Come raggiungemmo la vetta
(relazione originale dell’ascensione al K2 del 1954)
di Achille Compagnoni e Lino Lacedelli
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, dicembre 1954)
Il giorno 30 luglio, partiti dal campo numero otto, a circa 7740 metri, noi due salimmo a piantare il cosiddetto nono campo: in realtà una leggerissima tendina. Fu un osso duro per un muro di ghiaccio che ci costò vari tentativi e poi una traversata su una serie di placche insidiosissime. Per di più, sopra questa, traversata, una paurosa architettura di seracchi sporgeva in fuori per alcuni metri con l’aria di dover crollarci addosso da un momento all’altro.
Si cercò di portarci più in alto possibile, fin sotto la barriera di rocce che taglia l’ultimo tratto della parete est e che rappresentava la più grave incognita.
Il tempo era sereno. Verso le tre del pomeriggio sbucammo su una crestina secondaria che ci parve adatta. E si piantò una minuscola tenda da altissima quota. Si era quasi a 8100 metri.
Era stato stabilito che prima di sera Bonatti, Abram e uno degli hunza ci avrebbero raggiunti portandoci le bombole d’ossigeno per l’attacco decisivo. I respiratori, a ossigeno, secondo il programma primitivo della spedizione, si sarebbero dovuti usare dal sesto campo in su. In pratica il maltempo, perseguitandoci per 40 giorni senza interruzione, aveva però ridotto di molto le operazioni di trasporto e di conseguenza anche il piano d’attacco era stato rielaborato dal capo della spedizione. La maggior parte delle bombole era rimasta al terzo, al quarto e al quinto campo. Quelle poche che si era riusciti a portare sulla «spalla» dovevano servire al tentativo massimo. Perciò, fin dove era possibile, si evitò di farne uso. Per fortuna eravamo acclimatati molto bene. Dal campo nove si godeva un panorama descrivibile. Ma i nostri sguardi insistevano in alto, sulla minacciosa parete che incombeva. Qui, Wiessner, nel 1939 era stato fermato per due volte quando già cominciava a credere di avere la vittoria in pugno. Qui era la chiave che ci avrebbe ebbe aperto o meno la strada al K2.
Intanto si cominciava a stare in ansia per i compagni che dovevano arrivare con l’ossigeno. Se non ce l’avessero fatta? Di bombole, noi due, non ne avevamo neanche una. «Alla peggio, partiremo senza», questa era la nostra decisione.
Ma ecco che, verso le quattro, tre puntini neri spuntano dal ciglione del plateau. Come sapremo poi, sono Bonatti, Abram e l’hunza Mahdi che lentamente arrancano su per il ripido pendio.
Ci raggiungeranno prima che venga buio? Purtroppo no. Il sole scende dietro la cresta del K2 e i tre compagni sono ancora parecchio indietro. Tra poco, Abram scenderà da solo al campo ottavo. Bonatti e Mahdi invece dovrebbero raggiungerci e passare la notte insieme a noi.
Ma quando calano le ombre, Bonatti e l’hunza Mahdi non sono ancora arrivati all’inizio della pericolosa traversata delle placche. E col buio avventurarsi per quelle rocce infami sarebbe una specie di suicidio…
All’imbrunire sentiamo delle grida. Subito usciamo dalla tenda. Bonatti e Mahdi non si vedono perché l’aria si è già fatta scura. Ma ci arrivano le voci. Purtroppo il nostro è un dialogo estremamente incerto perché il vento disperde le parole. Lacedelli finalmente crede di aver capito: ha l’impressione che a chiamare sia Bonatti il quale dice di potersi arrangiare da solo; Mahdi invece vuole scendere. «Torna indietro – gli gridiamo allora – Torna indietro! Lascia i respiratori. Non venire più avanti, e muóviti prima che sia completamente buio!». Non ci passa neppure per la mente che i due possano pensare di passare la notte a quell’altezza senza tenda né sacco da bivacco. Ma la voce di Bonatti adesso tace: evidentemente, noi pensiamo, se ne è già sceso a basso.
Così noi rientriamo in tenda disponendoci a lottare contro il freddo. E comincia quella lunga ansiosa veglia col pensiero della grande prova all’indomani. Il gelo. L’arsura della gola che comincia ad ulcerarsi. La sete che non si riesce a vincere. Ci prepariamo una minestrina e poi, a più riprese, della camomilla: è la bevanda che ci dà più ristoro. Mangiare, niente, nessuno dei due ha fame.
