Metadiario – 168 – Altissima, purissima, Levissima (AG 1992-005)
Foto di Marco Milani (ad esclusione di quelle dell’Everest View Hotel)
Come la K3Photo Agency fosse arrivata a contatto con la BBE Cinematografica non fa purtroppo più parte dei miei ricordi…ma nel 1992 questa casa di produzione era un colosso nel suo campo. Il mercato della realizzazione di spot pubblicitari conosceva allora il momento di massimo “splendore”, le produzioni erano tutte affette da gigantismo: anzi facevano a gara non tanto a chi ideava e realizzava il meglio, bensì a chi lavorasse con budget sempre più esagerati.
Naturalmente noi nel nostro piccolo non sapevamo nulla di queste cose e le apprendemmo solo con l’esperienza di una tra le settimane più folli che mi sia mai capitato di vivere in montagna.
L’idea della Levissima era quella di realizzare un filmato da 30” con la presenza totalizzante di Reinhold Messner che alla fine avrebbe pronunciato il famoso slogan “Altissima, purissima, Levissima”. Inizialmente nessuno pensava a una meta distante come un regno himalayano, ma quando si seppe che in quel periodo il protagonista sarebbe stato come da suoi programmi in Nepal, fu giocoforza accettare che l’intera troupe si trasferisse laggiù. Insomma, la montagna che va a Maometto.
Il punto che con difficoltà un individuo normalmente razionale poteva accettare è che era normale (ed è tuttora) che la realizzazione di uno spot di soli 30” dipendesse sì da molti fattori diversi, ma che tra questi le stagioni giuste fossero l’ultima delle preoccupazioni. Questo significava (e tuttora ancora significa, anche se a livelli meno parossistici) che se in uno spot era prevista la presenza della neve, state pur certi che le riprese venivano fatte in piena estate; e che se, al contrario, era prevista la presenza della natura verde, era sicura una lavorazione in pieno inverno. Bisognava girare nella settimana prima di Natale, e se Messner, a dispetto di un onorario certamente appetitoso, non era disponibile in quel periodo se non in una location nepalese, niente paura. Tutta la troupe si sarebbe trasferita con armi e bagagli da Milano a Kathmandu. Ma, dimenticavo di dire, questa troupe consisteva di una quarantina di elementi!
Oltre al regista, c’erano l’aiuto-regista e un assistente: tutti e tre abitanti in San Francisco (California); e poi: coordinatore e segretario di edizione, direttore della fotografia, operatore alla macchina (con ovvi assistente e aiuto-operatore), soggettista, elettricisti, gruppista, capo-macchinista e macchinisti, costumista (con assistente e aiuto), scenografi, fonico, truccatori, attrezzisti, microfonista. A parte la regia, tutti italiani, in generale maschi, a parte qualche misurata presenza femminile con incarichi non di primissimo piano. Certamente ho dimenticato qualche figura ma, credetemi, eravamo una quarantina.
E poi, sì, c’eravamo Marco Milani ed io: lui con il compito di fotografo ufficiale, io con quello di “location manager”, cioè il delegato a scegliere e poi presentare (con le dovute motivazioni) i luoghi dove, in base alle esigenze dello storyboard, si sarebbe andati a girare.
Una volta intruppati nel gruppo, assistemmo ad almeno due riunioni negli uffici della BBE Cinematografica, dove si disse tutto e il contrario di tutto. Ne uscimmo con le idee davvero confuse, ma abbastanza chiare per il lavoro che ci riguardava.
La partenza fu da Milano il 15 dicembre 1992. Finalmente vedevamo la troupe al completo, c’erano anche i californiani che avevano trascorso la notte nel miglior albergo metropolitano. Per il resto, la maggioranza erano o milanesi o romani. Tutto sommato una compagnia abbastanza simpatica, soprattutto grazie a qualcuno dei romani: questi trovavano modo, pur obbedendo, di dissacrare qualunque ordine: e io mi trovavo molto bene con loro, perché avevo fame di una qualche leggerezza in mezzo a quell’inquietante compagine para-militare all’italiana.
Il giorno dopo a Kathmandu fu praticamente passato in albergo (naturalmente lo Yak and Yeti, il più considerato) a mettere a punto gli ultimi dettagli con Reinhold: anche il coordinamento con l’agenzia Sherpa che forniva i servizi logistici richiese ore di discussioni e puntualizzazioni. Solo nel tardo pomeriggio potemmo fare un giro per il centro storico della città: loro per stupirsi e meravigliarsi, io per constatare quanti e quali cambiamenti Kathmandu avesse subito in una quindicina di anni…

Il 17 dicembre con alcuni viaggi di Pilatus e Twin Otter ci trasferimmo prima a Lukla e da lì, con vari voli di elicottero, all’eliporto di Khumjung, a 3790 m. La nostra destinazione per quel giorno era l’hotel Everest View, la storica struttura alberghiera che nel 2004 sarebbe stata inserita nel Guinness dei primati come l’hotel più alto del mondo. Inaugurato nel 1971, era già presente ai tempi delle mie prime scorribande di trekking nepalesi, ma di certo mi ero ben guardato dal metterci piede, anche se per fortuna è ben nascosto da una foresta di rododendri giganti, su un crinale al di sopra di Khumjung, dal quale si gode davvero di un panorama eccezionale.
