Come il meteo si è mangiato internet

Le previsioni del tempo sono dappertutto, anche se pochi ci fanno caso. E su internet sono diventate non solo un contenuto diffusissimo, ma la base di un’industria ricca e fiorente. Aspettando il ciclone.

Come il meteo si è mangiato internet
(e non solo)
di Gianluca Diegoli
(pubblicato su linkideeperlatv.it l’11 settembre 2023)

Il tempo è l’oggetto sociale principe dei convenevoli più banali, delle chiacchiere poco impegnative di ogni luogo frequentato da esseri umani: ed è facile considerare marginale allora anche il ruolo delle previsioni meteorologiche (per tutti, “il meteo”) nel panorama economico, mediale e finanziario di questi ruggenti vent’anni di digitalizzazione radicale. Di relegarlo nello spazio à la “costume e società” del terzo millennio. Niente di più sbagliato: quella del meteo è un’industria digitale fiorente, che ha sfruttato a pieno l’alta marea della trasformazione digitale e non pare intenzionata a fermarsi. Una volta rubrica innocua sulla carta dei giornali, poi slot fisso a fine tg sulle reti nazionali, quelle previsioni di massa sono diventate digitali traslocando in portali online, widget sugli smartphone e finendo per disporre di popolarissime app dedicate e diventando – non un dettaglio, vedremo – ipergeolocalizzate.

Illustrazione di Davide Spelta

A ciclo continuo
Ricordate i barometri analogici dei vostri nonni? O le statuette dal colore cangiante a seconda delle condizioni meteo, dalla dubbia precisione ma ciononostante un popolarissimo gadget per turisti della riviera romagnola? Ebbene, questi manufatti sono stati gli antesignani del meteo-as-a-business a loro insaputa (e senza ottenere alcun riconoscimento). Ma vendere statuine e barometri, direbbero in Silicon Valley, non è scalabile, e non produce dati (ci arriviamo). Anche le trascurate e trascurabili rubriche nella pagina “tv, cinema, meteo e radio” dei quotidiani e gli sparuti intermezzi televisivi (rigorosamente istituzionalizzati da azzimati colonnelli dell’Aeronautica) peccavano in raccolta dati, scalabilità, distribuzione capillare. È stato l’ultimo periodo della storia in cui le nuvole, il vento, il sole non abbiano prodotto un contenuto potenzialmente monetizzabile. Oggi, al contrario, il meteo è la vera energia rinnovabile del content business. Cicloni e anticicloni battezzati con nomi da b-movie storico italiano anni Sessanta (Ercole contro Caronte…), quattro stagioni per speculare sulle loro volubili intersezioni, temporali (“bombe d’acqua”, ci arriviamo), siccità, allagamenti si alternano on stage senza chiedere compensi e royalty, senza nemmeno scioperare come a Los Angeles, che qui non ci sono rischi di essere sostituiti dall’intelligenza artificiale. 

Statista stima che le app del meteo siano usate regolarmente dal 50% degli utenti americani e che queste app producano ricavi per circa un miliardo e mezzo di dollari nel 2023, dai 530 milioni del 2017. Del resto Ibm aveva acquistato la più nota azienda del settore, Weather Channel, per circa due miliardi di dollari, per poi venderla nel 2023 a una cifra non comunicata. In Italia i visitatori di siti e app dedicate solo ai meteo (escludendo quindi i siti di news che forniscono anche il meteo), secondo Audiweb, a giugno 2023 sono stati oltre 34 milioni, circa il 59% degli utenti totali di internet. Aggiungiamo pure che buona parte delle persone cerca direttamente il meteo sui motori di ricerca, come testimoniato dai consuntivi annuali di Google (e magari ora lo cercherà anche su ChatGpt) e la rappresentazione è completa. Il meteo è il content di successo, sia per la sua diffusione capillare, anzi, nativamente “liquida” (è un tipo di contenuto trasversale a età, lingua, religione, cultura) ma anche e soprattutto per i margini di guadagno che consente. Ilmeteo Srl, la società dietro ilmeteo.it ha fatturato circa dodici milioni di euro con utili per sei milioni. Il tutto con soli tredici dipendenti. Anche nei mercati meno sviluppati come l’Italia, il meteo è la gallina digitale dalle uova d’oro. 