Ci corichiamo di fianco, l’unico modo per potere stare in due nella piccolissima tenda. Inutilmente cerchiamo di dormire.
Notte dura e interminabile. Appena il cielo dalla parte di oriente si schiarisce, saltiamo fuori dalla tenda. Delusione. Se il cielo sopra di noi è sgombero, sotto però si stende un compatto mare di nebbia che non lascia presagire niente di buono. Poi cerchiamo di avvistare i respiratori a ossigeno che Bonatti e Mahdi devono aver lasciato. «Guarda, c’è uno che scende». Stupefatti, vediamo una figura che si allontana a passi incerti. Chi è? Bonatti o Mahdi? A quella distanza non si può distinguere. Lo chiamiamo a gran voce. Lui si ferma e si volta, però senza rispondere. Poi riprende a caracollare giù per la precipitosa china.
Questa vista ci lascia sbalorditi. Che cosa è successo? Che Bonatti, o Mahdi, sia venuto su stamane dall’ottavo campo? No, non è possibile. In questo caso, noi pensiamo, lo vedremmo salire e non discendere. Insomma, è un mistero inesplicabile. Noi facciamo tutte le ipotesi possibili tranne quella esatta. Non ci pare verosimile che a oltre 8000 metri due uomini abbiano resistito per una intera notte, senza riparo al gelo e al vento.
Siamo pronti alla partenza. Oltre all’ossigeno, che andremo a prendere più in basso, porteremo il minimo indispensabile.
Il tempo è incerto. Il mare di nebbia, invece di dissolversi, tende a salire.
È il momento forse più difficile, quando tutte le possibili scuse si affacciano alla mente per indurci a rinunciare. Ma l’idea che questa sera forse potremo essere di nuovo qui col K2 nel sacco vince qualsiasi titubanza. Sono le cinque del mattino.
Ci leghiamo, mettiamo i ramponi e poi subito via. La tenda la lasciamo come sta. Per discendere fino alle bombole di ossigeno, risparmiamo la rischiosa traversata sulle placche salendo un poco a destra verso la fascia di rocce e poi scendendo per la neve diritti.
Eccoci giunti. Ci carichiamo sulle spalle i trespoli con tre bombole ciascuno (pesano 19 chili, a quell’altezza un peso massacrante) e ci guardiamo intorno un po’ indecisi. Il tempo sembra peggiorare. La nebbia sale lentamente, tra poco ne saremo avvolti. Qualche fiocco di neve. «Che cosa ne dici?» chiede Lacedelli. E Compagnoni – a lui Desio ha dato il comando dell’attacco alla vetta – non ha esitazioni: «Io dico di tentare».
Su allora. Sono lei sei e un quarto circa… Ci alziamo lentamente verso la barriera di rocce che sbarra la parete est. Con l’ossigeno che ci entra nei polmoni, il respiro è più facile. Ma quei 19 chili sulle spalle e la costrizione della maschera sono una vera croce. I movimenti riescono stentati, basta un niente perché il peso ci sbilanci, facendo smarrire l’equilibrio. La neve poi è molle, si affonda fino alla cintura.
Per avanzare, ad ogni passo dobbiamo spazzare via la neve con la mano sinistra e calcarla poi coi piedi. Fortuna che tutti e due ci sentiamo relativamente in gamba. Forse, a tenerci su , è il pensiero della vetta, è la promessa fatta sopra la tomba di Puchoz, è il ricordo dei compagni che hanno fatto sacrifici di ogni genere per rendere possibile questo tentativo.
Siamo ai piedi della muraglia decisiva. Dinanzi a noi sale, con scoraggiante inclinazione, il canale di ghiaccio che quindici anni fa Wiessner attaccò direttamente. Ma allora il fondo era sgombro e compatto, oggi la massa della neve è tale che tentare sarebbe una pazzia.
Proviamo allora molto più a sinistra, presso le rocce, ma anche qui siamo respinti. A vederle dal basso, queste rocce non sembrano gran che, poi quando ci si mette le mani sopra si constata che è una faccenda grama. La neve che vi si è depositata non tiene, basta poggiarvi un piede e di colpo smotta via.
