Alpinismo e post-verità
di Emilio Previtali
(pubblicato su Up-climbing, set-ott. 2019)
Nel novembre del 2016 Oxford Dictionaries aveva indicato post-truth (in italiano “post-verità”) come “Parola dell’anno 2016”. Da allora è stato un susseguirsi continuo di utilizzo dell’espressione, articoli, dibattiti, reazioni, discussioni, principalmente a sfondo politico e sociale.
Il dizionario inglese definisce post-truth un aggettivo «che fa riferimento o indica circostanze in cui i fatti oggettivi hanno minore influenza nella formazione dell’opinione pubblica rispetto alle emozioni e alle credenze personali». Il termine descrive dunque una situazione in cui i dati di fatto non sembrano avere molta rilevanza nella comunicazione, né riescono a contribuire alla costruzione di un sistema di comprensione e di riferimento. La nostrana Accademia della Crusca, prendendo nota del neologismo, aveva cercato di specificare che nella lingua italiana più che “dopo”, con l’espressione post-verità ci troviamo a navigare nell’immenso spazio rappresentato “oltre” la verità. La realtà dei fatti, dei dati e dei riscontri oggettivi pare essere paradossalmente sempre meno rilevante in alcuni contesti di confronto e discussione, ai tempi nostri. Tra questi contesti, secondo me, c’è anche l’alpinismo. L’alpinismo è per natura materia complessa. Per comprendere l’alpinismo e la qualità di un’impresa alpinistica serve cultura, non basta scalare forte, bisogna sapere. Serve conoscere la storia alpinistica, i luoghi, la differenza che possono fare in determinati momenti alcune variabili come il meteo e le condizioni ambientali e non da ultimo serve sapere che l’alpinismo nonostante sia una attività libera che non ha regole e regolamenti, nonostante non sia uno sport così come comunemente lo intendiamo, basa la propria narrazione e la sua intera storia sulla performance sportiva, sul rispetto di un’etica condivisa e rigorosa e sull’applicazione di stili ben definiti.
Si doveva svolgere a Grenoble, nell’aprile del 2017, nell’ambito degli eventi collegati alla premiazione del Piolet d’Or, un forum dedicato alla questione del dovere di testimonianza e di prova nel corso dell’attività alpinistica di alto livello. Propagandato a lungo nelle settimane precedenti nel ristretto ambito degli appassionati di montagna, il convegno sembrava piuttosto essere una specie di regolamento di conti e un processo in contumacia all’alpinista svizzero Ueli Steck, vero alpinista fuoriclasse dei nostri tempi, che in quel momento si apprestava a tentare dopo una lunga e meticolosa preparazione la traversata Everest-Lhotse, una delle grandi imprese himalayane ancora da compiere. Nell’autunno di tre anni prima Ueli Steck, nel 2013, aveva compiuto una delle più visionarie e incredibili performance della intera storia dell’alpinismo, salendo e scendendo in 28 ore e da solo la parete sud dell’Annapurna. L’impresa in questione (per chi non conosce nei dettagli la vicenda) è sempre stata oggetto di numerosi rumors amplificati dalla impossibilità da parte di Steck di fornire alla comunità alpinistica dei riscontri inconfutabili e oggettivi sul raggiungimento della cima della montagna. Ueli Steck ha sempre dichiarato, sin dall’inizio, di avere perso la sua macchina fotografica durante la salita e di non essere in grado di documentare con riscontri oggettivi, rilievi cronometrici precisi o tracce GPS la sua ascensione.
