Il redux* della Pinna di Squalo
(finalmente un successo sulla spettacolare pinna di squalo del Meru Central, in India)
di Jimmy Chin
(pubblicato su The American Alpine Journal, 2012)
Foto di Jimmy Chin
Traduzione: Luca Gasparini
L’ultima mossa è stata, come diciamo in America, semplicemente un ristabilimento: mani sul bordo di una cengia di granito affilata, un tallonaggio e una pressione verso l’alto. Quando ho superato il labbro, mi sono guardato intorno, momentaneamente confuso dal fatto che non ci fosse più nulla da scalare. Ero sicuro che ci fosse un altro ostacolo, un altro chiodo ad indicare la via, un altro tiro di misto: invece c’erano solo cielo e nuvole vorticose. Guardavo incredulo.
Il 2 ottobre è il compleanno del Mahatma Gandhi, un giorno di buon auspicio in India. L’anno scorso è stato il giorno in cui Conrad Anker, Renan Ozturk e io abbiamo finalmente raggiunto la vetta di 6310 metri della Sharks Fin, altrimenti nota come Meru Central. Si trattava del terzo tentativo di Conrad sul famigerato contrafforte nord-est della Pinna di Squalo, e del secondo mio e di Renan.
Tre anni prima, noi tre avevamo lottato per 19 giorni sulla stessa via. L’iconica montagna sembrava intenzionata a confonderci. Eravamo costantemente umiliati dalla forza della natura e dalle diverse tecniche di salita che dovevamo utilizzare. Avevamo anche sottovalutato il freddo a cui saremmo stati sottoposti sulla parete esposta a nord-est. Nonostante la tempesta che impreversò per una settimana sulla via e il razionamento a otto giorni di cibo su 19, ci siamo spinti fino a due tiri dalla cima. La vedevamo, ma sembrava lontana. Per proseguire avremmo dovuto passare la notte fuori, ed eravamo già ben oltre il limite. Sapevamo che nelle nostre condizioni non ce l’avremmo fatta. Ci sentivamo a pezzi, fisicamente ed emotivamente, mentre ci calavamo nella notte verso il nostro campo sospeso.
La storia personale di Conrad con la Shark’s Fin – il soprannome con cui gli alpinisti chiamano la lama di granito del Meru Central, nelle profondità del Garhwal indiano – risale a decenni fa. Degli oltre 25 tentativi alla vetta negli ultimi 25 anni, due sono stati compiuti da Mugs Stump, mentore di Conrad come scalatore e come persona. Mugs ha mostrato a Conrad le corde, letteralmente e metaforicamente, e questa era la salita dei suoi sogni. Mugs è morto in un crepaccio nel 1992 in Alaska. Conrad non desiderava altro che completare la via per il suo amico.
Il solitario russo Valery Babanov è stato il primo a raggiungere la vetta, nel settembre 2001. Babanov ha stimato che prima del suo successo erano falliti 15 tentativi, compreso uno dei suoi la primavera precedente. Durante il suo tentativo poi fallito, aveva seguito la stessa linea di salita che abbiamo seguito noi, risalendo la prominente prua nord-orientale, ma era tornato indietro a 5800 m. A settembre scelse una linea completamente diversa, molto più a destra sulla parete di ghiaccio (vedi il suo articolo nell’AAJ 2002).
Il primo tentativo di Conrad sulla cima nord-est risale al 2003, con Doug Chabot e Bruce Miller. L’hanno tentata in stile alpino, salendo la porzione inferiore della montagna prima di uscire nei canali di ghiaccio a destra della parete principale. La neve non consolidata li fece tornare indietro a metà salita.
Cinque anni dopo Conrad reclutò Renan e me per il suo nuovo tentativo. La scalata, mi disse, presentava una lunga salita alpinistica sormontata da una grande parete strapiombante, abbastanza ripida da poter fare BASE jump.
La via era perversamente sfavorevole, poiché l’arrampicata più tecnica, che richiedeva l’attrezzatura più pesante, si trovava vicino alla cima. Tutti i tentativi alpinistici su questa linea di salita della parete principale erano falliti, quasi tutti nello stesso punto, alla base della parete sommitale che si presenta strapiombante. Tutto questo intorno ai 5900 metri. Conrad sapeva che la salita avrebbe richiesto le capacità di un arrampicatore da big wall oltre a quelle di un alpinista.
