“Verrà un giorno in cui le nostre membra sentiranno più forte la fatica, in cui ogni idea di arrampicate difficili sarà lontana da noi, in cui il ricordo di questi altissimi panorami sarà scomparso dalla nostra memoria. Allora una generazione più giovane di noi, alpinisti più audaci, giudicheranno poco ardite ed importanti le nostre imprese. Verranno quei giorni, ma non si cancellerà dai nostri animi il ricordo dell’entusiasmo purissimo con cui, poco dopo il Colle d’Arnas, salutammo tra le nebbie l’apparire della nostra Bessanese (Giacomo Dumontel, 26 febbraio 1905)”.
Ricordi alpini
di Martino Baretti
(pubblicato in Bollettino del Club Alpino Italiano, Vol. VIII, n. 22, anno 1874)
Il titolo è modesto. I profani all’alpinismo, quelli che non vogliono o non sanno apprezzare il bello della vita alpina passino pur oltre; non è per loro che ora tento buttar giù alla meglio questi miei cari ricordi alpini; è per l’ardita e robusta gioventù che ama le aure, gli orizzonti, le faticose giostre delle Alpi, che in questa ricerca il campo e di studio e di sfogo a quella esuberanza di vita o di forza che langue soffocata dalle abitudini cittadine. Ricordi alpini! Quanto ampio è il significato di queste due parole! Lunghe ore di meditazione sugli episodii delle passate escursioni, scambio di racconti e di pensieri tra amici alpinisti, progetti e speranze per l’avvenire, tutto è racchiuso in quelle due parole. Si rivedono col pensiero i campi di ghiaccio scintillanti al sole mattutino, le azzurrine regioni dei séracs, le creste a profili fantastici, le orgogliose cime, il verde vellutato dei pascoli trapunti da miriadi di fiori dal soave profumo, i placidi laghi leggiadramente increspati sotto il bacio della brezza alpina; l’orecchio risente il sibilo della tormenta, la romba della valanga, il tuono della cascata: il cuore accelera le sue pulsazioni; l’occhio si accende del lampo del coraggio; il fascino del grandioso, del bello ci domina; tace ogni altro sentimento che non sia nobile e grande; la natura franca e generosa dell’alpinista trionfa.
La rimembranza del passato desta il desìo dell’avvenire. Quanti mesi, quanti giorni ancora prima che drizziamo il volo alle Alpi? ci domandiamo, anelanti a nuove lotte, a nuove vittorie; quel tempo vorremmo abbreviarlo, annientarlo. Tutto ciò in due semplici parole. Ricordi Alpini.
Ma questa è una manìa, gridano taluni, cui triplice usbergo d’indifferenza chiude la via al cuore ad ogni sentimento generoso e sublime; — pazzi! — ci dicono tali altri, por cui ogni entusiasmo è per lo meno ridicolo. A noi che importa del loro giudizio? A noi alpinisti che preme del loro sorriso ironico e quasi insultante? Gridino pure alla manìa, ai pazzi; bella è la nostra manìa, troviamo il nostro tornaconto ad essere pazzi in tal modo. Il loro sarcasmo menoma forse il compenso che dai nostri esercizi ricaviamo? A noi le delizie della vita alpina, l’aura dei monti, la salute e l’energia; a loro gli snervanti divertimenti delle città, la velenosa atmosfera dei centri abitati; il lotto migliore è il nostro. A loro la prosa delle cifre, le egoistiche aspirazioni del secolo banchiere; a noi la poesia delle Alpi, quella poesia che conquide colla sua grandiosità ed esalta quando la si comprende, poesia moltiforme che sotto ogni aspetto rapisce con irresistibile potenza; poesia che si sente fortemente, ma non si può riprodurre nel nostro meschino linguaggio.
Gli antichi ebbero la religione dei monti, divinizzarono le montagne, ne fecero sede dei loro numi. Noi pure le amiamo fortemente; che è là, ove nei bagni di luce e di aria pura ritempriamo il nostro organismo, è là che l’amor proprio è soddisfatto di combattere e vincere coll’aiuto delle sole risorse personali di agilità e robustezza gli ostacoli che si parano davanti; è là che troviamo il vero coraggio freddo e calmo proprio ai grandi cimenti. Non sono le Alpi ed i monti in genere che ci rivelano l’origine di quei fattori di civiltà e progresso che sono i fiumi? Non è nei monti che possiamo leggere la storia ed afferrare il misterioso meccanismo di questo nostro globo? Non sono lo montagne che determinano la distribuzione delle razze umane, e che, mentre servono di limiti ai possessi di tanti popoli diversi, sono fra questi veri tratti di unione? Non è nelle catene montuose che troviamo la spiegazione della diversa fecondità delle pianure? Non è là che lo scienziato sorprende la natura nelle sue misteriose operazioni? E l’artista non cerca esso nei burroni, nelle foreste, sulle eccelse vette dei monti il soggetto dei suoi lavori? Si mediti su tutto ciò, e poi si abbia il coraggio di chiamare una manìa l’amore delle Alpi, di affibbiare all’alpinismo il ridicolo distintivo di moda.