Questioni di dati
Ma la materia prima, i dati, da dove arrivano? Sul sito de ilmeteo.it si legge che l’azienda “utilizza un proprio modello fisico matematico derivato dal ‘Modello Eta’ che, sfruttando le condizioni iniziali e di contorno dei dati provenienti da Ecmwf, calcola più volte al giorno tutti i parametri necessari per elaborare le previsioni del tempo. La risoluzione spaziale e temporale permette di avere previsioni con risoluzione di 1.5, 5, 9 km e per fasce orarie nei primi 7 giorni. Per le previsioni a breve e medio termine l’azienda utilizza Zeus 2016 Hd, mentre per quelle a lungo termine si avvale di Ensemble 1”. Ma che è questo Ecmwf? Wikipedia spiega che “è l’acronimo di European Centre for Medium-Range Weather Forecasts (centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine). Si tratta di un’organizzazione intergovernativa sostenuta da 20 stati membri europei e 14 stati cooperativi. Il centro si occupa di fornire accurate previsioni meteorologiche globali a medio termine (fino a 15 giorni) e previsioni stagionali fino a 12 mesi”. Insomma, i dati di base sono fondamentalmente pubblici e disponibili, e ilmeteo.it (e gli altri, compresa la nostra Aeronautica Militare) li rielaborano.Sappiamo che fino a 72 ore le previsioni sono tendenzialmente (ma decrescentemente) affidabili. Oltre le 72 ore le previsioni “sono come l’oroscopo”, mi dice un esperto di cui non posso fare il nome, peraltro citando un altro caso di contenuto a basso costo che sta colonizzando la cultura (e il business) digitale. In ogni caso per sicurezza ho controllato sul sito dell’Aeronautica Militare, e dopo le 72 ore i modelli non sono nemmeno statisticamente monitorati a posteriori per verificarne il successo (che per la domanda classica “Pioverà?” è sotto il 50% anche entro le dodici ore, comunque). I modelli evolvono e migliorano, ma sono sempre lì a tentare di spingere più lontano il caos. “You’re pushing against chaos”, dice Paul Davies del Met Office nazionale britannico. L’ente governativo inglese sostiene che oggi la previsione a quattro giorni è precisa come quella a un giorno di venti anni fa, ma il caos è caos, e anche per il meteo vale la teoria del battito di ali della farfalla.

Questioni di linguaggio
Questa incertezza sull’affidabilità a lungo termine si scontra con la diffusa impressione che invece siano proprio le previsioni a lungo termine quelle più utilizzate per la strategia di marketing e mediale. Mentre scrivo è mercoledì e ilmeteo.it già riporta questo titolo (i maiuscoli sono originali): “CICLONE POPPEA, sarà memorabile per la GRANDINE GROSSA e il FREDDO con le TEMPERATURE in picchiata”. Il ciclone memorabile dovrebbe arrivare domenica sera, più probabilmente lunedì. Ben al di là delle 72 ore. Lo stesso articolo, in una versione un po’ più cauta ma neppure troppo, è su Repubblica. E deve essere arrivato anche nel paesino dei miei, da cui ho ricevuto la loro telefonata per consigliarmi di acquistare un telo antigrandine per auto su Amazon. “L’ha detto il meteo”, dicono genericamente i miei, ma lo so: il meteo di riferimento, a casa loro, è sempre quello, il più noto. 

Il meteo è il nuovo oracolo divino, ci si crede di fede cieca. Il linguaggio da asciutto e scientifico è diventato da tempo catastrofista e fondamentalmente un mix di storytelling e clickbait. Le app usano lo schema delle pr e del marketing politico: instillare paura (le vostre auto sono a rischio!) e infondere speranza (poi torna il sereno). Segnalare rischi (la grandine!), presentare opportunità (finalmente potrete uscire di casa nel pomeriggio). Anche la umanizzazione dei fenomeni non è solo un trucco innocuo: da anonime e tristi “perturbazioni”, i fronti caldi e freddi sono stati elevati a dei dell’Olimpo o personaggi storicamente associati, quasi per farci sentire meno in colpa (“non siamo stati noi, con lo scellerato uso del pianeta, è colpa di Nerone, e poi di Poppea”). Forse una delle mosse di relazioni stampa più geniali.