In questi tentativi quasi due ore vanno perse. Finalmente proviamo ad attaccare la muraglia tenendoci subito a sinistra del canale. Compagnoni si innalza alcuni metri, annaspa coi ramponi, che sulle rocce non possono far presa, all’improvviso «parte» e vola giù andando a finire nella neve molle. Niente di rotto, per fortuna.
Allora Lacedelli, per forzare il passaggio, si toglie i ramponi e i guanti. Sono circa trenta metri di rocce notevolmente in piedi. In Dolomiti sarebbe forse un passaggio di terzo grado superiore. Ma valutazioni del genere non hanno senso oltre gli 8000 metri. Qui siamo già al limite estremo.
Forse questo, dal punto di vista dell’arrampicata, è il passaggio più arduo di tutto il K2. Senza ramponi, Lacedelli se la cava bene sulle rocce ma si trova a malpartito appena risbuca sulla neve. Adesso, Compagnoni passa in testa. Anche il tratto che segue è eccezionalmente impegnativo.
Non sappiamo che ora è, perché guardare l’orologio richiederebbe manovre complicate. A occhio e croce, le nove o le dieci del mattino. La nebbia ci ha raggiunti, non vediamo quasi più nulla intorno a noi. Altra novità spiacevole: la prima bombola d’ossigeno è esaurita.
Alternandoci in testa alla cordata, traversiamo sotto il muraglione di ghiaccio per ripide placche traditrici. È un passaggio bruttissimo che richiede la massima attenzione. E al di sopra pencolano, formando sinistri baldacchini, dei bianchi pinnacoli di ghiaccio.
Fatto questo passaggio, si sperava che il peggio fosse superato. Ma non è così. Si presenta un pendio di neve ripidissimo ed estremamente infido. Per sollevarsi 15 metri, Compagnoni consuma non meno di un’ora. Visto che continuare direttamente è assurdo, si traversa a sinistra adagio adagio, perché la neve, sempre friabilissima e instabile, ci arriva quasi alle spalle. È un sospirone di sollievo quando possiamo rimettere le mani sulla roccia. Ora aggiriamo, e quindi scaliamo, una specie di tozzo torrione. Ogni tanto le cortine di nebbia si diradano lasciandoci intravedere, in alto in alto, confuse masse bianche.
Ora ci troviamo proprio sul ciglio di un gigantesco abisso che sprofonda sul ghiacciaio Godwin Austen. Se volassimo giù di qui, arriveremmo in pochi secondi al campo base. Compagnoni si stacca la maschera dal volto (altrimenti sarebbe impossibile parlare): «Ho l’impressione – dice – che anche la seconda bombola sia per terminare… Guarda che razza di canalone c’è qui sotto. Ci conviene tenerci sulla destra».
Una cresta di roccia ci consente infatti di piegare verso il centro della parete est. Poi un tratto di neve dura, tagliata da piccoli crepacci. Per quello che ne possiamo capire, ci troviamo proprio nel mezzo di quella larga dorsale arrotondata che termina in vetta. Ma il pendio è ancora ripido, anzi accenna a peggiorare. Così passano altre ore.
Un colpo di gelido vento spazza via la nebbia intorno a noi. Guardando in su, vediamo la grande schiena bianca che si incurva a poco a poco. Si direbbe che la vetta debba trovarsi subito dietro quella gobba. Sarà vero? Apertesi le nubi anche di sotto, ci voltiamo in dietro ed ecco, laggiù a picco, lontanissime, le due tende dell’ottavo campo. Accanto ai due rettangolini rossi, tre punti neri che si muovono: i nostri compagni. Una vista che ci dà una grande consolazione.
All’improvviso, a distanza di pochi secondi l’uno dall’altro, proviamo entrambi una sensazione orribile. Il respiro ci manca, un opprimente calore ci investe testa e piedi, le gambe vengono meno, non si riesce più a stare in piedi.
Quando ci mancò il respiro, facendoci piombare in una prostrazione atroce, si restò per un attimo sgomenti. Poi ci rendemmo conto: l’ossigeno era finito. Presto allora: togliersi le maschere, respirare fondo, richiamare le superstiti energie. Difatti, a poco a poco, quel terribile malessere scomparve.