Situato all’interno del Parco Nazionale Sagarmatha (istituito già nel 1976) e futuro patrimonio mondiale dell’UNESCO, l’hotel vanta sì una vista incredibile a 360 gradi ma è più famoso ancora per la vista sull’Everest da ogni stanza (dotata di ossigeno di emergenza), anche se in realtà di questa montagna si vede solo la parte sommitale perché il resto è coperto dalla gigantesca bastionata del Nuptse e del Lhotse.
Era la primavera del 1968 quando l’imprenditore giapponese Takashi Miyahara posò per la prima volta lo sguardo sulla magnifica catena dell’Everest dalla cresta di Syangboche. Ciò che vide era così speciale da fargli sognare di costruire un hotel di lusso proprio in quel luogo.
La costruzione, a fine anni Sessanta, fu estremamente impegnativa, un’impresa alla Fitcarraldo. A quella quota di 3880 m, il materiale fu trasportato o tramite il viaggio di due settimane dei portatori che partivano da Lamosangu (80 km da Kathmandu) o per elicottero. Materiali come le porte scorrevoli in vetro utilizzate nelle camere, i vetri del solarium, le coperte e le posate sono stati importati dal Giappone, via nave fino a Calcutta, poi treno attraverso l’India, quindi camion fino a Kathmandu e Lamosangu.
L’hotel è stato progettato dall’architetto giapponese Yoshinobu Kumagaya e ancora oggi riceve elogi per il design semplice ed elegante.
Presentato in numerose guide e avendo ricevuto grande copertura mediatica, il resort è diventato oggi una destinazione a pieno titolo.
Non tutta la troupe poté approfittare di cotanto lusso, perché i posti non erano sufficienti. Alcune tende ospitarono i meno fortunati, salvo poi riunirsi tutti assieme per colazione e cena. I pasti erano serviti in una grande sala la cui parete di fondo non era costituita dalle pietre scolpite a mano che ricoprono la maggior parte degli interni, bensì presentava un antico masso situato naturalmente in cima al crinale. Questo era lasciato così com’era con l’iscrizione buddista tibetana “Om mani padme hum”.
Il veloce trasferimento a quella quota provocò il disastro generale del mal di testa, con i più sfortunati che pativano anche di diarrea.
In questo diffuso malessere, il 18 iniziarono le prime riprese giusto nei dintorni dell’hotel, alle quali di noi due assistette solo Marco, mentre io volavo in elicottero assieme a tre Sherpa fino a Dingpoche. Qui si svolse il mio più importante incarico e cioè reperire una location che non doveva essere distante da qualche risalto di ghiaccio, proprio sotto all’Ama Dablam: doveva essere raggiungibile con l’elicottero e magari con un laghetto ghiacciato per avere acqua. Mi ero anche consultato con Reinhold.
Mi fidai di uno Sherpa che sembrava avere ben presente un luogo con quelle caratteristiche. Salimmo in circa tre ore fino a più o meno 5500 m, dove effettivamente era un laghetto ghiacciato, lambito da un ghiacciaio tranquillo, senza seraccate ma con la presenza di muri e risalti di ghiaccio. Intorno, un’ampia distesa morenica dove allestimmo un approssimativo spiazzo per permettere all’elicottero di atterrare; ricavammo anche le prime piazzole per le tende. Dopo questi lavori uno degli Sherpa si precipitò in basso per raggiungere Dingpoche e quindi l’Everest View Hotel: la mattina dopo avrebbe avuto il compito di guidare il pilota da noi. La sera ebbi il contatto radio con il coordinatore logistico e gli spiegai che eravamo pronti per il loro arrivo in massa. Fortunatamente non era previsto che proprio tutti salissero a quella quota, però almeno una trentina sì.
Dopo una cena più che decente consumata con i due Sherpa, mi ritirai in tenda: avevo anch’io un po’ di mal di testa, ma speravo che per il giorno dopo mi sarebbe passato. Cosa di sicuro non possibile per la troupe, visto l’ulteriore sbalzo in elicottero da 3880 m a 5500 m. In più, il freddo era siderale.
In tarda mattinata, con un bel po’ di voli, arrivarono i malcapitati: tra loro spiccava un pimpante Reinhold, del tutto a casa sua in quel freddo e a quella quota. Anche Marco stava bene.