Nella realtà e nella migliore delle ipotesi (esclusa per comodità di trattazione quella del risentimento e delle invidie personali) quello di cui avevano voglia di discutere la comunità alpinistica e i suoi appassionati in quella occasione non era un problema relativo a Ueli Steck e all’Annapurna ma più in generale il problema cronico dell’alpinismo moderno (e indirettamente quello della Giuria del Piolet d’Or) che dovrebbe decidere una volta per tutte se affidarsi alla parola d’onore di un alpinista e alla sua relazione, come facevamo cinquanta o settanta anni fa, oppure a dati oggettivi inconfutabili. È a lungo stato un problema questo, quello della convalida della salita secondo regole condivise, anche nel contesto dell’arrampicata sportiva. Nell’arrampicata sportiva una via può dirsi salita in libera quando viene salita rotpunkt; nell’alpinismo una montagna può dirsi salita quando si raggiunge il punto culminate della montagna, che è un punto unico e preciso. In fondo è semplice. La gente che racconta balle non è mai mancata, anche nell’arrampicata e nell’alpinismo. L’avvento della competizione agonistica assieme ad altri aspetti magari meno piacevoli ha portato l’arrampicatore all’accettare con serenità anche nell’arrampicata outdoor un sistema di regole serenamente condivise: oggi nessuno più, tra gli arrampicatori top, dichiara di avere salito rotpunkt una via top se non è in grado di mostrare prova della sua realizzazione, in video o tramite testimonianza diretta di alcune persone ritenute affidabili. Nel 2014 la giuria del Piolet d’Or, nonostante la mancanza di questi riscontri oggettivi, aveva deciso di assegnare comunque a Ueli Steck il premio principale della manifestazione «[…] per essere riuscito a completare la via iniziata da Pierre Béghin e Jean-Christophe Lafaille nel 1992. La nuova via scalata in solitaria, in velocità e in stile alpino apre una nuova dimensione dell’alpinismo in alta quota». Per non sbagliarsi, o più probabilmente per non esporsi troppo alle critiche, la giuria del Piolet d’Or (che non si è mai distinta per coraggio e spregiudicatezza con le sue scelte) aveva assegnato il premio ex-equo anche a Raphael Slawinsky e lan Welsted per aver salito per la prima volta il K6 West, una montagna fino ad allora più volte tentata da alpinisti del calibro di Steve House e Marko Prezelj e mai riuscita prima. Durante le fasi preliminari di quella maledetta spedizione del 2017 nella valle del Khumbu Ueli Steck perse drammaticamente la vita in un incidente sul Nuptse, mentre arrampicava da solo e slegato e rifiniva la preparazione per la traversata Everest-Lothse senza ossigeno. Restammo tutti sotto shock, non è esagerato dire che con quell’incidente e con la scomparsa di Ueli tutti abbiamo sentito che è terminato qualcosa, che si è chiusa un’epoca. Forse anche per quella ragione, per lo sconcerto e il dolore profondo della comunità alpinistica che perdeva uno dei suoi protagonisti assoluti, veniva a mancare il desiderio e lo stimolo a discutere (più o meno costruttivamente) sull’argomento alpinismo e necessità/dovere di documentazione da parte degli alpinisti professionisti.
Il fatto di alpinismo di cui si è scritto di più in questi primi sei mesi dell’anno 2019, esclusa la cronaca legata alla scomparsa di Daniele Nardi e Tom Ballard in inverno al Nanga Parbat e della morte di Hansjörg Auer, David Lama e Jess Roskelley in primavera all’Howse Peak in Canada, è il tentativo di record di scalate di montagne di 8000 metri in successione e in velocità da parte di un alpinista che usa l’ossigeno. Non è dato sapere quanto, quando e a che concentrazione lo adopera, per chi ne scrive sui giornali non specializzati sembra essere questo (l’uso dell’ossigeno) un dato secondario e irrilevante rispetto al record da battere: 14 montagne di 8000 metri da salire in meno di un anno. Questo record, più di logistica e di organizzazione che sportivo, rinverdisce dal punto di vista mediatico il significato di collezione dei 14×8000, mentre dall’altro lo umilia e lo svilisce definitivamente. È come se Reinhold Messner e Peter Habeler nel 1978, cioè la bellezza di quarantuno anni fa, non ci avessero regalato con la loro scalata della montagna più alta della terra senza ossigeno un nuovo modo di pensare all’andare in montagna by fair means e non avessero stabilito uno standard di riferimento. Che senso ha oggi, per un atleta professionista, scalare l’Everest con l’ossigeno? «Il Golden Standard per un alpinista professionista è scalare l’Everest senza ossigeno, non ci sono stili alternativi» – a dirlo è stato David Gœttler con serenità proprio al rientro dal suo tentativo fallito sulla montagna più alta della terra qualche mese fa, questa primavera 2019.