Dopo aver fallito nel 2008, siamo tornati alla nostra vita normale perseguitati da quei due tiri non saliti. Eppure sono stati una benedizione. Ci motivavamo reciprocamente e, nonostante ci dicessimo che l’aver salito il 98% della via era sufficiente, in privato ci ossessionavamo per i tiri non completati.
Nel 2009 Silvo Karo contattò Conrad per la salita. Conrad ha condiviso tutto quello che sapeva, compresi i consigli sullo stile migliore di salita. Da una parte speravamo che la squadra di Silvo ce l’avrebbe fatta. Ma quando Silvo non ce l’ha fatta, Conrad ci ha chiamato per darci la notizia. Era chiaro che tutti noi volevamo tornare.
Conrad, un professionista consumato, aveva degli ottimi appunti sui suoi primi due tentativi. Li abbiamo esaminati per preparare la spedizione successiva, studiando ogni dettaglio; considerammo chi avrebbe condotto i tiri; a come farlo in modo più veloce, più leggero e con uno stile migliore. Alla fine abbiamo scelto uno stile ibrido alpino/capsula. Abbiamo portato con noi quattro corde (due per la vera e propria progessione e due statiche); due sacchi da recupero; un portaledge; un fornello; attrezzatura da alpinismo, da misto e da soccorso; sacchipiuma e cibo per otto giorni.
Tornati sulla via, abbiamo scalato in 48 ore quello che nel 2008 ci aveva richiesto sei giorni. Nei giorni successivi abbiamo approfittato di un sistema di alta pressione, ideale per temperature e per roccia asciutta. Sul tratto strapiombante (che soprannominammo la Parete dell’Oceano Indiano), che abbiamo raggiunto dopo altri quattro giorni di arrampicata, abbiamo risparmiato tempo collegando i tiri di artificiale che avevamo fatto separatamente al primo tentativo. Ci siamo spaventati quando una delle barre dei portaledges si è spezzata a metà, ma una riparazione assai creativa con viti da ghiaccio ha salvato la situazione. Eravamo consapevoli di quanto le previe conoscenze della via avessero aiutato la nostra pianificazione, scherzavamo sul nostro tentativo redpoint alpino, sul fatto che precedentemente fossimo “caduti” poco prima della “catena” ma sapevamo che questa volta avremmo proseguito fino alla fine. Nonostante l’umorismo, il dubbio era presente ogni giorno mentre risalivamo i delicati tratti di A4 così come i duri tratti di misto.
Alla vigilia del nostro tentativo di vetta, il tempo assolutamente da incanto si guastò, il vento iniziò a soffiare forte e si mise a nevicare. Il vento faceva rimbalzare la nostra portaledge contro la parete, ricordandoci i giorni trascorsi bloccati sulla parete nel 2008. Ci rintanammo nella portaledge sperando il tempo migliorasse. A mezzanotte guardammo fuori e c’era un cielo pieno di stelle. Era giunto il momento. Alle 2 di notte ci lanciammo sulle nostre due corde fisse, subito dopo Conrad attaccò il tiro di misto, poco protetto, sotto la cresta della vetta. La forza di volontà di Conrad ci aveva portato lì nel 2008 e altrettanto fece nel 2011.
Quando superammo la cresta, fummo baciati dal sole. Finalmente potevamo affrontare gli ultimi due tiri. Il ghiacciaio Gangotri brillava molto più in basso. Era giunto il mio turno per passare in testa e feci la cresta affilata letteralmente saltando, per fare in fretta. Dopo un’arrampicata mista e 15 metri di artificiale, preparai un ancoraggio. Conrad salì e si accinse ad assicurarmi, mentre Renan si occupava di ripulire il tiro sotto. Un’altra lunghezza di 5.8, un semplice ristabilimento, ed eravamo arrivati.
Sulla cima ci siamo abbracciati, umilmente riconoscendo che questa volta il Meru ci aveva permesso di passare. Il nostro sogno, il sogno di Mug, si era realizzato.
