Cosa sono i Pfas e come il Po è diventato il fiume più contaminato d’Europa. I rischi per l’ambiente e la salute, e le possibili soluzioni.
Come i Pfas hanno contaminato l’Italia – 2
di Laura Fazzini
(pubblicato su lifegate.it il 2 maggio 2023)
I processi per inquinamento ambientale
Piemonte: il primo processo Solvay
A seguito dell’acquisizione di Ausimont nel 2002, nel 2009 Solvay è chiamata dalla procura di Alessandria a rispondere di disastro ambientale per sostanze storiche inquinanti come cromo esavalente, ddt e arsenico. Il processo comincia nel 2011. Fra le contaminazioni attive c’è anche il Pfoa, con 28.000 nanogrammi per litro nella falda, come testimonia a fine aprile 2013 Alberto Maffiotti, dirigente di Arpa Alessandria.
Al processo Arpa Piemonte presenta uno studio sulla tossicità del Pfoa, firmato dall’epidemiologo Ennio Cadum: “Ho raccolto i dati degli operai, li ho uniti alla letteratura scientifica e ho concluso di monitorare tutta la popolazione residente vicino allo stabilimento. Perché nel 2009 si conoscevano i danni del Pfoa”, spiega per telefono dal suo nuovo posto di lavoro, lontano dal Piemonte. La segnalazione del dottor Cadum rimane inascoltata, il Procuratore Riccardo Ghio decide di non insistere sulla produzione di Pfas, perché non sono ancora normati a livello nazionale.
La condanna in primo grado arriva nel 2015 per i dirigenti Giorgio Canti, Giorgio Carimati e Luigi Guarracino e con la richiesta di bonifica, condanna confermata a dicembre 2019 in appello. Vittorio Spallasso è l’avvocato che per il Wwf ha depositato gli esposti nel 2009: “Dopo la prima condanna del 2015 il reato era passato da doloso a colposo, cioè senza dolo accertato. La sentenza confermata poi in Corte di Cassazione è un importante punto fermo per la tutela dell’ambiente nella zona del polo chimico”.
La collega Laura Pianezza sottolinea un punto del processo: “Peccato che l’avvocato del ministero dell’Ambiente abbia chiesto un risarcimento economico e non la bonifica, andando contro l’attuale legge ambientale”. Per un errore del Ministero, che non ha ancora modificato la richiesta come richiesto dal giudice, le sostanze sono ancora lì. Tanto che l’11 febbraio 2021 il Nucleo operativo ecologico (Noe) dei Carabinieri di Alessandria torna dentro lo stabilimento, ottemperando al mandato del procuratore Cieri. Perché gli avvocati del Wwf Spallasso e Pianezza non hanno aspettato, bensì nel giugno 2020 hanno depositato un esposto chiedendo alla Magistratura di accertare se la presenza di cC6O4 in falda sia il tracciante di una contaminazione che continua.
Veneto: il processo Miteni
Dopo una prima archiviazione nel 2013, la procura di Vicenza affida nel 2016 al Noe di Treviso le indagini per disastro ambientale e avvelenamento delle acque nei confronti di Miteni. Nel 2018 si aggiunge un secondo filone di indagini su cC6O4 e GenX, Pfas ritrovati dopo autodenuncia della ditta. Nell’ottobre 2019 inizia il processo, sono chiamate Mitsubishi, ICIG3 e Miteni Spa. Per la prima volta come parti civili si costituiscono insieme due ministeri, Salute e Ambiente. Parte civile anche Regione Veneto, assistita dal 2017 al 2019 dall’avvocato Dario Bolognesi, già avvocato di Solvay per tutti i gradi del processo ad Alessandria. Alla prima udienza del 2019 viene sostituito da Fabio Pinelli, ora da Paolo Tabasso.
26 aprile 2021, dall’aula più grande del tribunale di Vicenza esce in lacrime Piergiorgio Boscagin, presidente della sede di Cologna Veneta di Legambiente: “Non ci credo, è fatta!”. Piange per la fatica, l’impegno e la rabbia di sette anni vissuti a lottare contro le aziende ora ritenute responsabili civili di avvelenamento delle acque e disastro ambientale colposo.
Tre aziende contro oltre 300 parti civili, tra cui due ministeri, Regione Veneto, le Ulss (Unità locali socio sanitarie) e l’enorme rete di attivisti che dal 2013 ha difeso il diritto di sapere la verità. Boscagin tra i primi aveva avvertito la popolazione con volantini, ricevendo anche una diffida da Coldiretti per allarmismo sulla possibile trasmissione dei Pfas attraverso gli alimenti. Festeggia anche Alberto Peruffo, attivista di Pfas.land e organizzatore di manifestazioni che dal 2017 coinvolgono centinaia di persone: “La nostra terra inquinata si merita di sapere chi la sta distruggendo”.