Anzi, è ancora un po’ peggio: è come se qualcuno dicesse a voi che eventualmente fate presente la differenza basilare tra un ciclista e un motociclista, che siete inutilmente pignoli, pedanti, retrogradi e polemici. Tutto questo per dire il livello che ha raggiunto la cronaca alpinistica (ma non soltanto alpinistica) dal momento in cui i social media sono diventati il nostro strumento principale di informazione, e la qualità e l’accuratezza dei contenuti sono passate in subordine rispetto alla necessità della istantaneità di diffusione.
La salita di Ueli Steck all’Annapurna in questione è avvenuta nell’ottobre del 2013 e ora siamo nell’estate 2019, sono cioè passati quasi sei anni e più precisamente dieci stagioni alpinistiche himalayane da quel momento che ha segnato un punto di non ritorno nella narrazione dell’alpinismo in quanto attività di performance, oltre che esercizio di esplorazione dei luoghi e dell’animo umano. Siamo in netto ritardo con ciò che di utile quella ascensione e la sua rielaborazione analitica ed emotiva avrebbe potuto offrirci.
Ueli Steck era ed è unanimemente riconosciuto come uno dei migliori talenti alpinistici mai stati in circolazione, un vero fuoriclasse. La sua capacità prestativa di livello superiore era testimoniata anche da alcune performance di rilievo nel campo dell’ultra-running e dell’arrampicata su roccia. Per il forum di Grenoble del 2017 il grande accusatore Rodolphe Popier aveva svolto un certosino lavoro di ricostruzione della vicenda, di verifica delle fonti e di ricostruzione delle dichiarazioni, arrivando alle proprie conclusioni e facendo cioè il lavoro preliminare che avrebbe dovuto fare la giuria del Piolet d’Or quando nel 2014 prese la decisione di assegnargli il premio basandosi sulle sole dichiarazioni rilasciate dallo stesso Steck. Era patetico innanzi tutto (questa è la mia opinione personale) il fatto che quel “processo” come era stato battezzato (ad essere patetico era la parola “processo”) avvenisse ad anni di distanza e proprio mentre Ueli era in spedizione impegnato in un altro progetto sportivo di alto livello, senza la possibilità di difendersi o di interagire nella discussione con i suoi accusatori. Ma era patetico soprattutto l’aggirare il nocciolo del problema, cioè l’evidente necessità di tenere sullo stesso piano della narrazione il racconto personale e le informazioni oggettive come fotografie, dichiarazioni post-salita e tracce GPS.
Le informazioni messe (o non messe) a disposizione da Steck sono sempre state le stesse sin dall’inizio, non ci sono mai state novità eclatanti o rivelazioni a sorpresa o nuovi elementi a disposizione che potessero confermare o smentire il fatto che la salita fosse avvenuta (oppure non avvenuta) secondo le modalità fornite dallo stesso Steck in numerose interviste e scritti, tutti piuttosto coerenti tra loro. L’analisi fatta da Popier e su cui si era imperniato il forum di Grenoble era un normale lavoro di analisi della vicenda, di verifica delle fonti e di ricostruzione delle dichiarazioni. Poi ognuno rimane libero di pensare quello che crede e questo è anche il bello dell’alpinismo. Non so chi tra quelli che leggono libri di montagna e amano discutere di alpinismo e di imprese himalayane abbia mai letto per intero il report scritto di suo pugno da Steck sulla sua salita all’Annapurna, pubblicato su Alpinist 45. In quell’articolo, pubblicato sulla più autorevole testata di settore del mondo, Ueli Steck faceva un resoconto molto dettagliato della sua salita, fornendo anche delle indicazioni precise relative a orari, quote e fatti avvenuti come ad esempio la perdita della macchina fotografica e di un paio di guanti pesanti. Steck dichiarava apertamente e serenamente di non essere in grado di fornire dati e prove oggettive della sua salita (quindi ad esempio il tracciato GPS, che in molti continuavano a sollecitare) e affermava di avere compiuto la salita interamente per se stesso «entirely for myself» – così ce scritto in una delle ultime righe dell’articolo (vedi anche https://gognablog.sherpa-gate.com/la-prova-per-favore/ e https://gognablog.sherpa-gate.com/la-cima-dei-dubbi/).