«Come ti senti?». «Eh, potrebbe andare peggio». Con meraviglia ci accorgemmo che, pur senza più respiratori, le forze non ci avevano lasciato. La certezza che la vetta fosse oramai vicina, il tempo che si rischiarava moltiplicarono la nostra volontà.
Ma, poi ci prese un dubbio: eravamo sicuri di ragionare bene? Non stavamo per caso, vaneggiando? Alpinisti saliti senza ossigeno verso gli ottomila metri raccontano di allucinazioni, deliri, smarrimenti. Non poteva essere lo stesso anche per noi?
Con ansia, per paura di riscontrare qualche sintomo sospetto, si fece una specie di esame di buon senso. Provammo a fare qualche ragionamento elementare, per esempio: quello è il Broad Peak, ormai la sua vetta è parecchio più bassa di noi, ciò dunque significa che la vetta del K2 non può più essere lontana.
No. Anche nella nostra testa tutto funzionava bene. Si poteva proseguire. Non solo: la mancanza dell’ossigeno non ci procurava quel calo di energie che si temeva. Certo in salita il cuore sembrava che scoppiasse in petto, ogni due tre passi dovevamo fare alt finché l’affanno fosse passato. Il basto con le due bombole vuote ci opprimeva.
Ma perché, finita la scorta dell’ossigeno, non ci liberammo di quel bestiale peso? I motivi sono quattro:
Primo, per toglierci il basto, avremmo dovuto buttarci distesi sulla neve, che in quel tratto era profonda, ripidissima ed instabile. L’operazione sarebbe riuscita perciò difficile e rischiosa.
Secondo, eravamo convinti che per raggiungere la cima ci volesse molto poco.
Terzo, il sole già scendeva e i minuti erano preziosi.
Quarto, non ci dispiaceva l’idea di lasciare in vetta una solida testimonianza.
Purtroppo la vetta non era così vicina. La gobba dietro là quale credevamo che il pendio si spianasse ci preparava una amara delusione. Come la raggiungemmo, ecco, di là, presentarsi ancora un lunghissimo pendio. La gola brucia. Per togliere l’arsura ogni tanto tuffiamo la bocca nella neve.
Tre quattro passi e poi una fermata; appoggiandoci con tutto il peso alla piccozza. Per fortuna la testa continuava a far giudizio. Unica cosa insolita, un intenso ronzio nelle orecchie; e in questo ronzio si sentiva come una sottile voce quasi ci stesse al fianco un personaggio invisibile che non smetteva un istante di parlarci; e che bisbigliava: «Coraggio! Dài che ci arrivi! “Ancora un poco e poi è finita! Vedrai che ci arrivi!».
Intanto una grande schiarita liberava la montagna delle nebbie. E sui ghiacci risplendeva il sole. A spazzare le nubi era il vento del nord, spaventosamente gelido: lame di ghiaccio che tagliavano il viso e penetravano anche sotto i vestiti. Era difficile, specialmente in quelle condizioni di quota e di stanchezza, valutare la temperatura. Ma non dobbiamo essere molto lontano dalla verità parlando di 50 sotto zero.
L’ultimo tratto era una larga cresta di neve, non ripida, che andava da sinistra verso destra. A un tratto ci accorgemmo che il pendio si attenuava, la neve diventava consistente, grazie a Dio non si affondava più. Il pendio si attenua ancora, di passo in passo diventa meno ripido. Guardiamo intorno, quasi stentando a credere. Dopo mesi e mesi di fatiche, non ci resta più niente da salire. Sopra di noi soltanto il cielo.
«Ma siamo proprio sulla cima?». Dinanzi a noi, a notevole distanza, si alza un’altra elevazione della cresta. Sappiamo che verso nord esiste un’antecima, precisamente quella che si vede dal campo base, più bassa della vetta autentica. Ma vogliamo essere sicuri. Abbassando il capo, traguardiamo sull’orizzonte, per non avere poi rimorsi. No, siamo più alti noi. Fin dove arrivano gli sguardi, non c’è assolutamente nulla che ci superi. Sono le sei di sera.
La scena è molto semplice, anche se i sentimenti si accavallano in un indicibile tumulto. Ci abbracciamo. Poi ci buttiamo distesi sulla neve per liberarci dei respiratori. Poi leghiamo a una piccozza le due piccole bandiere: quella del Pakistan , e un piccolo vessillo del Club Alpino che Compagnoni ha portato dalla sua Valfurva.
