E’ stato o non è stato sulla vetta? Non poche ascensioni e drammi alpinistici rimangono a tutt’oggi grandi questioni di fede di cui si discute ancora molto. La tecnologia moderna potrebbe consentire di produrre una documentazione priva di lacune ed inconfutabile per qualsiasi singolo movimento sulle montagne. Questo servirebbe all’alpinismo?
L’incertezza della riuscita è il sale per la minestra dello sport. Per l’alpinismo ci si deve fare la domanda: “Cosa succede se si documentano ogni passo, ogni metro di dislivello, ogni pausa?”.
La prova, per favore!
(quanto onesto può essere lo sport di montagna)
di Tom Dauer
(Illustrazioni di Ronja Scheidel)
Traduzione dal tedesco © Luca Calvi
L’articolo originale è stato pubblicato su All Mountain n. 3, 02-2015, per gentile concessione
La popolarità, come scrive il pubblicista Georg Frank “è la più irresistibile delle droghe”. Gli alpinisti, per poter arrivare a poterne godere, devono essere in grado di raccontare le proprie gesta. Questa però è un’arte che va ben al di là della produzione di selfies o di raccolte di dati.
Bloemfontain, Sudafrica, 27 giugno 2010. Nei quarti di finale del campionato del mondo di calcio la Germania sta conducendo contro l’Inghilterra per 2 a 1. Al trentasettesimo minuto di gioco un tiro del centrocampista Frank Lampard va a colpire la traversa. Manuel Neuer si allunga, inutilmente: la palla schizza da sotto la traversa, va a rimbalzare oltre la linea di porta e poi rientra nel campo di gioco. Lampard alza le braccia al cielo, i suoi compagni sono pronti a festeggiare, e invece Jorge Larrionda fa continuare il gioco.
40.500 spettatori allo stadio e milioni di persone davanti agli apparecchi televisivi in tutto il mondo hanno visto distintamente la palla dietro la linea di porta. Solo l’arbitro uruguayano e i suoi assistenti non l’hanno vista. Le proteste della squadra inglese non servono a nulla: vale la decisione presa durante la partita. La squadra tedesca, poi, la vincerà per 4 a 1.
L’errore di valutazione in Sudafrica non è stato il primo e nemmeno l’ultimo a far scaldare gli animi nella comunità calcistica internazionale. Eppure, nonostante le strumentazioni tecniche che potessero ridurre tali errori a singoli e rarissimi episodi fossero già ampiamente presenti, per più di qualche anno non ci fu alcuna reazione. Solo con l’inizio della stagione 2015/2016 nella Bundesliga tedesca è stata introdotta la tecnica denominata “Hawk Eye”. L’”Occhio del Falco” consiste nel posizionamento in ciascuno dei diciotto stadi di sette telecamere fisse per essere in grado di poter stabilire con precisione in casi di dubbio, anche inferiori a un centimetro, se la palla abbia varcato o meno la linea di porta nella sua interezza. L’arbitro riceve quindi un segnale sul proprio cronometro da polso ed a quel punto può in tutta tranquillità e con la coscienza pulita decidere sul gol senza più pericolo di sentirsi definire dai media come il complice ignaro di un delitto.
Molti appassionati di sport sperano ardentemente che questa nuova tecnologia sarà mantenuta come avviene per altre discipline. Per l’hockey su ghiaccio già da tempo le telecamere poste sulla linea di porta e la prova video fingono da valido aiuto per gli arbitri; nel tennis le telecamere arrivano a indicare con una precisione pari a tre millimetri se la palla sia arrivata o meno dietro la linea. D’altra parte, però, non è che il calcio con questo “monitoraggio del gioco” – un osservatore della Süddeutsche Zeitung ci vede qualcosa di positivo – vada a farsi derubare delle sue storie più belle? I gol di Wenbley e la “Mano di Dio” non dovrebbero più esistere con l’avvento dell’Hawk Eye.