Vincere la competizione
Ma se i dati sono aperti a tutti, come si diventa il famigerato “leader di settore”? Cosa fa veramente la differenza, come sosteneva il claim di ilmeteo.it? L’uso delle partnership televisive, probabilmente gestito come uno scambio di servizi e visibilità, è stato il vero cavallo di troia per portare l’app alla diffusione attuale dichiarata di dieci milioni di download. L’interfaccia, così poco slick (come direbbero gli esperti di User Experience), piena zeppa di funzioni, bottoni, alla fine risulta perfetta per l’utente medio, non avvezzo a usare scroll, doppi tocchi o tocchi prolungati: quello che c’è si vede direttamente sullo schermo. Anche alcune funzionalità innovative hanno contribuito al successo, quel sentirsi “il piccolo meteorologo” osservando le perturbazioni muoversi con la funzionalità “radar”, o soddisfare la curiosità sbirciando nelle webcam locali. Ma forse la spiegazione più plausibile è che “il vincitore si prende tutto”: quando sei la app più scaricata, sei anche la più consigliata dal passaparola, e la stessa posizione in classifica contribuisce a mantenerne la dominanza. La gamification è la nuova frontiera, del resto. Alcune app americane premiano con badge virtuali gli utenti che “sopravvivono” a giorni consecutivi di intenso calore esterno, o a una settimana di pioggia continuativa. Badge che poi possono essere riscossi magari in partnership con qualche sponsor. Manca solo un social network dedicato, anche se i gruppi locali di Facebook ci si avvicinano molto. Più tempo trascorso a guardare il tempo sugli schermi, più soldi in pubblicità e dati. Più i fenomeni sono estremi, più il meteo è compulsato dagli utenti. Facile prevedere che la crisi climatica porterà se non altro buone notizie per i bilanci delle app di meteo.

Questioni di soldi
Perché alla fine lì si ritorna, al flusso dei ricavi. Ogni app guadagna dalla pubblicità cosiddetta in programmatic, e questo significa che se aprite la app vi troverete tracciati da una lista infinita di server esterni, che in tempo reale ingurgiteranno il vostro profilo di comportamento meteorologico (incluso quello più prezioso, la geolocalizzazione precisa) e faranno offerte per apparire nei banner. Ovviamente le agenzie e le app immobiliari sono interessate a dove siete/abitate. Perfino piattaforme di hotel potrebbero tentarvi con offerte real-time per una vacanza, o per offrirvi una esperienza (“visto che sei a Torbole, non vuoi proprio provare un’ora di lezione di windsurf con un coupon di 20 euro?” O un pranzo in riva al lago, il concetto è lo stesso). Perfino qualche catena di distributori di benzina vi potrebbe offrire bollini in zona. Naturalmente la segmentazione si paga: dal lato delle app meteo si incassa qualche decimo di euro a ogni mille visualizzazioni, che arrivano da Google, Criteo, Amazon e altri, che a loro volta incassano dagli inserzionisti più svariati – il meteo in fondo accomuna compratori di auto e fashion addicted. Non solo, da qualche tempo è possibile targetizzare le proprie inserzioni a seconda del tempo che fa o farà: i prodotti stagionali (gelati, preparati per cioccolate calde, cappotti, ecc.) non pianificheranno più seguendo il calendario ma apparendo su siti e app quando le temperature o le precipitazioni saranno ottimali per l’acquisto. Publitalia ’80 (disclaimer: Link fa parte del gruppo) ha lanciato di recente il Meteo Targeting: negli spazi della tv connessa (cosiddetta “addressable”) e sui siti della concessionaria gli investitori si ritroveranno un’ulteriore possibilità di segmentazione.

La geolocalizzazione precisa dell’utente, che il meteo fornisce agli inserzionisti, è dunque preziosa: è un dato sempre più scarso nella pubblicità online. Ognuno di noi tende infatti a eliminare la possibilità per le app di tracciare ad applicazione chiusa i propri spostamenti, soprattutto dopo che Apple ci ha mostrato con quanta precisione questi siano accessibili dalle app. Molte persone, preoccupate dai pamphlet sul capitalismo della sorveglianza spengono la geolocalizzazione tout court: naturalmente tranne che per le app in cui è necessaria. Manco a dirlo, una di queste è proprio il meteo, l’altra categoria sono le mappe stradali, con grande giovamento dei conti e dei dati di Google. Il campanilismo, presente anche nel meteo, fa il resto: le app ci fanno credere, con un nudge abbastanza subdolo, che il meteo di Rio Saliceto sia diverso da quello, che ne so, di Carpi o di Correggio (tutte località in un raggio di 5-10 chilometri, in Emilia). Differenze iperlocali di previsione che, infatti, non esistono davvero, almeno a un buon livello di confidenza statistica: per qualche motivo scientifico spesso i temporali localizzati sfuggono beffardamente alle previsioni “algoritmiche” basate sull’intelligenza artificiale. Ma vuoi non tenere accesa la geolocalizzazione in modo che la app sia più precisa e che ti dica il meteo del tuo borghetto? Ed ecco come viene vinta la resistenza anche dei no-track più accaniti.

