalatori di punta dell’ambiente torinese di quel tempo. Si legò strettamente con Guido Rossa, erano ambedue scalatori eccezionali, disincantati, senza paura e sovente trasgressivi. Insieme ne hanno combinate di tutti colori in quelle che Franco definisce: “Stronzate Alpine”. Franco era il più giovane e con poche inibizioni e paure spesso veniva mandato avanti come apripista in scherzi ed azioni ben fuori dalle righe. Entrò nel Club Alpino Accademico giovanissimo con un’attività del tutto eccezionale.

1959, a Roma vengono premiate le cinque migliori attività alpinistiche di giovani scalatori italiani: Franco Ribetti riceve il premio

In valle d’Ala in quegli anni c’era un altro giovane destinato a lasciare il segno nell’alpinismo torinese: Alberto Marchionni. Aveva una casa a Balme e lì trascorreva le vacanze estive. Come Franco era un tipo trasgressivo, pronto a qualsiasi azione poco raccomandabile. Si dimostrò un ottimo arrampicatore e Franco lo portò alla Gervasutti dove divenne istruttore nel 1961. Viste le affinità, legò con i fratelli Ribetti ed insieme girarono in lungo ed in largo le pareti della valle, sempre senza quattrini e con degli avvicinamenti infiniti essendo privi di mezzi di trasporto. Mi pare che Alberto fu il primo a poter disporre di uno scooter per gli spostamenti.

Ribetti istruttore della Gervasutti sulle placche delle Courbassere alte

Franco era sempre più scatenato in montagna fino a quando, nel 1960, avvenne il grave incidente. All’inizio dell’estate la scuola Gervasutti aveva in programma una uscita nella abituale Valle d’Ala e con i soliti obiettivi; tra questi l’Uja di Mondrone. Il tempo non era bello e nella notte era piovuto, ciò malgrado Franco ed altri si diressero sotto la Nord per salire la via Rosenkranz. Franco attaccò la via per primo e, come era nelle sue abitudini, salì i primi 40 metri non difficili, senza mettere protezioni. La roccia era umida e, o perché gli è scivolato un piede, o perché il suo allievo l’ha squilibrato non facendogli scorrere abbastanza velocemente la corda, cadde e rotolò fino alla base della parete. Per sua fortuna non si schiantò sulle pietre ma finì su una lingua di neve che ancora esisteva. Fu subito chiaro a tutti i presenti, istruttori ed allievi, che era gravissimo ed in pericolo di vita. Si trattava di trasportarlo a valle. Allora non esistevano elicotteri e, per operazioni di soccorso, bisognava trasportare l’infortunato a spalle. Qualcheduno si precipito alla ricerca di qualche cosa di idoneo al trasporto. Nelle grange più prossime venne rinvenuta una vecchia scala a pioli, fu trasportata fino alla base della parete e questa fu la barella per il trasporto di Franco fino alla strada carrozzabile.

Aveva riportato fratture ovunque oltre che gravi lesioni interne. Il professore che lo prese in cura fece miracoli ma ci vollero 2 anni per guarire completamente.

Ribetti in artificiale, 1959

Quando fu in grado di riprendere l’attività motoria provò nuovamente a scalare ma intanto si era molto impegnato nella carriera lavorativa e stava per sposarsi; decise di chiudere con l’alpinismo. Cessare l’amata attività non significò smettere con lo sport, anzi. Si dedicò al ciclismo: aveva uno zio ex campione ciclista e con lui percorse tutti i colli più duri e celebri delle Alpi, compresa la traversata del Colle delle Traversette passando per il Buco di Viso con le biciclette a spalle. Continuò intensamente con lo sci alpinismo, spesso con il fratello. Praticò molto anche la corsa a piedi, attività per la quale era portato.

Franco Ribetti ciclista

Passarono gli anni ed il nome di Ribetti nel nostro ambiente era sempre vivo, soprattutto quando qualcuno ripeteva le sue vie. Ma tutti pensavano che appartenesse ormai al passato.