Tra i presunti responsabili c’è Luigi Guarracino, ex dirigente Solvay già condannato per disastro ambientale nel processo di Alessandria. E condannato anche nel 2014, reato poi prescritto, come amministratore della ex Montedison, per avvelenamento delle acque nel polo chimico di Bussi sul Tirino (Pescara). Guarracino, dopo essersi dimesso da Solvay, era arrivato nel 2009 a Trissino in Miteni per la sua competenza sui perfluorurati e nel settembre 2013 spiegava al consiglio comunale: “So delle difficoltà economiche di Miteni, ma ho una lunga esperienza e ora abbiamo grosse società che investono su di noi, anche dall’estero”. Guarracino si riferiva all’olandese Chemours e a Solvay, invitata più volte nel 2011 a Trissino per capire come lavorare il cC6O4. Dal 2013 la Chemours, controllata dalla Dupont (che dal 2001 è condannata negli Stati Uniti per milioni di dollari per avvelenamento delle acque da Pfas), spedisce a Trissino il rifiuto del GenX, Pfas “cugino” del cC6O4, perché sia rigenerato e rispedito pulito in Olanda. Questi due Pfas ricevono l’autorizzazione integrata ambientale da Regione Veneto nel 2014: siamo in piena emergenza Pfas, ma nessun tecnico di Arpa viene mandato a cercarne tracce negli scarichi.
Al processo Miteni il primo testimone della Procura è ascoltato il 25 novembre 2021, è Stefano Polesello: “Negli scarichi Miteni del 2011 il cC6O4 c’è già”.
Altra lunga testimonianza è del maresciallo Manuel Tagliaferri, a capo della squadra che per cinque anni ha indagato sui Pfas. Le indagini dimostrano che le tre aziende (Mitsubishi, ICIG3, Miteni) erano consapevoli della contaminazione in atto, perché pagano analisi ambientali fin dal 1990, che annualmente evidenziano la presenza di Pfas nella falda o nel torrente Poscola. Nel 2005 Mitsubishi richiede al Genio Civile (organo pubblico) una barriera di contenimento per sostanze inquinanti, senza però fare segnalazioni alle istituzioni territoriali.
Il processo sta ora proseguendo con i consulenti ambientali di Miteni, i medici della Regione e alcuni dirigenti dell’Iss. Un ulteriore processo è in fase preliminare contro il medico interno Miteni per tre operai morti di tumore. Molti operai sono parte civile al processo, dopo aver perso il lavoro a causa del fallimento dell’azienda a fine 2018.
Ad oggi Miteni non è ancora stata messa in sicurezza per impedire la contaminazione della falda.
I Pfas nel cibo
L’azienda di Daiana Fongaro alleva da decenni suini, vacche e galline: “Quando nel 2013 ho letto i primi articoli sulla contaminazione mi sono allarmata, abbeveriamo gli animali con acqua di pozzo, se loro sono contaminati noi cosa facciamo?”. Scoperto che il pozzo è contaminato, si allaccia all’acquedotto, tutto di propria iniziativa. “La Ulss ha raccolto uova e carni, ci sembrava giusto farlo per noi e i nostri clienti”. Le analisi nel 2014 (primo campionamento della Regione Veneto, cestinato perché reputato non corretto) dimostrano la contaminazione. “Abbiamo cambiato mangimi perdendo le nostre colture, abbiamo utilizzato l’acquedotto spendendo soldi e ora siamo puliti. Ma abbiamo perso clienti e nessuno ci ha mai aiutati”.
Malgrado studi europei dimostrino la trasmissione dei Pfas all’essere umano attraverso gli alimenti, Regione Veneto esegue un solo campionamento ufficiale nel 2017, ottenendo diversi risultati di positività in vegetali e animali. La sola restrizione conseguente è relativa al pescato nei fiumi, rinnovata di anno in anno, rimane tutt’ora applicabile solo nella zona rossa.
Nel 2009 la Commissione europea finanzia uno studio sull’impatto di dodici Pfas negli alimenti che evidenzia pesci e uova come i più a rischio. La Regione Veneto conduce un primo campionamento nel 2014, che indica la presenza di Pfas anche nei vegetali, e un secondo campionamento nel 2017, su dodici Pfas, pubblicando però risultati relativi a solo due Pfas. La Regione Piemonte solo a febbraio 2022 incarica un primo monitoraggio su uova e latte, che indica la presenza di cC6O4 in alcune uova e un Pfas di vecchia produzione (miscela di composti chiamata ADV) nel latte vaccino. A inizio 2023 sempre l’Europa ha imposto agli Stati di denunciare eventuali Pfas presenti in alimenti presenti in commercio.