Se non qualcosa fatto per se stessi, cos’altro può essere l’alpinismo solitario?
La storia dell’alpinismo è ANCHE questo, da sempre: verifica e confronto. A volte ci sono dati oggettivi concordanti tra loro, altre volte omissioni o menzogne e altre volte post-verità con cui fare i conti. L’alpinismo ci parla, attraverso le storie degli uomini e delle loro imprese, di incognita e di scoperta, quindi di spostamento del limite. Non parliamo di sport ma di esplorazione. L’esplorazione ha a che fare anche con l’animo umano, non solo con i numeri. Eppure siamo arrivati a un punto in cui l’alpinismo e la sua comunità devono inevitabilmente cominciare a confrontarsi con i nuovi strumenti tecnologici a disposizione e con un nuovo livello di performance possibile fino a qualche anno fa inimmaginabile. Serve interrogarsi ed eventualmente darsi delle regole e delle modalità di misurazione e di valutazione nuova. Noi singoli, in base ai nostri parametri e alla nostra idea di alpinismo, in base all’analisi dei dati e delle prove oggettive a nostra disposizione, in base alla nostra idea personale di alpinismo e di verità siamo liberi di valutare e di credere (o di non credere) che qualcosa sia veramente avvenuto in realtà.
L’alpinismo non è uno sport vero e proprio e non esiste un ente che certifica le salite o il raggiungimento della vetta di una montagna o meglio quel che c’è, gli strumenti a nostra disposizione per chi ritiene importante che esista una sorta di certificazione delle performance, non sono più funzionali all’impegno. Ci basti pensare che fino a un anno e mezzo fa la maggiore autorità in materia di certificazione delle salite sulle montagne di 8000 metri era una arzilla ed amabile signora inglese di nome Elizabeth Hawley di 95 anni, ora non abbiamo più nemmeno quella. La leggendaria Miss Elizabeth Hawley se ne è andata il 26 gennaio del 2018, proprio mentre Tomasz Mackiewicz ed Elizabeth Revol lottavano tra la vita e la morte dopo la salita del Nanga Parbat in invernale, in perfetto stile alpino. Era lei a decidere se la salita di un alpinista in vetta a una montagna dell’Himalaya poteva essere ritenuta credibile e quindi valida, oppure no. Potrà sembrarvi romantico ma nel 2019, non vi sembra assurdo?
Forse il problema di post-verità dell’alpinismo è proprio questo: rifiutiamo i dati, gli strumenti e l’oggettività dei numeri come metro di misura ed eventualmente di certificazione di certe performance alpinistiche e quindi anche sportive che avvengono nei luoghi remoti della terra. Crediamo agli alpinisti, ma solo quando ci conviene, solo per quello che ci fa piacere credere e che conferma le nostre teorie sui fatti, consiste in questo la post-verità. È una scelta fondamentale di tipo filosofico quella che siamo chiamati a compiere per l’alpinismo del futuro. Il nocciolo del problema è che confondiamo “analisi aggettiva dei dati disponibili“con “giudizio“; “racconto” con “resoconto“;”punto di vista” con “verità“; “vero” con “verosimile“e affrontiamo il tema “misurazione della performance” come un tabù, privi di serenità e ostinandoci ad assegnare alla retorica (che impasta da sempre ogni grande impresa alpinistica) un valore infinitamente superiore rispetto all’aspetto puramente sportivo e alla cruda realtà dei numeri.
Tentiamo di misurare l’esplorazione con gli strumenti dello sport e viceversa la performance sportiva con il metro della poesia e con la qualità della narrazione: è evidente che in un mondo moderno e in un sistema basato sul confronto continuo e sulla competizione non può più funzionare.
Dal mio punto di vista, in base agli elementi a mia disposizione e soprattutto in base al racconto di Ueli Steck, in base a quello che ho visto, letto e ascoltato e in base al mio sentire, la sua salita all’Annapurna è credibile. Rocambolesca e allucinante, oltre il limite del conosciuto ma credibile. Io credo all’uomo Ueli Steck e ringrazio il cielo di avermi dato la possibilità di assistere e comprendere la manifestazione del suo talento.