Non molto tempo fa Marvi, la moglie di Franco, ci ha raccontato un aneddoto che mi ha fatto sorridere. Franco era spesso via di casa, un po’ per il suo lavoro ed un po’ per le sue attività sportive; Marvi, che doveva badare a due figli piccoli, si sentiva sola e qualche volta si lamentava. Una volta, credo all’inizio degli anni ’70, che la discussione su tale argomento si era fatta piuttosto accesa, Franco proferì una minaccia: “Se non la smetti di lamentarti vado a cercare Ugo Manera così tu a casa non mi vedi più”. Ho appreso così che in quegli anni, nell’ambiente torinese, godevo di una ben sinistra fama.

Attorno alla metà degli anni ’70 Franco Ribetti ritornò all’alpinismo. Anche questa volta promotore fu suo zio. Pino Dionisi stava organizzando una delle sue molte spedizioni nelle Ande Peruviane e convinse Franco a prendervi parte. La spedizione riaccese in lui la passione e riprese ad arrampicare. Una volta ci incontrammo casualmente, in una bella giornata di gennaio, ai Denti di Cumiana: Pino e Franco da una parte ed io con i soliti compagni dall’altra. Parlammo naturalmente di scalate poi Dionisi mi prese in disparte e mi disse: “Franco scala di nuovo come una volta e ritornerebbe volentieri alla scuola”. “Magnifica notizia”. Risposi. “La porto subito in consiglio istruttori”. Fu così che Ribetti rientrò alla Gervasutti.

Franco Ribetti negli anni ’80

Era entusiasta e subito divenne molto attivo nella scuola, era infaticabile e sembrava intenzionato a recuperare il lungo tempo che non aveva dedicato all’alpinismo. In arrampicata era ritornato ad essere il Franco di prima dell’incidente: determinato, senza dubbi, silenzioso ed efficiente. Mi resi presto conto che poteva essere il compagno di cordata ideale per i miei innumerevoli progetti. Cercai di coinvolgerlo in uno di questi, un po’ pazzo direi: una nuova via sull’enorme parete nord dell’Albaron di Sea in inverno. Si! Proprio nel vallone di Sea della Val Grande di Lanzo. Da tempo avevo in testa l’idea di salire quella parete in inverno. Pensavo di ripetere in prima invernale la via dei fratelli Berta ma poi, esaminando il problema da vicino, notai che vi era un possente sperone che risultava mai salito: una via nuova d’inverno su una parete nord, cosa pretendere di più? Feci la proposta a Franco che, senza battere ciglio mi rispose: “Quando partiamo”. Ed io: “Il primo fine settimana di bel tempo”.

Era il mese di gennaio del 1982 e quella salita avrebbe sicuramente richiesto un bivacco in parete, bisognava sfruttare al meglio il tempo a nostra disposizione. Partimmo al venerdì sera dopo la giornata lavorativa. Al buio percorremmo il vallone fino alle Alpi di Sea, la neve era poca e non fu necessario l’uso degli sci. Ci sistemammo al meglio nelle grange e, al sabato, alle prime luci dell’alba, eravamo già alla base della parete. La roccia era sgombra da neve, c’erano solo delle colate di ghiaccio al fondo dei diedri e dei camini. Incontrammo difficoltà elevate ed un gran freddo per tutta la giornata: quella parete in inverno non vede mai il sole. Superammo qualche passaggio con l’uso delle staffe, delizia riservata a me stante lo scarso amore di Franco per l’uso dei chiodi.

Franco Ribetti sullo spigolo del monte Lera

Bivaccammo in un luogo scomodissimo, semi appesi ai chiodi in mezzo agli strapiombi. Non avendo trovato spazio per rannicchiarci vicini usammo un cordino teso per passarci, a guisa di teleferica, la poca acqua che riuscimmo a produrre fondendo il ghiaccio presente vicino a noi. Gran freddo, poche parole ma comunque improntate ad allegria autolesionistica. Al mattino riprendemmo la scalata e dopo alcune lunghezze ancora impegnative, scalate sempre a mani nude tra una bollita e l’altra, le difficoltà diminuirono e progredimmo rapidamente lungo un vago crestone mentre in cielo si stavano addensando le nubi. Giungemmo in vetta avvolti dalla nebbia e durante la discesa, fatta a lume di naso ma fortunatamente facile, cominciò a nevischiare. La nostra impresa si concluse di notte lungo il sentiero del vallone di Sea, con le batterie delle pile ormai scariche e con il timore costante di prendere qualche “culata” a causa delle placche di ghiaccio presenti sul sentiero.