Antonio Masi, del dipartimento di Agronomia, animali, alimenti, risorse naturali e ambiente dell’Università di Padova, studia dal 2019 la risposta delle piante alla presenza dei Pfas e per LifeGate ha analizzato un broccolo fiolaro raccolto nella zona arancione. La pianta presenta Pfos nelle radici (0,60 nanogrammi per grammo) e Pfhxa nella foglia (1,30 nanogrammi per grammo), cioè la parte edibile di un prodotto locale etichettato Dop dalla Regione Veneto (Denominazione di origine protetta). Il laboratorio analizza i dodici Pfas campionati dalla Regione Veneto nel sangue e negli alimenti. Dentro una stanza sterile, Masi ha ricostruito un orto alimentato da acque contaminate: “Con la somministrazione di Pfas il mais ad esempio ha ridotto la crescita e alterato la morfologia delle radici e la fotosintesi”. Lo studio, pubblicato ad agosto 2022, ha portato l’équipe a cercare le reazioni nel territorio.
Elisabetta Donadello ospita la ricerca nella casa di famiglia immersa nei campi, con cui nutre le figlie e gli ospiti del suo agriturismo: “Il pozzo è risultato altamente contaminato e abbiamo avuto la ferale notizia che lo sono anche i nostri prodotti, per i quali usiamo solo l’acqua di acquedotto. Abbiamo scelto di trasferirci qui per vivere della natura, e ora?” Elisabetta vive a Creazzo (Vicenza), nella zona arancione esclusa dalle analisi del sangue e dal campionamento degli alimenti di Regione Veneto.
In Piemonte, a inizio 2022 la Regione ha cominciato un primo campionamento di uova e latte entro due chilometri dal polo chimico di Solvay. “Abbiamo cominciato da poche matrici per capire se c’era motivo di allarme, perché i Pfas sono molto complessi da ricercare”, spiega Bartolomeo Griglio, responsabile del Settore Prevenzione, Sanità pubblica veterinaria e sicurezza alimentare di Regione Piemonte. Gli esiti indicano la presenza di Pfas in uova di produzione domestica e nel latte industriale.
“Non abbiamo potuto cercare il cC6O4 perché Solvay non ci ha consegnato lo standard, ugualmente abbiamo avuto difficoltà nel ricercare l’Adv, una miscela prodotta già da Ausimont e mai denunciata da Solvay malgrado sia un perfluorurato. Adesso abbiamo ottenuto i finanziamenti, oltre 300mila euro e stiamo campionando con tutti gli standard dati direttamente da Solvay”, spiega Griglio. È previsto un biomonitoraggio della popolazione esposta, per circa 70mila euro, che però non ha ancora una data di partenza. “Il nostro interesse è tutelare le persone e siamo pronti a farci affiancare dall’Università di Torino per analizzare campioni di sangue”.
Le possibili soluzioni
Si può vivere senza Pfas?
Da giugno 2022 l’Agenzia per la protezione dell’ambiente statunitense, l’Epa, obbliga lo zero tecnico di Pfas nelle reti potabili, mentre l’Italia ha pronto il decreto sulla direttiva europea per le acque potabili che limita entro 500 nanogrammi per litro tutti i Pfas. Molte marche di vestiti e imballaggi etichettano i prodotti con “Pfas free”. H&M, Zara e Decathlon investono in materiale ecologico, McDonald’s e Burger King tolgono i Pfas dalle confezioni. In Italia Solvay, nel 2010, ottiene l’autorizzazione dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), per l’utilizzo di resine contenenti tracce di Adv negli imballaggi alimentari che potrebbe essere trasmesso ai cibi. Solvay non ha mai risposto alle richieste di LifeGate sull’attuale presenza di Adv negli imballaggi alimentari.
“Sono dispiaciuto per Veneto e Piemonte, ma una volta che i Pfas sono nell’ambiente non c’è modo di eliminarli. Per ripulire le acque i costi sono altissimi e quei territori italiani sono troppo grandi per pensare di bonificare i campi agricoli”. A parlare è il professore Zhanyun Wang del dipartimento di Ingegneria ambientale del Politecnico di Zurigo, uno dei massimi esperti mondiali di sostanza perfluoroalchiliche. Wang e l’équipe di Perforce insistono da anni sul termine “essenziale” per dimostrare quanto i Pfas, ritenuti dalle industrie chimiche insostituibili per alcuni prodotti, possano essere ridotti sia nella produzione e che nella dispersione nell’ambiente. “Molti usi possono essere sostituiti, come negli abiti, cosmetici e imballaggi. Le nuove tecnologie possono creare altri materiali, che possono degradare nell’ambiente e senza impatti sanitari. I Pfas sono interferenti endocrini, molti sono considerati cancerogeni, bisogna vietarli e salvare chi è esposto”.