Contenuto liquido
Non sono comunque solo la pubblicità e i dati a far fare cassa. Il meteo è un content liquido, dicevamo. Come una telenovela, ma senza nemmeno bisogno di doppiaggio. Si può facilmente infilare in giornali e app online (ilmeteo.it fornisce portali dedicati per Repubblica e Corriere, ecumenicamente, naturalmente per raccogliere pubblicità e dati in partnership), ma il meteo è anche nei calendari di Google e di altri. La syndication, come si dice in gergo, del meteo comprende la fornitura delle previsioni locali, nazionali, internazionali per schermi nelle metropolitane, aeroporti, autogrill, perfino nei centri commerciali e nelle radio delle catene dei supermercati. Slot audio pre-confezionati vanno in onda in tv e radio locali. Ma ci sono app/canali meteo anche nelle smart tv e feed meteo perfino nelle autoradio smart delle auto connesse. L’abbondanza di dati meteo imperversa perfino nella cosiddetta Internet Of Things e sul trading delle materie prime, creando domanda per previsioni specializzate o “iperlocali”. Citadel, tra i più grandi hedge fund del mondo, per espandere il suo business di materie prime nel 2017, ha assunto un team di 20 meteorologi, esperti di dati. E ora attribuisce a quel team di previsione gran parte del suo successo nel trading di materie prime, che ha rappresentato circa la metà dei suoi 16 miliardi di dollari di rendimenti nel primo trimestre di quest’anno.

È venerdì quando finisco di scrivere questo pezzo: il tempo stringe, prima dell’arrivo del “medicane” (Mediterranean Hurricane). Una notifica push sull’iPhone mi avverte. “Lunedì nero: finisce l’estate! Arriva Poppea, violenti piogge in arrivo e brusco calo delle temperature. Scopri i dettagli della tua città!”. E allora cosa fai, vuoi non cliccarci e prepararti all’apocalisse?

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Come il meteo si è mangiato internet ultima modifica: 2023-09-27T07:01:00+02:00 da GognaBlog

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33 pensieri su “Come il meteo si è mangiato internet”

  1. Voi polemizzate sui troppi inglesismi. Questi ( spero siano almeno alcuni  ) si sono inventati una cosina che fattura 12  milioni di euro e ne guadagna 6 con 13 dipendenti. Chapeau ! I dati a Google li diamo noi, Volontariamente. Forse non abbiamo capito ancora bene il meccanismo. La Privacy è finita il giorno che abbiamo iniziato a firmare dei moduli di mantenerla e invece autorizzavamo tutto a tutti. Ormai i buoi sono usciti dalla stalla e non credo torneranno presto. Complimenti per l’articolo.

  2. Se no ghe fusse vento, né femena mata, no ghe saria mal tempo, né mala giornata.”
    Tempo, cul e siori, i fa quel che i vol lori.”
     

  3. Quando le nuvole vanno al mare , contadino va a vangare.
    Quando le nuvole vanno a monti, contadino va a fa di conti.
     
    Non nevica bene se di Corsica non viene.

  4. Quando al truna in Val Culera, al fa brut prima di sera! Dal meteo al meteorismo il passo è breve.

  5. #24 Grazia. I miei erano inventati lì per lì… anche la Sardegna ha diritto a detti dolomitici!

  6. O come dice mio padre, accostando previsioni metereologiche con il metabolismo umano,
    quande tronâ da-o mónte cû, a pròscima ramâ d’ægoa  l’è mèrda
     

  7. Cando monte Ispada at sa berritta,
    b’had aera calda o puru fritta.
     
    Cando est anneauladu Gennargentu,
    b’had aera frimma o tira ‘entu.

  8. @Fabio
    “Quand al Cimòun al ga al capèl, al fa brot o al fa bèl” 😀 😀 😀

  9. La versione c. Cadore;
    Co’ l Antelao l’ ha al capell buta la falz e toj al restell…altri tempi. 
    Mentre  ad Aviano  c’e sempre il solestrano…

  10. Ps. La rivista è molto aperta a diversi contributi,anche generali,  ( ci scrivono pure Freccero e Aldo Grasso) è gratuita e può essere interessante per chi è curioso di conoscere l’evoluzione del mondo televisivo non solo in Italia. 