Le riprese cominciarono nel pomeriggio: si doveva raccontare un Reinhold che, con piccozza e ramponi, saliva e scendeva per i risalti di ghiaccio. Tutto filò liscio, ma il tempo presto diventò molto grigio e di certo il risultato non fu esattamente quello voluto dalla produzione, che avrebbe desiderato, per meglio ambientare il discorso acqua, un bel sole con cielo azzurro. La sera erano tutti stanchissimi e stravolti dal mal di testa: pochissimi fecero onore alla peraltro ricca cena preparata dal cuoco Sherpa. La maggior parte, dopo aver bevuto il tè, aveva preferito ritirarsi nelle tendine.
Il 20 mattina, se possibile, faceva ancora più freddo e in quelle condizioni c’era anche da aver timore che nel pomeriggio i voli d’elicottero necessari a riportare la gente all’Everest View non potessero essere effettuati. Dopo febbrili consultazioni via radio, venimmo rassicurati che non erano previste nevicate per il pomeriggio. Dunque il programma poteva andare avanti.
Dopo alcune riprese che si concentravano sui particolari, si arrivò all’ultima delle scene clou che erano state preventivate.
Era stato montato dai macchinisti un trespolo di legno cui erano state appese delle finte stalattiti di ghiaccio, una serie di sei o sette. Il materiale sintetico di cui erano fatte assomigliava molto al ghiaccio, ma il problema era un altro: lo storyboard prevedeva che Reinhold passasse a distanza ravvicinata accanto alle stalattiti e le guardasse meravigliato mentre da queste colavano gocce di acqua, purissima appunto. Due tentativi abortirono miseramente perché l’acqua riscaldata fino a bollore e versata dall’alto da un secchio in una canalina non faceva a tempo a scorrere lungo la superficie delle stalattiti sintetiche: ghiacciava prima!
La cosa portò allo sconforto generale e a grande nervosismo. Ma a quel punto lo stellone italico si palesò. Un macchinista romano andò nella sua tenda e ne tornò con una bottiglia in mano. La vodka riuscì a scorrere senza ghiacciare. Lo applaudimmo tutti, anche gli Sherpa! E tte credo che Reinhold guardasse con ammirazione quel ben di Dio “sprecato”…
Ad eccezione dello staff Sherpa, quel pomeriggio tornammo tutti in elicottero. Non che io mi sentissi responsabile, però sotto sotto avevo davvero paura che qualcosa andasse storto per qualcuno… E infatti Marco ed io approfittammo con i pochi rimasti dell’ultimo volo, condotto in mezzo a una nuvolaglia inquietante.
La mattina dopo ci fu qualche altra ripresa di dettaglio, ma alla sera eravamo già a Kathmandu, desiderosi soltanto di ripartire per l’Italia.
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C’è anche qualcuno apparso in diverse foto pubblicitarie della premiata ditta Gogna&Milani completamente aggratise, off course!
🙂 🙂 🙂
Insomma… l’unico che non ci ha guadagnato niente sono stato io. Non so se Sandro ricorda, ma ancora minorenne mi avevate “usato” come cavia per la foto di prova Levissima (braccio alzato con bottiglia in mano). In Valmalenco Marco Milani scattò due o tre rullini di diapositive con la mia faccia da pirla. Posseggo ancora qualche diapositiva di quel giorno, tutte uguali! 🙂
“Matteo , e ti meravigli?!?!?!?”
béh, si un po’ mi meraviglio, perché come pubblicità faceva ridere tanto era banale, senza un’idea, grottesca quasi.
E’ ovvio che sono io a non capire nulla di pubblicità, di società dei consumi, di psicologia delle masse.
Però un po’ mi meraviglio (e mi deprimo!)
Matteo , e ti meravigli?!?!?!?
Grazie, però mister Messner sicuramente ai saldi che gli davano per questa minchiata ci faceva caso eccome.
La vera follia sta nel fatto che quella pubblicità, che io trovavo alquanto idiota, invece funzionò benissimo e l’estate successiva si vedevano dovunque i merenderos con la bottiglia Levissima nella tasca esterna dello zaino!
A quell’epoca Messner non faceva caso agli inutili sprechi di risorse, soprattutto in aree dove vige povertà.
Bello conoscere il dietro cinepresa e la gran mole di lavoro (necessario!?!)per uno spot d’ “altissima” quota ,perlomeno quelli nati nel periodo anni ’90.
Ma non basta per togliermi tutta la noia e il tormentone creato da quello spot.
Se pecunia/urina non olet figuriamoci l acqua …
Meriteremmo l estinzione solo per metterla in bottiglia(di plastica ovviamente ).
Bel racconto davvero! Triste constatare che nel secondo anniversario dell’invasione dell’ Ucraina pure qui si palesa nei commenti un po’ della demenza ecolalica che affligge ormai il paese da 30 anni.
Bel resoconto di una specie 8a suo modo) di cinepanettone all’italiana.
Bell’articolo e molto istruttivo. Sottolineo la frase inquietante compagine para-militare all’italiana sempre valida anche per le vere campagne militari con le troupes NATO
Il bello della fiction.