Sarebbe un peccato, perché nel profondo del suo cuore il tifoso di calcio è un romantico che si nutre di miti e leggende: ecco, per esempio, proprio del tiro dell’inglese Geoff Hurst che durante la finale del Mondiale del 1966 fu giudicato erroneamente come gol; oppure del gol di mano fatto da Diego Armando Maradona per l’uno a zero con cui si concluse il quarto di finale del mondiale vent’anni dopo. Tutte queste sono storie che si tramandano di generazione in generazione, sulle quali dopo decine di anni tifosi ed esperti stanno ancora a discutere, proprio perché lasciano spazio a più di una sola interpretazione del fatto reale.
Adesso, per quanto riguarda alpinisti e scalatori, va detto che questi non suscitano nemmeno lontanamente nel pubblico lo stesso interesse delle partite di calcio. Eppure i grandi dibattiti degli sport di montagna ruotano attorno allo stesso nucleo, per la precisione su cosa siano la verità e l’agire correttamente. Cesare Maestri, che afferma di essere salito sulla vetta del Cerro Torre nel 1959, non sarebbe altro che il Thomas Helmer degli scalatori, ovvero quel giocatore dell’FC Bayern che nel 1994 segnò al 1 FC Nurnberg il primo “gol fantasma” della Bundesliga, un gol che non era gol!
Dello svizzero Ueli Steck non si sa se sia mai stato un grande goleador o un grande stratega di gioco. In compenso, è uno scalatore ancor più grande che tra l’8 ed il 9 ottobre del 2013, in sole ventotto ore dal suo Campo Base Avanzato a circa 5000 metri di altitudine, è salito e disceso dalla mostruosa parete sud dell’Annapurna 8091 m. Per questa impresa, che fa passare in secondo piano tutto ciò che è stato raccontato sugli Ottomila fino a quel momento, Steck continua a essere celebrato a tutt’oggi. Da tutti, a parte quelli che mettono in dubbio il suo racconto sulla base di alcuni indizi, un gruppo piccolo ma non per questo non rappresentativo di esperti di montagna, attivi o osservatori.
Nella cosiddetta “Arena della Solitudine” (Reinhold Messner) non ci sono arbitri e tanto meno mezzi per il controllo rigoroso dei partecipanti. In compenso le macchie bianche sulla mappa offrono spazio per miti e saghe eroiche. Cosa succede, però, se questi spazi spariscono?
Il loro dubbio scaturisce dal fatto che Steck non abbia potuto fornire una prova, ottica o di misurazione, del successo avuto dalla sua salita in solitaria. Lui del resto aveva perso la macchinetta fotografica ancora il primo giorno sulla parete, come descritto dallo stesso nel numero 45 della rivista Alpinist. “Stavo fotografando la parete per riuscire a farmi con quella foto una sorta di mappa, quando fui investito da una folata di pulviscolo ghiacciato e mi aggrappai subito alle picche. Uno dei guanti mi cadde, così lasciai andare la macchinetta, che cadde lungo la parete ad ampi balzi”. In una intervista con Andreas Kubin, all’epoca caporedattore della rivista Der Bergsteiger, Steck gli raccontò di non aver pensato di avviare la funzionalità GPS del suo computerino da polso per poter così tracciare l’itinerario da lui seguito: “Sì, in effetti, in retrospettiva, mi sono preoccupato troppo poco delle prove”.
Quando l’alpinista si convertirà a raccogliere una gran quantità di dati, cambierà la qualità dell’esperienza stessa: non solo quella dei protagonisti, anche quella degli affamati di avventura seduti in poltrona. Non ci sarà più fascino nelle storie imbottite di dati.
La questione è se avesse dovuto farlo e la risposta per il futuro dell’alpinismo (sulle Grandi Montagne) significa molto di più di qualsiasi tentativo di andare a recuperare indizi e prove a favore o contro quanto raccontato da Steck.