  11. L’autore è uno degli esperti più conosciuti di marketing digitale e fa il consulente su questi temi per diverse aziende di vari settori. L’articolo è preso da una rivista specializzata e sofisticata, ben nota a chi si occupa di televisione e media,  edita dal Marketing strategico di Mediaset e si rivolge ad un pubblico di nicchia. È normale che usi un gergo specifico utilizzando termini inglesi ben conosciuti nell’ambiente. Sarebbe come pubblicare su un blog di cosmetici o vestiti un articolo specialistico o una discussione tecnica del gognablog: per i lettori una noia mortale e metà dei termini pure in inglese da spit a nut a friend totalmente sconosciuti. 

  12. Al di là delle diavolerie tecnologiche della Rete e dei satelliti in orbita geostazionaria, uno dei piú precisi modelli meteorologici che esistano, con una probabilità del 100% di azzeccare le previsioni, lo imparai tanti anni fa da un “meteorologo” veneto al Rifugio Larcher al Cevedale:
    “Quando el Cevedale al gha el capèlo, o che fa brūto o che fa bèlo”.
     
    … … …
    Il modello si può applicare a tutte le montagne del mondo, dall’Alpamayo nelle Ande allo Z8 nello Zanskar.
    Ne esiste perfino una versione per il monte Cimone (Appennino Tosco-Emiliano), in dialetto frignanese.
     

  13. L’articolo può sollevare qualche dubbio in chi è totalmente all’oscuro di queste dinamiche – se riesce a carpirne il senso nonostante la valanga di inglesismi che dimostrano che anche chi scrive è caduto in una delle tante trappole di globalizzazione. 

  14. Articolo scritto un po’ in ritardo, forse poteva andare bene 10 anni fa, all’inizio della fase meteocompulsiva. Forse.

  15. “l’articolo viene da un sito curato dal marketing di Mediaset.”
     
    ¡Ah, malditos cabrones! 

  16. Comunque, ho spesso notato, anche in alcuni articoli qui su Gognablog, che chi scrive pensa di essere un genio di fronte a una massa di caproni. Stavolta poi, l’articolo viene da un sito curato dal marketing di Mediaset 😀 😀 😀

  17. vero Fabio,  ce ne abbiamo due versioni: una da accademia della crusca e l’altra der popolo.
    Altro che inglese!!!

  18. “Come dire io son io e voi non siete un cazzo. Come si traduce in inglese?”
     
    Alberto , mi permetto di far notare che in questo caso esiste un’espressione piú efficace (piú colorita) diversa dall’italiano. È in romanesco:
    “Io so’ io e voi nun siete un ca**o”.  😂😂😂
     

  19. Concordo con Bertoncelli. Usare questi termini inglesi al posto di quelli italiani è per sentirsi dei ganzi, per impressionare. Come dire io son io e voi non siete un cazzo. Come si traduce in inglese? Oppure è una lingua talmente limitata che non si può?

  20. Antonio, forse con il termine provinciale mi sono spiegato male.
    Intendevo riferirmi a chi adopera vocaboli inglesi anche quando non ce n’è alcuna necessità (ovvero qualora esista il traducente italiano). Lo scopo è spesso quello di impressionare l’interlocutore o il lettore, darsi arie da cosmopolita e conoscitore del mondo.
    In realtà per me cosí facendo si dimostra solo di essere conformisti, cioè succubi delle mode (linguistiche, come in questo caso, oppure di altro genere).
     
    P.S. A parte quanto scritto sopra, la ragione che mi muove a usare parole italiane (beninteso, quando esiste il relativo traducente) è questa: la nostra lingua è bella e musicale. Perché rovinarla?
     

  21. A me invece sembra un articolo molto dimostrativo di come certi media stiano entrando pervasivamente nelle nostre abitudini, ad ennesima dimostrazione che -non in quanto boccaloni ma in quanto inconsapevoli consumatori potenziali- siamo tutti diventati molto appetibili per il capitalismo digitale.
    L’uso dei termini inglesi poi, lungi dall’essere espressione di provincialismo, è semplicemente la cartina al tornasole della monopolistica americanizzazione del mondo dell’informazione e del divertimento (e così è contento chi non desidera leggere il termine  infotainment)