Poi, senza ombra di dubbio se avessi fatto parte della giuria del Piolet d’Or, anche se la sua era una tra le performance alpinistiche che considero più rilevanti nell’intera storia dell’alpinismo moderno, non è a lui che avrei assegnato il mio voto. Non è a lui che andava il premio, a mio parere. Un premio (a meno che si tratti di un concorso letterario e non di un premio ANCHE alla performance e quindi sportivo) non dovrebbe mai assegnare un riconoscimento a una performance che non può essere misurata e certificata con dei normali strumenti come una macchina fotografica, un GPS o un altimetro digitale.
Assegnare il premio a Ueli Steck era stato (io almeno credevo che lo fosse) una scelta di campo. Un segnale. Una presa di posizione. Nel 2019 io credo sia arrivata l’ora di mettere da parte la retorica e di cominciare a pensare all’alpinismo ANCHE come sport. Possiamo anche dargli un nome per differenziarlo da quell’altro, di alpinismo, che sarebbe bello proteggere in qualche modo: io propongo la definizione di Alpinismo Sportivo. Non mi pare ci sia proprio niente di cui vergognarsi nel dire che un certo tipo di alpinismo è ANCHE uno sport, come l’arrampicata.
Quasi quasi, registro il marchio e per garantirmi la pensione ne rivendico la paternità.
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“Il principio di indeterminazione enunciato da Heisemberg ci dice che non è possibile misurare contemporaneamente e con estrema esattezza le proprietà che definiscono lo stato di una particella elementare”. Quindi se un alpinista su una parete e’ una specie di particella, se si vuole documentare si influenza in qualche modo l’impresa… e l’impresa influenza la documentazione. Documentare non e’ un dovere, ma una scelta, come non esiste un fantomatico tribunale che debba procedere d’ufficio per validare e scomunicare. Abbondano talmente tanti resoconti su varie riviste o siti web, che la eccessiva comunicazione sta annullando o sminuendo se stessa per saturazione.
Ci sono alpinisti che, oltre a scalare, fanno cultura e quindi inevitabilmente tendenza. A costoro gli sponsor danno appoggio perché non guardano meramente le prestazioni atletiche, ma si gratificano (anche economicamente) nell’appoggiare chi diventa un punto di riferimento e lo resta nel tempo, anche quando l’età non gli permette più prestazioni di alto livello.
Potrei fare due elenchi di aziende che rispecchiano questi due modi di percepire e erogare la sponsorizzazione. Non lo faccio perché darei pubblicamente dell’ignorante al lungo elenco delle aziende che ragionano alla: prima pagare, dopo vedere cammello, in contrasto con quelle che si legano a un alpinista e lo sostengono tutta la vita. Gli esempi, alla lunga, sono più produttivi dei campioni del momento, ma ci vogliono degli imprenditori intelligenti per capirlo. A tal proposito, leggasi:
https://rockandice.com/people/rolando-garibotti-what-ive-learned/?cn-reloaded=1
Tutto si può fare. E’ quasi inevitabile che seguendo l’evoluzione dei tempi si vada verso una moltiplicazione di tanti filoni dell’andare in montagna che una volta andavano semplicemente sotto la parola “alpinismo”. Il fatto diventa rilevante se va a modificare anche la motivazione personale con cui l’ “alpinista” affronta le sue imprese.
Risposta alla domanda di Fabio Bertoncelli
Sylvain Jouty, “Eloge de la dissimulation”, Passage n. 3, 1979. Pubblicato in italiano nella raccolta “Dal settimo grado al settimo cielo.Antologia da Passage”, nella collana “Idee d’alpinismo”, Zanichelli 1982.