La cima del K2 è come un grande crinale di ghiaccio, leggermente inclinato verso nord. Ci potrebbe stare comodamente un centinaio di persone. Guardando in giù alla voragine del ghiacciaio Godwin Austen riusciamo a riconoscere, 3600 metri più in basso, il nostro campobase: dei puntini rosso-scuri allineati geometricamente. Portandoci sul ciglione orientale della vetta, possiamo scorgere pure le due tendine dell’ottavo campo. Dio, quanto sono lontane. Solo laggiù è la speranza di salvezza.
Per girare il film e fare varie foto, nere e a colori, ci dobbiamo levare i guantoni di pelle. Ma è un supplizio tenere le mani esposte al vento. Le dita accennano a diventare blu. Specialmente Compagnoni nota sintomi di congelamento alla mano sinistra. Per riattivare la circolazione, batte le dita contro la piccozza, ma è come se fossero di legno, non sente più il minimo dolore.
Come se non bastasse, poco dopo una raffica di vento farà volar via un guanto a Compagnoni. Lacedelli gli cederà subito uno dei suoi, pur sapendo quello a cui può andare incontro.
Ora facciamo una specie di trofeo con le due piccozze e le bandierine. Poi, con l’autoscatto, ci cinematografiamo nell’atto di stringerci la mano (purtroppo questo rotolo, con la macchina relativa, sarà dimenticato al campo otto, dove chi vuole può salire a prenderlo).
A poco a poco cominciano a capire di aver fatto qualcosa di veramente bello. E la mente ripercorre in un baleno tutte le fasi dell’impresa, dal giorno ormai lontano che Desio ci convocò a Milano per il primo rapporto, al viaggio verso l’India, alla marcia di avvicinamento, alla vigilia al campo base, ai primi assalti sul Crestone Abruzzi, alla morte del bravo Puchoz.
Ma poi il pensiero corre giù verso il precipizio che ci attende, misurando il cammino del ritorno.
Così, dopo mezz’ora, ci rimettiamo in moto. Non abbiamo mangiato niente né bevuto una goccia. Prendiamo solo una pastiglia di simpamina (ed è l’unica volta che si è ricorsi a un eccitante). Per calzare i guanti, trasformati in due blocchi di ghiaccio, li dobbiamo tagliare fino al polso. Uno sguardo ancora alla cima, a quel posto straordinario, dove probabilmente tutti e due abbiamo vissuto il momento più grande della nostra vita. Poi giù, diretti, per la linea di massima pendenza, senza preoccuparci di seguire l’itinerario di salita.
Ormai è buio. Anche l’ultima luce si è spenta sulle creste, i precipizi sono letteralmente neri. Sulla neve, per fortuna, la vaga luce delle stelle diffonde una specie di fosforescenza. Abbiamo poi la piccola lampadina elettrica.
Giunti all’altezza della traversata sotto il muro di ghiaccio, Compagnoni scivola su una di quelle placche traditrici, ma si ferma poco sotto trattenuto dalla corda. Ora riconosciamo l’inizio del vertiginoso canale che scende verso il campo otto. Arrischiando il tutto per il tutto, ci caliamo direttamente giù. Probabilmente questo è il tratto più ripido di tutta quanta la salita.
I ricordi di questa discesa si confondono in una disordinata sensazione di vuoto, di instabilità, di buio, di stanchezza mortale, di tormentosa sete, di immensa felicità. A un tratto constatiamo di essere arrivati là dove stamane abbiamo trovato l’ossigeno e lasciato i sacchi. Eccoli, infatti. Ci fermiamo qualche minuto, Compagnoni estrae una insospettata bottiglia di cognac e facciamo un brindisi. Ma l’alcool, benché siano veramente poche gocce, ci dà subito alla testa.
Dopo la sosta, sorreggendoci a vicenda, ci rimettiamo in cammino sul plateau. Sappiamo che fra poco incontreremo un crepaccio e spalanchiamo gli occhi per avvistarlo in tempo. La lampadina è da un pezzo esaurita e debolissimo è il chiarore delle stelle.