In buona sostanza quanto viene rinfacciato a Steck può essere riassunto in due punti: 1) Ueli Steck mente 2) Ha trascurato il proprio dovere di documentare le sue imprese, nonostante sia proprio grazie a questo che si guadagna da vivere.
Per quanto riguarda il punto 1) Steck stesso ha già più volte dichiarato di avere realizzato un sogno alpinistico, di sapere perfettamente cosa sia successo sull’Annapurna e di poterne essere soddisfatto. Non ci si dovrebbe poi spingere oltre, perché con la ricerca della verità si entra in un ambito piuttosto distante e piuttosto confuso. In primis, perché durante la sua salita sulla parete sud dell’Annapurna in solitaria, nessuno per definizione ha accompagnato Steck e quanto da lui raccontato rimane l’unico riferimento diretto disponibile. In secundis, però, anche perché si dovrebbero portare la questione della verità nell’Alpinismo e della sua presentazione a un livello ben differente da quello dei lanci di redazione, degli atleti-modelli, degli articoli pagati, degli scatti inscenati, delle riprese cinematografiche riprodotte a posteriori e di strategie di marketing e di pubblicità sempre più sofisticate.
Evitiamo quindi di andare oltre nella questione della verità o della menzogna pe quanto riguarda Ueli Steck e la sua avventura sull’Annapurna perché è ormai una pura questione di fede.
Il punto 2), invece, merita una trattazione molto attenta. La discussione all’ordine del giorno in questo periodo è come un controllo basato sulla rilevazione di dati relativi alla salita e alla discesa possa andare a modificare l’alpinismo (sulle grandi montagne) e soprattutto la percezione dello stesso. Senza dubbio le funzioni di rilevazione GPS e di localizzazione degli smartphones possono portare un notevole contributo per la sicurezza nei deserti alpini, ma deve allora diventare lecita una domanda: non è che la comunità degli alpinisti andrebbe a farsi un autogol con la richiesta della documentazione priva di macchie bianche delle imprese alpinistiche, in forma di fotografie, di video o di altro?
Lasciamo da parte la prospettiva dei praticanti. Per questi la qualità delle loro imprese non andrebbe a variare di molto: un temporale in quota rimane sempre un pericolo per la vita, un seracco sarà sempre sul punto di cadere, la roccia sarà sempre marcia e la scorta di ossigeno sarà sempre ridotta al lumicino anche se uno potrà sempre essere tracciato col GPS e anche se dovesse poter inviare i propri dati biometrici via etere.
Tutt’altra cosa è quando dal di fuori si va a portare lo sguardo in quel modo di far alpinismo che viene di volta in volta definito “il limite del possibile”. Questo modo di guardare alla questione, che è poi anche il nostro, determina in buona sintesi anche a quale sistema di condizioni accetta di andare soggetto un atleta che viva del suo essere personaggio pubblico. Noi, con il nostro ruolo di consumatori di avventura, ci prendiamo la responsabilità di decidere se quanto avvenuto sulle montagne possa essere compatibile con quanto reso da un insieme di dati e di cifre.
L’alpinismo come alternativa alla quotidianità è da prendere sul serio solo quando non viene fatto per successo, vette o record, ma solo per l’avventura in sé.
Possiamo però invece dedicarci a un’opera culturale che ci fornisca i più bei racconti di avventura dai tempi dell’Odissea di Omero, dedicati a una persona che va lontana, si sottopone a prove e vince pericoli per poi poter ritornar e in patria acclamato come un eroe. Oppure, come Martin Stern, professore di Sociologia del movimento e dello Sport all’Università di Marburg, possiamo dire: “Il racconto di una scalata vive del fatto che non tutto può essere chiarito senza alcun dubbio. Se ci soffermiamo troppo su dove quando e cosa abbia fatto il protagonista, la narrazione ne patirà. Si andrà a mettere in primo piano qualcosa che in realtà non è significativo per l’azione in sé”.