Ribetti, Manera e Isidoro Meneghin in vetta al Monte Lera

Il collaudo reciproco era stato più che soddisfacente: la nuova “cordata” era pronta per ogni obiettivo. Qualche tempo dopo incontrai Pino Dionisi, il nipote gli aveva raccontato della Nord dell’Albaron. Mi è rimasto in mente un commento che gli aveva riportato Franco, notoriamente poco avvezzo alla chiodatura: “Non so come faccia Ugo: riesce ad infiggere chiodi dappertutto”.

Come ho già accennato Franco non è mai stato ciarliero, salendo ai rifugi nel corso delle numerosissime salite effettuate insieme, o nelle gite sci alpinistiche, spesso camminavamo ore senza proferire una parola. Ma anche a lui a volte piace raccontare, nel suo modo disincantato, preciso, avvolto sempre da un velo di umorismo. Da lui ho appreso delle sue: “Stronzate Alpine” realizzate quasi sempre con Guido Rossa come: le vicende della “Villa Pisolino” al campeggio UGET di Val Veny, di quando portavano volutamente degli ignari ospiti dello stesso campeggio a perdersi tra i crepacci della Mer de Glace, dell’attentato dinamitardo al ponte di neve che portava alle rocce del rifugio Gnifetti sul Rosa, del panino alla merda che hanno fatto mangiare ad Arturo Rampini al corso per guide svolto al rifugio Zamboni-Zappa. Tutti episodi che mi hanno divertito e che mi si sono fissati in mente con i dettagli raccontati da Franco.

Ribetti sulla via del Ritorno all’Uja di Mondrone

Nelle mie ormai frequenti visite nel vallone di Sea avevo notato che sulla bella parete nord della Punta Rossa di Sea esisteva, al centro della parete, un evidente sperone che non risultava percorso. C’era su quel versante una via aperta da Gian Carlo Grassi e Silvio Vittoni nel luglio 1966, ma si svolgeva nella parte destra della parete e non sfiorava il pilastro centrale. Era ancora primavera quando, il 30 maggio 1982, Ribetti ed io salimmo quel pilastro. Ne venne fuori una bella via che ci offrì una piacevole arrampicata.

Dalla Nord dell’Albaron avevamo notato, di fronte a noi, la bella ed un po’ nascosta parete sud della Punta Francesetti. Era illuminata dal sole mentre noi eravamo prigionieri della fredda ombra invernale. Quella cima mi era nota per il magnifico itinerario sciistico sui ghiacciai del versante francese e non sapevo del dimenticato appicco che la cima presenta verso sud. Bisognava intervenire subito prima che altri scoprissero il piccolo gioiello. Franco ed io ci eravamo ormai intesi benissimo: bastava formulare un’idea che lui era pronto a condividerla ed a partire. L’11 settembre tracciammo una via su quella bella parete ricavandone divertimento e grande soddisfazione.

Franco Ribetti sulla via dell’Addio in Sea

Fino ad allora avevamo considerato la Valle di Viù come la più negletta, alpinisticamente parlando, delle tre valli di Lanzo. Sapevo che il Monte Lera presentava un imponente spigolo est-nord-est che aveva ricevuto dei tentativi, fermati però sul nascere dagli strapiombi iniziali. Ad ottobre del 1982 decidemmo di andare a mettere il naso da quelle parti aprendo una via su uno degli speroni dell’ampia parete est delle Rocce dei Cugni. La comitiva era formata da: Laura Ferrero, Lorenzo Barbiè, Franco Ribetti, Claudio Sant’Unione ed io. Dello spigolo del Monte Lera vedemmo ben poco perché la salita si svolse immersi in una fitta nebbia. La nostra via risultò poco appetibile e non stesi neanche una relazione tecnica.