Le Alpi sono vero ed amplissimo campo d’azione al genio dell’uomo; amiamole e studiamole. Dico amiamole e studiamole, perché non basta cercarvi potenti emozioni, salute e diletto, ma fa d’uopo raccogliervi osservazioni di ogni genere, e queste rendere patrimonio di tutti, che altrimenti sarebbe imperdonabile egoismo. Il campo di studio è vasto, è accessibile a tutti, e non occorre essere scienziato. Coraggio adunque, miei colleghi alpinisti. Possiamo dirci fortunatissimi di avere a portata di mano il modo di distinguerci e di dare una smentita a quelle tanto voci che fecero dell’Italia nostra terra di fiacchi ed inerti; non rendiamoci indegni di tal fortuna che tanto gli stranieri ci invidiano.
Premesso queste poche parole di introduzione, che vorrei servissero di potente sprone alla gioventù italiana, mi accingo a riandare colla mente le diverse corse da me fatte nelle Alpi durante la campagna 1873. Non toccherò che dei fatti saglienti, che altrimenti troppo lungo e noioso riuscirebbe questo mio scritto.
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Buon compleanno Bessanese!
a cura di Beppe Leyduan
(pubblicato su camoscibianchi.wordpress.com il 25 luglio 2023)
Il 26 luglio del 1873 (150 anni fa) il Prof. Martino Baretti compie un’impresa a quei tempi ritenuta impossibile: con la guida Giuseppe Cibrario, detto Vulpot, scala gli ultimi 20 metri che separano la vetta dal segnale Tonini, l’ingegnere del Catasto del circondario di Susa che nel 1857 effettua la prima ascensione dell’Uja di Bessanese, il Cervino della Val d’Ala, fermandosi però poco sotto la vetta.
Baretti, il 23 giugno di quell’anno, si reca ad Usseglio e ingaggia Vulpot per compiere la prima salita della Punta Lunella, in Val di Viù. Non si può parlare di “prime” senza ricordare il fondamentale supporto che diedero in quegli anni le guide alpine e che contribuirono in modo determinante a far conoscere le Valli di Lanzo.
“[…] Il 22 giugno partii da Torino e pel colle della Portìa mi recava ad Usseglio onde ritentare la prova dal versante a nord. Vi cercai la più pratica tra le guide del paese, certo Cibrario Giuseppe, conosciuto universalmente col soprannome di Volpot o Volpin. Perchè poi questo soprannome? Forse perché di statura bassotta, di corporatura snella, di proverbiale agilità, di non comune arditezza, sia stato dai suoi compaesani paragonato ad uno di quei coraggiosi e piccoli cani cosi conosciuti fra noi sotto il distintivo di volpini? Può darsi. Quest’uomo, cacciatore intrepido e fortunatissimo di camosci, passò la sua gioventù a scalare picchi e ghiacciai sia inseguendo la preda, sia per vaghezza di conoscere le rupi del suo paese. Per quanto non ne abbia l’apparenza, è infaticabile nella marcia. Il pericolo non Io spaventa, e più volte ebbe la temerità di farsi calare con funi al nido dell’aquila per rapirne gli aquilotti. Le balze più scoscese sono il suo elemento. La sua parola è sempre incoraggiante, ed è tutt’altro che indifferente al successo di una intrapresa alpinistica. Dotato di memoria eccellente, è una guida sicura ed impareggiabile. Fu di grande servigio nei lavori del catasto, conoscendo a menadito tutte le accidentalità del suo distretto. Prudente nel suo ardire, l’alpinista può fidarsi a lui, che non avrà a temere di trovarsi per colpa sua in posizioni troppo arrischiate. Ha tutti i requisiti per essere una delle migliori guide; ma pur troppo ha un difetto, è troppo amante del vino e dei liquori. Ci tengo a dirlo, quantunque io desideri fare ogni vantaggio possibile a sì preziosa guida; la verità anzitutto. Però questo difetto presenta solo un serio inconveniente quando sì è al basso nelle valli in vicinanza di qualche osteria; durante le escursioni sa moderarsi, quando trattasi di qualche cosa di certo rilievo; e devo dire, ad onor del vero, che questa sua tendenza non portò mai il minimo ritardo nelle escursioni nelle quali mi fu e guida e compagno socievole. […]”.