Se però non dovessero sorgere più miti, se non dovessero fiorire più leggende per chi è seduto al bar o attorno a un falò, se gli eroi dovessero diventare grandissimi raccoglitori di dati e le loro saghe dovessero divenire solo fatti, andremmo tutti a valutare l’alpinismo e gli alpinisti con un altro metro. E, con ciò, alla fin fine anche noi stessi.
L’alternativa alla società digitale, così spesso citata, del “Me ne sto fuori” sarebbe un’alternativa di vita da prendere sul serio solo se non fosse volta al successo, alla vetta e ai record. Si dovrebbe invece rivolgere l’interesse focale al Prima ed al Dopo, al Chi, al Come ed al Dove di un’impresa. “Ueli Steck è arrivato sull’Annapurna”? Chissenefrega! Altre domande, invece, come: “Come ha progettato la sua solitaria? Per qual motivo ha attaccato di nuovo la parete sud, sulla quale durante una spedizione precedente per poco ci lasciava la pelle? Su una montagna sulla quale già aveva provato inutilmente a salvare una vita? Chi è questa persona? Cos’è che lo spinge? A cosa crede e quali sono i suoi sogni?”. Ecco, queste, secondo me, sarebbero le domande giuste.
“In conclusione” – scrive il sociologo Stefan Kaufmann nel saggio La tecnologia in montagna: per una strutturazione tecnica del rischio e dell’avventura -, “l’alpinismo è un atto di autonomia, una pratica autodeterminata. Non segue un cronoprogramma determinato e non viene motivato da ricompense estrinseche o da necessità materiali, no, è al di fuori degli schemi consuetudinari sociali”. L’alpinismo consente ai praticanti di dare a se stessi il diritto di definire il tutto sulla base delle loro capacità e di prendersi la responsabilità delle proprie azioni. Adesso si tratta di capire se vogliamo offrire questo dono come sacrificio in nome dell’impegno autoimposto alla raccolta di dati che andrebbero a sminuire, se non l’avventura in sé, di certo il suo significato.
Naturalmente questa scelta di votarsi a raccontare storie non esime l’alpinista, soprattutto quello professionista, dal dovere di riportare la verità o quanto meno la propria verità sulle sue stesse azioni. Questo, però, non tanto per tradizioni o per una morale falsamente intesa che continuano a regnare nel sacro mondo della montagna. Una persona non mente come scalatore non perché stia rispettando un codice comportamentale prestabilito, oppure perché le montagne siano l’Eden della verità e gli alpinisti persone migliori. No, non mente perché è solito non farlo.
Del resto, sarebbe da ingenui credere che le montagne possano restare un’isola incantata nel meraviglioso nuovo mondo dell’informatica. Siamo già di fronte al suo esatto contrario, con i collegamenti online che consentono di inviare in modo continuativo la posizione, la direzione del movimento, la velocità e i dati corporei come il battito cardiaco, il consumo calorico, la temperatura corporea e la saturazione dell’ossigeno. L’invio di informazioni in tempo reale attraverso i network è diventato uso abituale anche tra valli, vette e malghe. Per un atleta professionista sarà dura sottrarsi alla riproducibilità informatica della propria esperienza individuale.
Per qualcuno dei grandi protagonisti, però, forse, varrebbe davvero la pena di esimersi coscientemente al rilevamento del proprio corpo. Se tutti quelli che girano per le montagne in un modo o nell’altro riportano il proprio andar per monti in forma di dati, a quel punto sarà proprio colui che lascerà qualche lacuna a diventare colui che davvero merita di essere seguito. Un vuoto nel flusso di dati è come un campo non compilato in un curriculum vitae, è quello che richiama a sé l’attenzione.
Uno scalatore che scriva le proprie storie in tempi di dispositivi GPS, Smartwatch, registratori di dati e microchip per le SIM sarebbe una vera attrazione per pubblico, media e sponsor. Questo sempre nella misura in cui viva davvero un’avventura… E la sappia raccontare.