  22. Matteo,
    ovvio che statisticamente ci siano persone meno attente e meno capaci di comprendere ciò che viene loro proposto. Però credo che ci siamo anche un po’ annoiati tutti di sentire o leggere qualcuno che lancia l’allarme perchè ci sono fenomeni che ci invadono (economicamente, culturalmente e in chissà quanti altri modi) e contemporaneamente sostiene, o perlomeno lascia intendere, che ci siano (per limitarci all’Italia) circa 60 milioni di persone che abboccano senza porsi nemmeno una domanda o senza esserne consapevoli. Qualcuno possiede uno strumento che conta i casi dei consapevoli e di non consapevoli? evidentemente no. 
    Il tono di articoli come questo, sulla presunta invasione dei siti meteo nelle nostre vite, ha il solo fine di scrivere qualcosa tanto per fare clamore, di lanciare un allarme quando non esiste. Cosi facendo si comporta esattamente come coloro che critica di allarmismo ingiustificato. Le due cose si tengono, come abbiamo capito tutti. Da un lato ci vuole l’invasore, dall’altro chi grida all’invasore.

  23. Il signor Diegoli dovrebbe esprimersi o in italiano o in inglese, senza mescolare le due lingue in un pastrocchio ridicolo.
    Chi usa l’itanglese oltraggia la nostra bella lingua e rivela una mentalità provinciale.
     
    Perciò, per esempio, NON usiamo l’orribile location, bensí località, luogo, posto, ambiente, a seconda del contesto.
     

  24. “Ilmeteo Srl, la società dietro ilmeteo.it ha fatturato circa dodici milioni di euro con utili per sei milioni. Il tutto con soli tredici dipendenti.”
    A parte che mi paiono numeri un po’ eccessivi (500000€ per dipendente di utile?!), io non sono mai riuscito a capire da dove saltino fuori ‘sti soldi…limite mio evidentemente.
     
    “perchè si scrivono sempre queste frasi in cui si ritiene che ci sia una massa di gente che non fa caso alle cose e soprattutto non le fa con cognizione di causa.”
    Temo che la risposta sia semplicemente perché è vero…

  25. È vero che e previsioni del tempo sono diventate un must, una luce guida.
    Sono ciclista non fissato e scialpinista ormai non più fissato, ma per gli amici compagni che fanno regolarmente 3 uscite/settimana su ruote/sci, è normale e “vincolante” il consultare 3b meteo, il meteo.it, aeronautica, e scegliere sulla base di “danno una schiarita alle 10” “danno neve alle 13”, in modo compulsivo e fideistico. E se a posteriori ci si bagna o si becca neve, c’è una accettazione benevola.
    E, accenno personale, se il tempo è dubbio e la moglie non sa se fare una lavatrice e poi stendere, dò uno sguardo a 3b meteo e scegliamo. Al peggio ripariamo sllo stenditoio. Deformazione discreta !

  26. Vero, ci vogliono far sentire un mucchio di boccaloni per elevarsi sopra di noi. Spesso mi pare inducano ansia quando si legge che alle ore e minuto tale pioverà. Io seguo quello dell’azienda regionale protezione ambiente (ARPA), e non c’è pubblicità annessa. In più c’è ora anche una visione in tempo reale dove combinano la visione dal satellite (nuvole) con la visione dal radar (pioggia) in modo da vedere dove ci sono le nuvole e se piove o nevica o meno. Poi  una occhiata fuori dalla finestra non ci sta mai male!

  27. Non ho capito il fine di quest’articolo, Era quello di dirci che quando apriamo un qualsiasi sito di previsioni del tempo poi ci arrivano decine di messaggi pubblicitarii? O era quello di avvertirci che spesso i messaggi sono allarmistici? Come se non fosse già chiaro a tutti. 
    “Ma pochi ci fanno caso”: pochi chi? ma perchè si scrivono sempre queste frasi in cui si ritiene che ci sia una massa di gente che non fa caso alle cose e soprattutto non le fa con cognizione di causa. Ci sono un sacco di persone che guardano il meteo ben sapendo che anch’esso è fonte di guadagno per il sito che lo pubblica e sanno benissimo che tempo 10 secondi saranno invase da pubblicità non richiesta. Inoltre non mi sembra che i siti di previsioni meteo siano sempre cosi allarmistici. Ed infine, ognuno di noi è sempre libero di non guardare nessuno di questi siti e prevedere il tempo guardano il cielo al mattino ed alla sera dalla finestra di casa!
    In ogni caso io guardo spesso 3b meteo e devo dire che è molto preciso, anche qui in Liguria dove le previsioni non sono facili. Tra l’altro i modelli alla base delle previsioni del tempo sono comuni, non è che ogni sito abbia il suo modello, per cui diciamo che un sito vale l’altro, più o meno.

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