Alle 9.30 del 23 giugno Baretti e Vulpot toccano la vetta della Punta Lunella:
“[…] L’uomo di pietra è coperto di neve, ed a mala pena troviamo da sederci per dire due paroline alle nostre provvigioni. Tira un vento indiavolato, e la nebbia sbattuta in varii sensi compie attorno a noi una ronda scapigliata. A tratti il velo si squarcia, e le montagne ad ovest si parano allo sguardo. Lo spettacolo è veramente grandioso. Ricerco quell’acuminata vetta che per noi torinesi fa capolino al disopra della porzione settentrionale della cresta del Civrari, quella battezzata dal Gastaldi Punta del Collarin d’Arnas (la Punta d’Arnas, NdR). La trovo e la studio; domando informazioni al Volpot; decido di farne il più presto possibile l’ascensione coll’amico Barale, col quale già da lungo tempo si teneva parola al riguardo. Decisione inutile; il Barale credette bene fare da solo quella prima ascensione poco meno di un mese dopo. Più lungi a nord-ovest, un bastione nero, formidabile, trapezoidale emerge dalle altre vette, è la Bessanese, od Uia di Bessans, in fondo a Val d’Ala sul piano della Mussa; io la contemplo, l’ammiro, mi seduce e con un lungo sospiro di rammarico la addito al compagno ed esclamo:
– Com’è bella!
– Sicuro, che è bella, esso risponde.
– Peccato! e giù un altro sospirone.
– Peccato? e perchè? domanda il Volpot.
– Perchè è inaccessibile, tale la dicono tutti.
– Tutti lo dicono, meno io, ribatte la guida.
Di scatto mi rivolgo al Volpot e gli domando:
– Voi la credete accessibile?
– Sì, mi risponde franco e sicuro.
Il cuore mi balza dalla gioia, ma stento a prestar fede alle sue parole.
– Dunque mi condurreste là, dove nessuno, altro che il famoso direttore del Catasto, il Tonini, tentò finora l’ascensione? E se il Tonini, conosciuto pel suo impareggiabile valore alpinistico non riuscì, come riusciremo noi?
– Riusciremo, mi risponde l’altro freddo e tranquillo.
– Ma voi ci foste lassù?
– Non lassù proprio, ma quasi.
– Va bene, conchiudo io dopo alcuni istanti di raccoglimento, va bene, vi andremo; è cosa decisa. […]“.
Professore di geologia che ricoprì ruoli importanti nel Club alpino italiano, Baretti ha legato il suo nome a importanti studi, lasciando un segno profondissimo nella storia alpinistica. Sospinto da un straordinario desiderio di esplorazione e da una eccezionale passione scientifica, esplorò gran parte delle Alpi Cozie, Graie e Pennine, facendovi anche diverse prime ascensioni. Nel 1893 pubblicò l’opera sua fondamentale, che quasi compendia il lavoro geologico di tutta la vita, la Geologia della provincia di Torino (che all’epoca comprendeva anche la Valle d’Aosta).
Il 13 luglio 1873 Baretti si reca ad Usseglio dalla Val di Susa, passando dal Colle della Portia. Il giorno successivo insieme a Vulpot risalgono il vallone di Arnas e si portano fino al Lago della Rossa, dove pernotteranno in una balma (il rifugio Gastaldi sorgerà solo nel 1880). Alle 3 del mattino, dopo una notte tempestosa con temperature sottozero, si mettono in marcia sfidando il vento impetuoso, ma presto incontrano neve durissima che non riescono ad intaccare e sono così costretti a rinunciare di raggiungere la vetta della Bessanese. Baretti non si scoraggia e medita di ritentare presto il secondo attacco.
“[…] La fama d’inaccessibilità, la stupenda vista che fa la Bessanese vista da Balme mi erano di fortissimo sprone a fare ogni sforzo per riuscire nella scalata. […] Il 24 luglio, accomodate le faccende riguardo ai corsi ed agli esami, presi nuovamente il volo per Usseglio, sempre scavalcando il contrafforte a nord di Val di Susa. Questa volta però sceglieva il Colle del Colombardo, e per cresta raggiungeva il Colle della Portìa donde scendeva ad Usseglio.