Nota della Redazione di All Mountain:
“Questione di opinioni
Qual è il valore di una documentazione priva di lacune se la stessa viene controllata solo dal Protagonista e non da un’istanza neutrale? Ha forse senso mettersi a confrontare le imprese alpinistiche? (Vedi All Mountain, n. 2, Il prezzo è giusto, articolo sul tema dei premi nel mondo dell’alpinismo). Dovrebbero esserci regole severe per gli alpinisti che si guadagnano da vivere con prime ascensioni, record di velocità e collezioni di vette tipo le “Seven Summits”? Da ultimo, le vette falsamente conquistate per l’alpinismo professionale non sono solo una questione di etica, no, si tratta di una truffa anche dal punto di vista giuridico. La questione se le imprese alpinistiche debbano essere documentate procura ferventi discussioni anche all’interno della redazione di All Mountain. Il punto di vista personale di Tom Dauer apre una nuova interessante prospettiva sulla questione ed è questo lo scopo di All Mountain, ovvero spingere a riflettere, lanciare discussioni e offrire una piattaforma per un ampio ventaglio di opinioni”.
Tom Dauer
È nato nel 1969 ed è cresciuto tra Monaco di Baviera e Città del Messico. Ha cominciato a scalare all’età di 11 anni assicurato dal padre con una corda in vita e da allora ha praticato diverse forme di alpinismo. Ha studiato Scienze politiche e Lettere e ha intrapreso la carriera di giornalista frequentando la Deutsche Journalistenschule di Monaco di Baviera. Da tempo osserva la passione per la montagna e ne scrive. Oggi è redattore di Berge, una delle più importanti riviste di alpinismo, scrive per la Frankfurter Allgemeine Zeitung e per la Zeit e collabora come regista con la televisione bavarese. Il suo film sulla discesa libera più emozionante, Streif – One Hell of a Ride, ha fatto il giro del mondo. Ma Dauer è anche un frequentatore abituale delle montagne della Patagonia. Fino ad oggi è stato varie volte al Cerro Torre, al Fitz Roy e al Cerro Dos Cumbres, e ha partecipato a un tentativo di prima al Domo Blanco. Due suoi libri sono stati tradotti in italiano, Reinhard Karl, senza compromessi (Versante Sud) di Nel 2008 ha pubblicato con Corbaccio Cerro Torre, mito della Patagonia (Corbaccio, 2008). Gli piace portare suo figlio di 9 anni ad arrampicare, ma facendogli sicurezza come si deve. Per maggiori informazioni: www.beschreiber.de/tom-dauer.
Cima o no, successo o insuccesso, a stabilire i principi per la preparazione delle relazioni non è un codice comportamentale alpinistico, bensì una massima ben conosciuta dell’agire.
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“Quello che pratica la stragrande maggioranza delle persone, anche di un certo livello, è un passatempo spesso e volentieri dai contenuti profondi, al punto da diventare uno stile di vita, ma per chi lo pratica a livello professionale, Guide alpine a parte, è un lavoro e come in ogni lavoro ci dovrebbero essere delle precise regole da rispettare. ”
Davvero assurda questa suddivisione, è come affermare la morte dell’alpinismo a livello professionale, i migliori che arrivano a fare della propria passione una ragione di vita totale da ricavarne anche il proprio sostentamento, dal punta di vista etico vengono quindi declassati al livello più basso: puri sportivi pari a calciatori. é come affermare che nell’alpinismo di Messner non ci sono contenuti profondi, certamente egli non sarebbe mai diventato il Messner riconosciuto a livello internazionale se avesse solo dimostrato con la tecnologia ogni suo passo senza aggiungere altro.