Tornammo però l’anno dopo ed il 9 luglio 1983, di buon mattino, eravamo sotto lo spigolo del Lera in quattro: Manera, Meneghin, Ribetti, Sant’Unione. Quando si trattò di affrontare le strapiombanti rocce iniziali nessuno dei miei soci era impaziente di martellare sui chiodi e graziosamente mi invitarono ad andare avanti, in fondo ero io che li avevo condotti fin lì. La salita si dimostrò interessante e di soddisfazione anche se incontrammo qualche tratto di roccia non propriamente salda.

Il nostro piano di azione in quella valle non si concludeva però con la vittoria sullo spigolo. Il giorno successivo ritornammo sulle Rocce dei Cugni a tracciare una nuova via, questa volta in un tratto di parete bello e verticale. Denominammo la nostra parete Pala del Calvario e Via delle Prigioni il tracciato: tutto questo in onore degli antichi operai che avevano tanto faticato e penato nei lavori per creare il bacino idroelettrico.

Ribetti sulla parete sud della Punta Francesetti

Franco ed io, quando si tornava dal Vallone di Sea e, se l’ora non era troppo tarda, avevamo l’abitudine di fare tappa a Breno ove Gian Piero Motti aveva casa, lo trovavamo quasi sempre lì. Allora si beveva insieme un bicchiere di vino, si parlava della salita che avevamo compiuto e si scherzava su qualche personaggio del nostro ambiente. Il 17 giugno 1983 Franco ed io avevamo scoperto un nuovo settore nel Vallone di Sea, questa volta sul soleggiato versante sud, la Parete di Marmorand, e vi avevamo tracciato una via. Di ritorno passammo a salutare Gian Piero ed a raccontargli della nostra proficua giornata. Trovammo il nostro amico pensieroso e più taciturno del solito. Il 22 dello stesso mese Gian Piero si tolse la vita.

Ripensando a quel giorno in me è rimasto il cruccio di non aver capito cosa aveva in testa e di non aver tentato di distoglierlo dai suoi drammatici propositi.

Sulla parete sud della Punta Francesetti

Il 26 giugno con Meneghin, Ribetti e Gianni Ribotto tracciavamo una via sulla Parete dei Titani in Sea, dedicata al caro amico che ci aveva lasciato: la Via dell’Addio.

Sempre in quel 1983, e precisamente il 9 settembre, Franco ritornò con me sul versante settentrionale dell’Uja di Mondrone, luogo del grave incidente del 1960. Con noi c’erano, Gian Carlo Alasonatti ed Enrico Pessiva, tracciammo una nuova e bella via sulla parete nord-est: la Via del Ritorno.

L’esplorazione con Franco delle zone dimenticate delle valli di Lanzo continuò negli anni a seguire: nel 1985 una nuova via sulla parete ovest del Gran Bernadè in Valle Grande ed il 31 agosto del 1986 una “prima” sulla Cima Est della Torre d’Ovarda. Avevo sempre osservato dalla pianura quella montagna isolata e possente, ero salito da quelle parti con gli sci ed ero curioso di trovare sui suoi fianchi una parete ove tracciare una via difficile. Con Franco fummo fortunati; partiti da Balme pernottammo in un nuovo bivacco posto al di sotto dei laghi Verdi. Il mattino seguente scavalcammo il Colle Paschiet ed attraversammo sul versante est navigando a vista alla ricerca di una parete degna di essere salita. Fummo fortunati: scorgemmo un bel pilastro verticale lungo il quale tracciammo la via. Tornammo a sera soddisfatti della nostra scoperta in quell’angolo lontano e suggestivo che per un attimo ci apparve come fatto apposta per noi.

Ribetti sulla via dell’Addio in Sea

Abbiamo scalato tante montagne, anche lontane, fuori dall’Europa. Molte più celebri di quelle delle valli di Lanzo, ma su queste ultime, che sono “Montagne Torinesi”, ritorna spesso il mio pensiero e suppongo ancora di più quello di Franco perché è su quelle montagne che ha avuto origine il suo alpinismo.

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Zio, nipote e le Valli di Lanzo ultima modifica: 2021-04-13T05:42:00+02:00 da GognaBlog

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