Jouty non era (non è) “un famoso alpinista francese”. Era uno che scriveva su Passage, e aveva delle idee. Allora ero abbastanza d’accordo, oggi un po’ meno…
Alcune note dell’autore (apparse in seguito su facebook)
La questione Annapurna era senz’altro “aperta da tempo” ma anche le incongruenze o le imprecisioni del racconto di Steck erano presenti da tempo, sin dalla sua prima versione (i primi a rilevarle il sui compagno di spedizione Don Bowie e Dan Patitucci, direttamente dal campo base della montagna). Sin dall’inizio Steck ha dichiarato di non essere in grado di fornire foto di vetta o il tracciato GPS della sua salita, è questo il nodo centrale della mia trattazione: era giusto assegnargli il premio? Secondo me no, nonostante io possa essere disposto fino a ragionevole dubbio a credere alla versione di un alpinista non in grado di fornire prove certe. La mancanza di riscontri oggettivi e la presenza di versioni discordanti da parte di terzi non ha impedito alla giuria del Piolet d’Or di assegnargli comunque il premio, è di questo che vale secondo me la pena di occuparsi ed è quello che ho cercato di fare con il mio articolo.
Il Forum era in programma il 13 aprile del 2017 a Grenoble a corollario degli eventi del Piolet d’Or del 2017 e in quel momento Ueli Steck era in Nepal per tentare la sua traversata Everest-Lhotse (il suo incidente è avvenuto il 30 aprile 2017, si trovava in Nepal dalla fine del mese di marzo). Se Ueli Steck avesse voluto per qualche ragione partecipare e tentare di fornire una sua visione sul tema, una propria versione ed eventualmente difendersi, non avrebbe potuto farlo. (Non credo fosse interessato a farlo).
Rodolphe Popier è un ricercatore appassionato, non un giudice, un magistrato, un ispettore o un pubblico ministero. L’Himalayan Database non è un ente di certificazione, non parla in nome di un “referee committee” o di una federazione sportiva deputata alla validazione delle salite alpinistiche realizzate in himalaya. Per quanto notevole e prezioso il lavoro di raccolta dati, archiviazione, ricerca e verifica (originato dagli archivi e dall’enorme lavoro di catalogazione svolto dai Miss Elizabeth Hawley) non ha una funzione ufficiale. Le analisi e le conclusioni a cui Popier o Himalayan Database giungono non hanno un valore assoluto o legale. Sono opinioni, autorevoli e talvolta condivisibili, ma sempre opinioni rimangono.
L’alpinismo inteso come estremo non può essere definito sportivo,perderebbe il fascino dell’avventura. Ogni performance è credibile solo se provata e descritta dal protagonista nessuno la può giudicare per questo non valutabile da altri con premi o classifiche. Lasciamo che il fascino dell’alpinismo resti solo desiderio di avventura e vivere la natura estrema e non si mischi a ipocrite valutazioni,gli alpinisti veri lo sanno. Un tributo a Nardi appassionato di Montagna/ Avventura, un vero uomo che rincorreva un sogno.
“Io credo all’uomo Ueli Steck e ringrazio il cielo di avermi dato la possibilità di assistere e comprendere la manifestazione del suo talento”.
Bastano queste parole..il resto lasciamolo hai vari “so tutto io” presenti qua dentro.
Buon Natale Emilio.
Ermanno è stato l’unico italiano a vincerlo?
Però quello che lui ha fatto è stato riconosciuto da degli alpinisti internazionali.
Sempre pensato che il Piolet d’or sia una cagata pazzesca!
Infatti uno degli alpinisti italiani migliori di tutti i tempi (Ermanno Salvaterra, e sfido chiunque a sostenere il contrario) lo ha cortesemente rifiutato nel 2006.
Il problema, se di problema si parla, nasce dall’ignoranza e dal bisogno di apparire di molta gente che per lo più è gente limitata, cioè capace di fare al massimo bene una sola cosa.
E poi ci sono i giornalisti e alcuni altri che vogliono guadagnare denaro, molto denaro.
Se a parlare di alpinismo fossero solo gli alpinisti, qualcosa migliorerebbe, però la Balivo faceva la sua p….iacevole figura. 🙂
Se le “case”, ma anche club, dicessero apertamente quanti soldi danno ai “grandi alpinisti” nostrani penso che molti si meraviglierebbero e cambierebbero opinione…. ovvio che alcuni alpinisti sono deificati! 🙂
In più direi che di solito con le regole tanti ci sguazzano bene.