No in fondo è proprio il contrario che bisognerebbe fare: distinguere coloro che scalano le montagne al puro scopo di fama, gloria e guadagno e che non mirano ad altro che sbandierare tempi di salita, dislivelli ecc. ecc. come una categoria a parte di sportivi che si servono della montagna per le proprie esercitazioni fisiche e che non hanno nulla a che fare con gli Alpinisti nel senso tradizionale del termine.
Anche questa diventerebbe però una suddivisione artificiosa ed errata perché nessuno potrà mai stabilire il limite della barriera, nessuno potrà mai entrare nell’animo di un’altra persona e stabilirne le motivazioni che lo portano ad un certo agire (è già difficile farlo con se stessi) e poi c’è anche la montagna che concorre a modificare la situazione: ci potrà essere uno scalatore che sale in velocità e incontra condizioni tali della montagna che non deve affrontare alcun imprevisto e può concentrarsi unicamente sulle sue prestazioni fisiche; ci può essere un altro che invece d’un tratto viene bloccato da un evento naturale, ad esempio una frana, che corre un gran pericolo, deve trovare la via di uscita in condizioni del tutto impreviste e così d’un tratto a quello che sembrava un mero sportivo si para davanti l’avventura dell’alpinismo originale. Che dire allora?
In fondo nessuno può giudicare il prossimo. La lealtà da una parte ed il prestar fede dall’altra senza necessarie prove tecnologiche dovrà sempre far parte dell’alpinismo, è quello che ci rende uomini e non robot.
Faccio notare che ciò succede in tutte le arti (la cultura sembra non essere il forte in ambito montano e tanto meno in quello sportivo), anche la fama di pittori e scultori ad esempio e i loro guadagni poggiano sulle stesse problematiche: c’è chi avendone i mezzi attraverso pubblicità, interviste ecc. arriva a vendere la sua “arte” ad alti prezzi al pubblico ignorante che non ha la formazione necessaria per una valutazione propria, possiamo così trovare quadri di dubbio valore artistico e anche del tutto disprezzabili che portano l’artefice a ricchezza e altri di valore genuino che rimangono rilegati all’ombra e con i quali l’artista stenta a vivere. é sempre stato così in tutti i tempi; un ristretto numero di conoscitori saprà distinguere il vero e lo terrà per sé, la folla seguirà sempre la direzione del vento che momentaneamente si presenta.
Ora per l’Alpinismo come unica eccezione nelle arti si vorrebbe fare giustizia e dare una certezza a tutti?
(nuovo blog: frequentazionemontagna.blogspot.it)
Giando con l’agenzia delle entrate mi è capitato di averci a che fare un po’ come credi chiunque in italia, calcola che per un loro errore, pur avendo tutta la documentazione in mano dovrei prima pagare e poi fare ricorso (che non è che costi niente, anzi…) perché non esiste alcun ufficio atto allo scopo… ovviamente li ho mandati a fare un giro (giro è una metafora) non ho pagato e non pagherò mai per una situazione che trovo estremamente lesiva nei confronti del cittadino, quando un giorno il giudice vorrà ascoltarmi, forse ne verremo a capo nel frattempo dito medio alzato…!
Ma come dici tu aldilà della mia esperienza personale, non ci si vive bene con questi sistemi che sono esattamente all’opposto di com’è impostata la nostra società e parlo di quella italiana… quindi se non vanno bene in un senso non dovremmo farceli andare bene quando invece li riteniamo comodi… e nel caso Maestri personalmente la vedo proprio così… anche Bonatti tanto per citarne uno X è andato avanti trent’anni e più prima di veder avvalorata la sua tesi sulla salita del K2 ma era lui ad aver accusato e, senza scendere in particolari che sono piuttosto imbarazzanti per molti italiani se non per tutti, che ha lottato per anni fino a vedersi riconosciuto il torto subito…
Stefano, nel nostro sistema è così in teoria ma in pratica sappiamo che le cose funzionano un po’ diversamente. Non so se ti è mai capitato di avere a che fare con l’Agenzia delle entrate. L’Agenzia presume, poi sta’ al contribuente dimostrare il contrario (cosa spesso impossibile).