Il mattino del 25 partivamo io, il Volpot ed un alpigiano di Arnas, detto per soprannome Pertus, per il Colle d’Arnas. Appena in istrada ci accorgiamo d’aver dimenticato le coperte; il tempo però si presentava così bene che giudicammo inutile ritornare indietro per fornircene. […]”.
La comitiva rifà la via del primo tentativo trovandovi condizioni migliori per la progressione. Raggiungono il Lago della Rossa e lo trovano completamente gelato.
“[…] La posizione è stupenda, e credo poche possano rivaleggiare con essa. Figuriamoci un gran Iago oblungo di forse un chilometro e più nel suo diametro maggiore occupante per intiero una conca limitata da sponde di roccie ognintorno. […] Ai miei colleghi alpinisti, a chiunque sia vago di ammirare una bellissima tra le scene alpine, consiglio una gita al lago della Roussa; non è difficile la strada né troppo faticosa; il compenso poi è grandissimo. Da Torino in tre giorni si può fare comodamente l’escursione. […]”.
I tre attaccano il Colle d’Arnas progredendo su un pendio nevoso ma poi devono deviare verso destra, su roccia, per evitare la bastionata ghiacciata del ghiacciaio d’Arnas, che quasi sembra rovesciarsi sul loro lato. Scendono sul versante savoiardo per poi innalzarsi verso nord-ovest in ricerca di un sito ottimale per l’accampamento. Lo trovano tra il ghiacciaio d’Arnas e quello della Pareis.
“[…] Le difficoltà della montagna si mostravano molte e gravi, ed anche più per la fama d’inaccessibilità di cui godeva quella montagna. Nel caso mio c’era qualcosa di più: altri più arditi di me l’avevano tentata, non l’avevano scalata; il segnale trigonometrico pei lavori catastali non aveva potuto essere costrutto sulla cima ma solo ad una quarantina di metri più in basso. Al disopra del segnale stava, a detta di tutti, l’impossibile. Ora è facile figurarsi quanto io desiderassi una giornata favorevole. […]”.
Seguendo Vulpot lungo pendii di neve e ghiaccio, via via più ripidi, la comitiva si indirizza verso l’angolo formato dalla cresta detta Roccie della Pareis con una costiera acutissima ed addentellata di roccie a picco che dalla base della Bessanese scende in Averolle. Raggiungono un canale roccioso grazie al quale toccano la cresta della Pareis da dove lo sguardo sprofonda 700 metri più in basso, verso il Crot del Ciaussinè, ove nel 1880 sorgerà la prima costruzione del rifugio Gastaldi.
“[…] Volpot mi segna a dito la via da percorrersi attraversando la faccia sud-ovest della Bessanese; io non sono per nulla persuaso della possibilità, e mi pare che l’impresa si presenti irta di gravi pericoli. […]
Ora viene il bello dell’ascensione. Cominciamo dal percorrere la cresta per arrivare alla base della Bessanese distante forse un 500 metri. Percorrere la cresta! è presto detto, ma non così presto eseguito. Ci aggrappiamo ai numerosi denti di essa ed avanziamo lentamente ora su un fianco, ora sull’altro. […]
[…] Lo spigolo costituente lo spartiacque e che sale alla vetta della Bessanese dal punto ove dessa s’individualizza, emerge dal clinale, e merita di essere descritto onde dare una pallida idea del suo modo di presentarsi. Esso sale con ripidissimo pendìo, ed impraticabile fino ad una specie d’incisione ad una trentina di metri e più dal sommo vertice; colà forma uno stretto ripiano su cui cade a piombo la rupe formante la vetta. Su questo ripiano è costrutto il segnale trigonometrico (il segnale Tonini, n.d.r.); e tanto esso, quanto il taglio a picco che sovrasta, sono perfettamente visibili da Balme e sull’unito disegno che devo ancora alla squisita cortesia del nostro Bossoli. […]”.
Esaminando le facce che formano lo spigolo costituente lo spartiacque, decidono di percorrere la sud-ovest e in meno tempo di quanto pensa il Baretti, la comitiva raggiunge il ripiano ove si trova il segnale, toccato da Antonio Tonini il 31 agosto del 1857. Da qui Baretti nota che il versante italiano e quello savoiardo appaiono maestosi e vertiginosi. Scemato l’entusiasmo per aver raggiunto il segnale Tonini, si accorge, guardando in alto, che rimaneva da superare l’ostacolo ritenuto impossibile da vincere e rappresentato da uno spigolo, orizzontale sul segnale, che di colpo si innalza sulla vetta.