Tanto tempo fa, alla fine degli anni Settanta o primi Ottanta, un famoso alpinista francese di allora scrisse un articolo in cui invitava a falsificare i curriculum per renderli privi di significato. In tal modo gli alpinisti avrebbero continuato a scalare solo per il loro piacere e si sarebbe salvato l’alpinismo. Allora non ero d’accordo, anzi non ne compresi neppure il senso; ora invece capisco e sono quasi d’accordo.
… … …
Alessandro, l’articolo apparve probabilmente sulla Rivista della Montagna. Ti ricordi l’autore?
SE (e sottolineo il se) si accetta che esistano alpinisti/arrampicatori “professionisti”, non vedo come si possa dare torto a Previtali.
Non so voi, ma io nel mio lavoro non vengo pagato sulla parola o sulla fiducia.
Il discorso non ha invece ovviamente senso per gli alpinisti/arrampicatori “dilettanti”.
Avete mai visto il film “Scappo dalla città. La vita, l’amore e le vacche“? Jack Palance, vecchio e saggio cowboy, sentenziò: “Nella vita una sola cosa è importante. Tutto il resto può andare a puttane”.
Sulla sua falsariga io ora vi dico: “In alpinismo una sola cosa è importante: l’avventura dello spirito. Tutto il resto (sport, gradi, ecc.) può andare a p…”.
Ho detto.
Perchè dobbiamo arrivare a misurare quei ridotti spazi incerti, variabili e indefiniti come quelli dell’alpinismo? Perchè abbassarli a teatro di “imprese” sempre e solo umane? Perchè sacrificare anche questi piccoli universi primordiali che ancora sfuggono alla prevedibilità?
capisco la proposta di Previtali, ma non la condivido.
Per me l’alpinismo NON è uno sport nel senso che non è una gara. O almeno NON dovrebbe esserlo. Quindi non hanno senso manifestazioni come la Piolet d’oro che fanno classifiche, che danno premi.
La riuscita della salita è il premio che ognuno di noi, riceve con la sua piccola o grande avventura.
La visione è un esperienza individuale.
L’esperienza non è trasmissibile.
Anche in questi due metafenomeni si avverte l’umano.
La misurazione è un dogma scientista che uccide il mistero e di conseguenza l’uomo.
Mortifica il suo pensiero e il suo sentimento, alimenta il suo regolamentarismo, il suo giudizio sul prossimo come atto definitivamente superiore.
Scegliere una filosofia che elegga la misurabilità, la cosiddetta oggettività, i cosiddetti fatti come soli dirimenti l’attività umana dell’alpinismo è nefasto.
È corrispondente al culto del selfie e dei social.
Una cultura sempre più lontana dalla natura, sempre più mercificante.
I fatti e l’oggettivazione sono due dimensioni direttamente a noi simbiotiche.
Da sole non esistono.
Entrambe sottostanno a descrizioni differenti a seconda dell’attore che le narra.
Ovvero al sentimento con cui le elaboriamo.
È normale leggere titoli e articoli su fatti oggettivi ai quali ho assistito, che non riesco a comprendere da dove possano arrivare. Nello sforzo arrivo soltanto a ipotezzare ci fosse interesse personale o di testata.
È un processo implicitamente elaborativo al quale siamo soggetti.
Possiamo riconoscerne l’avvento o meno.
Ma non possiamo sottrarcene.
Ci sono fenomeni che ci appaiono inverosimili perché la scienza non sa codificarli.
Poi magari ci riesce e diventano veri.
E quelli rimasti fuori dal suo superficiale campo d’intervento?
Tra cui le grandi salite considerate impossibili?
La misurazione è funzionale in contesto amministrativo non umanistico.
Quando sarà una macchina a sostituire un giudice sarà ancora peggio della mortificazione che viviamo quando abbiamo a che fare con un call centre.
Ogni giorno assistiamo a espressioni umane che hanno quell’apparenza.
Diventeranno tutte menzogne sotto il ristretto vetrino del microscopio che anelate.
L’evoluzione sarà soltanto meccanicisitica.
Tutti gli altri, definitivamente scomunicati, e non è detto che non siano anche condannati, come le streghe.