In ogni caso vorrei riportare l’attenzione sul mio primo intervento. Dobbiamo operare una distinzione fra coloro i quali di alpinismo vivono e coloro i quali dell’alpinismo ne fanno un passatempo per quanto importante. Inoltre bisognerebbe fare attenzione a non mischiare la ragione col sentimento.
Personalmente non sono così convinto che Maestri sia salito sul Cerro nel 59 ma questo non significa che lo si debba buttare come il bambino con l’acqua sporca. Il curriculum di Maestri parla da solo, salita o meno al Cerro Torre in quell’anno, così come parlano da soli i curriculum di Cesen e Steck. Questo però non significa che per avvalorare una salita basti la parola, soprattutto quando a seguito di quella salita si può acquisire fama, gloria e magari anche soldi.
Recentemente è toccato a un alpinista bolognese, Giuseppe Pompili, di essere stato sbugiardato in merito ad una salita al K2. E’ stata aperta un’inchiesta e per il momento è risultato che in cima alla seconda vetta himalayana non sia mai arrivato. Mi dispiace molto perché il buon Giuseppe me lo ricordo quando da giovane arrampicava in falesia, senza peraltro essere un fulmine di guerra. Però con grande costanza e passione di risultati ne ha ottenuti molti. Se dovessi basarmi sul sentimento gli crederei sulla parola ma che dobbiamo fare?
Viviamo in Italia…! Qui in questo Paese il diritto non è quello anglo-sassone dove chi viene accusato deve portare prove a discarico, da noi il sistema è il contrario…: CHI ACCUSA DEVE PORTARE PROVE!!! E non supposizioni …
Maestri ha detto il vero? Lui lo sa di sicuro… ma nessuno può provare il contrario aldilà di valutazioni personali e all’epoca la prova fotografica non era in uso, almeno non lo era com’è oggi…
si a Maestri gli credo sulla parola. Come credo a Steck e a Cesen, ect. ect.
E anche se fuori tema, dico che quello che hanno fatto i due americani sulla via di Maestri è una vera vergogna.
Ma si sa loro sono americani e dal momento che esportano (a cannonate) la (loro…) democrazia, figuriamoci se non schiodano le vie degli altri.
Dico solamente che i tempi di Steack non sono quelli di Maestri. Steck è un alpinistra estremamente tecnologico e con tutta la sua preparazione , mi sembra un pò strano che non abbia portato il minimo di prova.
Se io dichiarassi di aver salito in 24 l’Annapurna ma di non avere prove nessuno mi crederebbe. E in effetti verificando il mio curriculum di salite basterebbe a darmi la patente del falsario. Ma se lo afferma uno che ho visto correre sulla Nord dell’Eiger? Il dubbio posso averlo, ma se qualcuno ha le capacità di fare una cosa simile , è lui.
Certo che non accendere il gps rafforza il dubbio, noi umani normali lo accendiamo per l’uscita in bici sulla salita dietro casa.
E allora a Maestri crediamo sulla parola?