E’ necessario aggirarlo passando da una delle facce della Bessanese e raggiungere così l’ultima cresta, a nord e poco distante dal punto più elevato. Quella verso Balme è un muro più che verticale e così scelgono il versante ovest. Dopo non poche tribolazioni, causate soprattutto dalla roccia marcia, e superato un canale liscio di pochi metri, spingendo in alto il Pertus per… le parti nobili che presentano un’ampia superficie, toccano la cresta sui cui si trova la vetta.
“[…] Ancora pochi metri di lieve pendìo e poi l’estrema cresta; tremo dall’emozione, il sangue mi bolle, i polmoni si dilatano quasi a far scoppiare la cavità toracica, non attendo più i compagni, mi slancio di corsa, arrivo all’ultimo ciglione, ed un urlo indescrivibile mi erompe dal petto, è l’urlo del selvaggio sul caduto nemico, è l’urlo del soldato quando supera la breccia, quando pianta il vessillo sul conteso spaldo; questo urrà non è calcolato, non è premeditato, non si può rattenere, una forza irresistibile obbliga a gettarlo fuori con tutta la potenza dei polmoni; in questo grido tutte le speranze, tutti gli sconforti dell’alpinista, tutte le gioie dell’amor proprio soddisfatto; è l’urrà della vittoria! […]”.
“[…] Cessata alquanto la febbre che mi animava, mi rivolgo in cerca dei compagni; essi mi raggiungono. Non siamo ancora sull’estrema vetta; un tragitto di 50 metri sulla cresta tutta infranta, sconquassata, larga al più un metro, ci conduce al punto più elevato su cui appena un uomo può stare in piedi. Il punto più elevato, per quanto noi sembri dal basso, è quello estremo a sud, sovraincombente con un taglio a picco al segnale trigonometrico (il segnale Tonini, n.d.r.). Si costruisce una piccola piramide coi pochi materiali che abbiamo a nostra disposizione e si pianta in essa la bandiera tricolore, quella che per tanto tempo sventolò gloriosa sulla mia tenda durante gli studi sul gruppo del Gran Paradiso. Miglior luogo per il suo abbandono e ritiro dalle lotte alpine non si poteva scegliere. Una piccola bottiglia raccoglie il verbale dell’ascensione, firmato dai tre ascensori, e si annida tra i massi della piccola piramide. […]”.
“[…] La salita dal luogo del pernottare si fece in 3 ore e mezzo, giacché alle 8 antimeridiane eravamo al vertice essendo partiti alle 4 1/2.
L’impressione che mi rimase dell’ascensione fu di non poter credere come uomini famosi nei fasti alpinistici avessero tentato e non scalato la Bessanese; le difficoltà furono al disotto di ciò che mi era figurato; forse la prevenzione influì molto in ciò. […]”.
Rientrato a Balme, dopo aver preso un temporale al Colle d’Arnas, Baretti incontra Antonio Castagneri, la famosa guida delle Valli di Lanzo che già aveva ingaggiato nel 1872, per le incursioni nel Delfinato. Tòni dìi Toùni (questo il suo soprannome), di origine balmese, si trova così costretto ad accettare che la montagna che vede da casa sua venga conquistata dal Prof. Baretti, grazie ad una guida ussegliese, quel Vulpot che sulla Lunella vide una Bessanese non impossibile. Le loro firme rimarranno per l’eternità sulla sommità del Cervino della Val d’Ala, mentre Castagneri si prese poi la rivincita compiendo altre prime ascensioni sulla Bessanese.
Nato a Torino il 25 novembre del 1841, Baretti doveva diventare un avvocato, come da aspirazioni del padre, ma scelse gli studi scientifici e si laureò giovanissimo in Scienze naturali all’Università di Bologna con il massimo dei voti. A soli 26 anni si trasferì a Bari come docente di storia naturale all’Università. Tornato a Torino, continuò ad insegnare nelle scuole tecniche e nel 1871 Bartolomeo Gastaldi, geologo e tra i padri del Club alpino italiano, fondato nel 1863, gli affidò la segreteria generale del Sodalizo.