Una nota di Renan Ozturk: “Il nostro fallimento del 2008 era stata la spedizione più difficile della nostra vita. Sapevamo che se fossimo tornati sarebbe stato con la stessa squadra. Ma cinque mesi prima della partenza del 2011, durante una giornata di scialpinismo con Jimmy, una spigolata mi fece cadere e precipitare oltre un dirupo. Tutto questo sulle cime che contornano Jackson Hole, nel Wyoming. Il risultato fu una frattura esposta del cranio, due vertebre del collo fratturate e un’arteria vertebrale recisa. Jimmy in quella occasione reagì rapidamente e probabilmente mi salvò la vita. Conrad arrivò nel reparto di terapia intensiva poco dopo. Nonostante le diagnosi, e consapevole della paura di amici e familiari, sono tornato al Meru con loro. Avendo perso metà dell’apporto di sangue al cervello, non ero sicuro di come me la sarei cavata in quota. Sarebbe stato facile per Conrad e Jimmy trovare un compagno forte per sostituirmi, ma loro rimasero fedeli a me. Volevo davvero tornare per far parte del sogno decennale di Conrad e della collaborazione decennale di Jimmy e Conrad. La spedizione era andata oltre il semplice scalare una montagna; era diventata l’epitome della lealtà e della fiducia tra amici, partner e mentori“.
Sommario
Area: Garhwal Himalaya, India.
Ascensione: La Pinna di Squalo di 6310 m del Meru Central (VII, 5,10 A4 M6 WI5) di Conrad Anker, Jimmy Chin e Renan Ozturk. Hanno raggiunto la vetta il 2 ottobre 2011, durante un push di 12 giorni. Si stima che dall’inizio degli anni ’80 siano stati effettuati 25 tentativi su questa parete, di cui tre da parte dei membri di questa spedizione nei sette anni precedenti. I resoconti dei precedenti tentativi di Anker e del team sono riportati in AAJ 2004 (pag. 378) e AAJ 2009 (pag. 309). La spedizione britannica del 1993 guidata da Paul Pritchard ha coniato il nome The Shark Fin per il pilastro est del Meru Central, allora non scalato.
Una nota sull’autore
Jimmy Chin, residente a Victor, Idaho, è uno dei fotografi di spedizione di maggior successo. Le sue capacità di cameraman, scalatore ed esploratore gli sono valse numerosi premi, tra cui l’Emerging Explorers Grant del National Geographic. Ha effettuato prime ascensioni e difficili traversate nella maggior parte dei continenti e ha sciato il Monte Everest dalla cima. Regista del premio Oscar Freerider (la prima free solo di Alex Honnold su Freerider al Capitan, NdR).
*In inglese, redux descrive le cose che sono state riportate indietro, cioè metaforicamente. Per esempio, se il rapporto tra due nazioni assomiglia a quello tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica alla fine del XX secolo, si potrebbe definire la situazione un “redux della guerra fredda”. Ma un cane riportato a casa dopo essere fuggito probabilmente non sarà più chiamato “Buddy redux”. Il latino redux ha avuto storicamente un’applicazione più letterale. Per esempio, i Romani usavano questo senso di redux per caratterizzare la dea del caso, Fortuna; si confidava che Fortuna Redux riportasse sani e salvi coloro che erano lontani da casa. Oggi, redux è sempre più utilizzato anche come sostantivo con un significato simile a retread o eco, come in “Il suo ultimo film era solo un povero redux del suo precedente lavoro più visionario“.
9
Dice il saggio:
“Beati gli alpinisti estremi, perché di essi è il Regno dei cieli”.
Ciò vale sia se riescono ad arrivare in vetta, perché in tal caso hanno davvero toccato il cielo, sia se ci lasciano le penne, in quanto vorrà dire che sono entrati nel Regno dei cieli (forse).
Ragazzi, fate i bravi! La vita è breve. Non accorciatela.
Sûrement une belle aventure.
Molto bello anche il film realizzato grazie alle ottime capacità di Jimmy Chin in ambito. Da vedere “Meru” è il titolo
La linea di questa via è spettacolare
Pagine di alpinismo autentico coronate da forza di volontà che dovrebbe servire da esempio (incidente di Ozturk) a chi spesso e troppo frettolosamente si da per inadatto.