A quasi mille chilometri di distanza è dello stesso parere Pietro Paris, ingegnere ora in pensione che ha lavorato nel Comitato per la valutazione del rischio delle sostanze chimiche in Europa (Rac) per l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra): “Il problema è che questi composti sono ritenuti ‘senza soglia’, cioè talmente pericolosi che nell’ambiente non dovrebbero esserci proprio. La coppia fluoro-carbonio è sempre dannosa”. Paris sui Pfas ha diretto il tavolo di lavoro europeo che ha vietato i più pericolosi, come il Pfoa: “Serve una legge nazionale che limiti la loro dispersione negli scarichi, l’Europa indica la strada e l’Italia deve seguirla: da gennaio 2023 è iniziata la discussione per vietarli tutti, cinquemila Pfas. Senza chimica non si vive, ma di chimica non si deve morire. E l’Europa lo sa”, insiste mentre lavora all’ultimo dossier europeo sui Pfas utilizzati nelle schiume antincendio.
A rafforzare il richiamo europeo di Paris è una nuova mappa europea presentata dal progetto Forever Pollution Project, che denuncia oltre 17mila siti contaminati da Pfas in Europa.
Cosa è stato raggiunto, tra divieti e progetti europei
“Qualcosa è cambiato, si trovano molte meno emissioni di Pfas. Alla fine, ce l’hanno fatta a scaricare meno nel Bormida”, dice Sara Valsecchi dopo aver prelevato l’ultima bottiglia di acqua dal fiume. Dopo otto ore fra strade sterrate e fiumi, la Kangoo riparte piena di acqua, grano e terra, “Meglio prendere sempre tutto, metti che tra dieci anni dobbiamo cercare altri composti che oggi non conosciamo…”, commenta Stefano Polesello rimettendosi alla guida.
Il 20 giugno 2022 Solvay annuncia la cessazione della produzione di perfluorurati entro l’anno seguente in America e di aver chiuso il circuito che rilascia nel Bormida le tonnellate di sostanze che dal 2002 inquinano il Po. La decisione è dovuta alla condanna del 2019, ai limiti imposti per i Pfas dalla Regione Piemonte a fine 2021 e alle linee guida europee che vieteranno la produzione di Pfas. Nel comunicato l’azienda però non spiega come smaltirà gli scarti del circuito chiuso, visto che in parte saranno trattenuti dai carboni attivi già utilizzati in Veneto e rigenerati dalla azienda Chemviron, attualmente posta sotto indagine dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Treviso per aver disperso nell’ambiente Pfas dai camini della fabbrica. Chemviron non ha mai indicato il procedimento per smaltire Pfas e, nel terreno circostante lo stabilimento, il cC6O4 è stato trovato in concentrazioni di 200 nanogrammi per chilo.
I Pfas si possono sconfiggere
Ma ora che la siccità in Veneto sta mettendo in ginocchio centinaia di agricoltori, chi sta guarendo le acque contaminate? “Una bacchetta di titanio elettrificata scompone la coppia perfetta fluoro carbonio rendendola innocua. I Pfas si possono sconfiggere, con l’elettrochimica”, commenta Silvia Franz dal suo laboratorio del dipartimento di Chimica al Politecnico di Milano. Con un progetto europeo di 4 milioni il polo universitario, insieme alla società idrica Acque Veronesi, svilupperà una nuova tecnologia per far fronte alla più grande contaminazione da Pfas della storia: “Abbiamo due anni di tempo per provarla e poi andare sui territori colpiti. Dobbiamo riuscire a ripulire l’acqua, per restituire alla popolazione un bene primario”. A distanza di dieci anni dal grido di allarme del Cnr ci si affida ancora a progetti europei per porre fine a una contaminazione entrata nelle case, nei corpi e nel futuro dell’Italia.
Chissà, magari un giorno riusciremo a vedere che non basta acquistare prodotti falsamente bio che vengono dall’altra parte del mondo. Magari troveremo il tempo per andare a scoprire da dove viene l’acqua in bottiglia – che sosta per ore e ore sotto il sole prima d’arrivage a destino – che compriamo pensando sia migliore di quella del rubinetto.