Martino Baretti fu attivissimo sia come docente che come alpinista. Viveva con lo stipendio di professore universitario ma i continui spostamenti nelle vallate alpine, e anche Oltralpe, con i vari soggiorni negli alberghi, furono così onerosi da intaccare pesantemente le sue finanze. Gli ultimi anni della sua vita li trascorse a Forno Canavese: camminava molto e il suo stile era sempre quello di un signore inglese che amava vestire elegante e raffinato. Morì all’improvviso l’8 settembre 1905, all’età di 63 anni e fu sepolto nel cimitero di Forno.
Giuseppe Cibrario Vulpot, che nel 1860 estrasse il corpo dell’Ing. Tonini caduto in un crepaccio nel ghiacciaio dell’Agnello, scomparirà il 27 giugno 1890 a seguito delle complicanze sorte dopo essere stato travolto da una valanga, nei pressi dalla sua casa a Villaretto di Usseglio.
Il 1890 fu un anno orribile per l’alpinismo europeo: oltre a Vulpot, nell’agosto del 1890 perirono anche le grandi guide Castagneri, Maquignaz e Carrel, quasi come un segno terribile del destino nel favorire la nascita del alpinismo senza guide, che si concretizzerà con la fondazione del Club Alpino Accademico Italiano, avvenuta a Torino nel 1904 e che ebbe come principali precursori Cesare Fiorio e Carlo Ratti.
“Bisogna riportarsi a quei tempi per poter giudicare di quanto fossero maggiori del presente le difficoltà delle ascensioni e quanto maggiore merito se ne debba attribuire ai primi salitori (Luigi Vaccarone)”.
La via seguita da Baretti per la vetta della Bessanese è la via normale di oggi: si tratta di un’ascensione che, sebbene non presenti particolari difficoltà alpinistiche (II grado sulla “paretina” adducente il segnale Tonini), è molto lunga e complessa e richiede allenamento e resistenza alla fatica, oltre ad una totale dimestichezza con gli ambienti aerei ed esposti. Ai nostri tempi l’ascensione è agevolata grazie al rifugio Gastaldi 2659 m (2 ore su sentiero dal Pian della Mussa), in alta Val d’Ala.
L’alpinismo di Baretti per noi non è più concepibile, vivendo un’epoca dove l’esperienza del tempo e dello spazio è stata compressa da infrastrutture, mezzi di trasporto e tecnologie. Ma abbiamo guadagnato o abbiamo perso, quando dalla pianura in un paio d’ore di auto siamo sui sentieri? Quando in una manciata d’ore, tramite autostrade, seggiovie e funivie, riusciamo a salire su di un 4000, consumandolo per poi pavoneggiarsene con un selfie?
Di sicuro il Lago della Rossa 2700 m c. non lo vedremo più ghiacciato al 25 di luglio perché dal 1873 non solo è cambiato tutto nella nostra quotidianità artificiale ma anche negli ambienti naturali delle Alpi (rispetto al 1873, emettiamo CO2 150 volte di più), e di conseguenza anche l’alpinismo e mutato enormemente, avendo non poche difficoltà a definirlo.
Chissà se Baretti ancora oggi riuscirebbe a riconoscere la sua via per la Bessanese, partendo dalla Val di Susa?
Per approfondire
Ricordi alpini – La Bessanese (di Martino Baretti) in Bollettino del Club Alpino Italiano, Vol. VIII, n. 22, anno 1874 (rintracciabile con la teca digitale del Cai: https://tecadigitale.cai.it/periodici/index.php); tutte le citazioni in questo post sono tratte da questo Bollettino;
Martino Baretti, appunti su di un pioniere dell’alpinismo canavesano (Associazione amici del Gran Paradiso);
Le guide in Le Valli di Lanzo (Alpi Graie), edizione fatta per cura del Club Alpino Italiano. Sezione di Torino, 1904.
Ringrazio sentitamente la Biblioteca Nazionale del Club Alpino Italiano per la sempre cortese disponibilità e gentilezza. Potete rivolgervi ad essa per gli approfondimenti di cui sopra (e magari altri), anche contattandola via mail: biblioteca@cai.it
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Atmosfere d’antan che la montagna piemontese può ancora offrire. Complimenti!
In effetti così la montagna ha un altro sapore, altro che selfie buoni solo per ‘pavoneggiarsi’
Complimenti x la interessante descrizione.
Il Baretti è sepolto quindi a Forno Alpi Graie?
Eh, sapevo che il nostro Carlone non avrebbe resistito! Forse si è perfino un po’ commosso, vero? 😉😉😉
Atmosfere molto sabaude. Bella lettura. Gtazie