Alpinismo, professionismo, dilettantismo, giornali, media di vario tipo e genere…
Ricordo soltanto che un alpinista fortissimo, che ebbi il piacere di conoscere e di veder arrampicare con la potenza che lo distingueva, fu bollato dal mondo alpinistico perché dissero non avesse raggiunto la cima e le foto fossero dei falsi… parlo di Tomo Česen che son da sempre convinto abbia salito il Lhotse come disse allora (1990) ma le malelingue non tardarono a farsi vive… Tomo era sponsorizzato ed all’epoca per uno sloveno era una rarità ed un’occasione di vita non per tutti…anzi…
Questo (probabilmente) lo spinse a farsi “prestare” delle foto, viste le pressioni che stavano gravando da parte degli sponsor e fece un passo sbagliato (a posteriori se n’è reso conto non c’è dubbio…) perdendo tutto, credibilità, sponsor (al volo), vita da professionista d’alpinismo… addirittura in patria lo smerdarono a livelli esponenziali…figuriamoci una Slovenia allora emergente che stentava ad avere riconoscimenti dall’occidente e sperava in un futuro più ricco… lo “lapidarono” … ma le malelingue non si fermarono comunque vennero messe in discussione le sue salite come “No siesta!” alle Grandes Jorasses e lo Jannu… Fortunatamente per lui i suoi livelli erano esponenziali e ciò gli permise di inserirsi nel mondo della sportiva dove ottenne grossi risultati come tracciatore ed allenatore…
Nessuno dei detrattori però ha mai ripetuto qualche via di Tomo sulle Giulie (non so quanti le abbiano provate e se qualcuno c’è stato non certo occidentali…) altrimenti con la cacca nelle mani si sarebbero ricreduti…!
Quando girano miliardi l’alpinismo non esiste più!
sono d’accordo con Giando.
Se vivi di alpinismo, se prendi soldi, se vendi la tua immagine , se vendi la salita, se chiedi l’ applauso. Non puoi pretendere che ti diano soldi e fama solamente sulla parola. Devi un minimo dimostrare quello che dichiari di avere fatto. In questo caso un minimo di regole ci vogliono.
Altrimenti lo fai solo per passione, solamente per te. E a questo punto sono cavoli tuoi.
Ha veramente fatto Steck la sud dell’ Annapurna?
A questo punto bisogna credergli sulla parola. Certamente visto l’elemento, visto quello che è stato capace di fare, i presupposti ci sono tutti.
E’ altresì un pò strano che un alpinista tecnologico, mediatizzato, preparato, con tanto di personal trainer come lui , non possa dimostrare la sua salita.
Gran belle considerazioni però non si può mischiare l’alpinismo amatoriale con quello professionistico. Chi campa di alpinismo dovrebbe documentare in maniera incontestabile il risultato ottenuto.
Sono stati proposti degli esempi calcistici ma perchè non proporre esempi di altri sport quali il football americano, il basket o l’atletica leggera. Sport dove casi come il gol fantasma di Hurst o la mano di Maradona non possono esistere. Forse che in questi sport non sono esistiti e non esisteranno mai miti e leggende? Vogliamo parlare di Jesse Owens o di Michael Jordan? Gli errori arbitrali non sono certamente il sale dello sport.
Ma torniamo sempre lì, all’eterno dilemma: che cos’è l’alpinismo? Quello che pratica la stragrande maggioranza delle persone, anche di un certo livello, è un passatempo spesso e volentieri dai contenuti profondi, al punto da diventare uno stile di vita, ma per chi lo pratica a livello professionale, Guide alpine a parte, è un lavoro e come in ogni lavoro ci dovrebbero essere delle precise regole da rispettare. Non è ammissibile che qualcuno fondi la sua fama sul nulla, che scriva libri, tenga conferenza, rilasci interviste. Poi possiamo discutere sulle modalità di validazione dei risultati ma questo è un altro discorso. Ci sono degli organismi internazionali, che facciano il loro mestiere.
In quest’ottica sono molto poco romantico anche perché di gente che ci prende per il sedere ce n’è già abbastanza. Se uno vuol praticare l’alpinismo a livello amatoriale può dire e fare ciò che vuole, può documentare o meno, raccontare storie vere o false, chissenefrega. Saranno gli amici, i parenti, la comunità a giudicarlo ma se uno vuole vivere d’alpinismo non può farsi prendere in castagna. E allora che si esca una volta per tutte da questa logica, che si riconosca l’aspetto sportivo dell’alpinismo, che lo si disciplini, che si facciano le regole, le classifiche, come in tutti gli altri sport così la finiamo e ci mettiamo tutti quanti il cuore in pace.
Giandomenico Foresti