Come passeremo il crepaccio? Manco a dirlo, proprio quando ci prepariamo a fare sicurezza, ci finiamo dentro tutti e due. O meglio, nella caduta, ci voliamo sopra, andando a cadere sul, bordo inferiore. della crepa. Nel rotolone, la piccozza di Lacedelli parte, e per un pezzo la sentiamo sbattere e tintinnare, mentre si inabissa nelle profondità della voragine.
Quasi meccanicamente continuiamo a scendere, senza sapere se andare a destra o a sinistra, guidati si può dire dall’istinto. Ormai, non deve restare molta strada e possiamo sperare di cavarcela.
Non sapremo neanche dire come, ma a un tratto ci rendiamo conto di essere proprio sul bordo superiore di quel muraglione di ghiaccio che incombe sopra il campo otto. Trovare la strada giusta, è una parola.
E qui – a pochi passi si può dire dalle calde tende che per noi vogliono dire la vita – ci capita l’avventura più pericolosa di tutta la giornata.
Neppure a farlo apposta – ma nelle tenebre era impossibile saperlo – ci disponiamo a discendere la ripidissima barriera proprio nel punto dove la parete è più alta. Non solo; sotto di noi il ghiaccio rientra, formando un pronunciato strapiombo che fa da baldacchino a un crepaccio. Compagnoni che si cala adagio adagio assicurato dal compagno, sente a un certo punto che i piedi non trovano più sostegno.
«Guarda che qui sotto c’è il vuoto! Tieni» grida Compagnoni.
Lacedelli si trova 15 metri più in alto; di colpo sente aumentare la tensione della corda. Fa per tenere, ma le mani, indurite dal gelo, non riescono a stringere la corda.
Abbandonato a se stesso, Compagnoni precipita a picco nel vuoto girando due volte su se stesso. Quindici metri almeno di volo. Un tonfo, un terribile scossone. Affondato nella neve molle, Compagnoni leva immediatamente gli occhi in su, vede il bordo nero della muraglia proprio sopra la sua testa, pensa: adesso viene giù anche Lacedelli, io non faccio in tempo a spostarmi, mi arriverà addosso, mi massacrerà coi suoi ramponi.
Frazioni di secondo che equivalgono a ore di angoscia. Ma Lacedelli non precipita. Miracolosamente è riuscito a fermarsi sul pendio, una quindicina di metri sopra il bordo del salto.
Lì per lì Compagnoni crede di essersi fracassato tutto. Con precauzione prova a muovere una gamba, poi l’altra, poi saggia la consistenza delle braccia. Niente di rotto grazie al cielo. Si rialza, dà un’occhiata al pauroso crepaccio prodigiosamente sorpassato in volo. Si tira fuori per poter vedere Lacedelli e indicargli la strada migliore. Certo in quel punto il ghiaccio è ripidissimo. «Traversa un po’ a destra, se riesci. A destra il muro è meno in piedi». Lacedelli allora si sposta di lato sul ghiaccio vivo per parecchi metri, poi improvvisamente scivola. Un volo anche per lui, benché il quel punto il muro non strapiombi. Anche per lui un innocuo tonfo sul labbro inferiore del crepaccio.
È finita? Ormai non ci sono più passaggi complicati o preoccupanti. Ricomincia il discreto e regolare pendio della «spalla», tra poco si dovrebbero vedere le due tende. Urliamo, sperando che gli amici ci sentano, ma a risponderci è il sibilo del vento. Forse non ci hanno udito perché di mezzo c’è un piccolo dosso di neve. Procediamo ancora un tratto finché non riusciamo ad avvistare il campo. Una delle due tende si è illuminata.
Poi delle ombre che si muovono, delle grida di evviva, delle voci familiari. Braccia che ci stringono, domande, manate sulle spalle. Abram, Bonatti, Gallotti fanno letteralmente dei gran salti di gioia. Anche Mahdi e Isakan, i due hunza, sembrano estremamente soddisfatti. Manca un’ora a mezzanotte.
«Sì, sì, no, no». Sulle prime non riusciamo a dire altro. Non è per le ulcerazioni che l’aria secca – o forse i respiratori – ci ha provocato in gola. È per qualche cosa che le parole non possono spiegare e che ci fa venir voglia di piangere.
Subito i compagni ci tolgono i sacchi dalle spalle, ci preparano il tè, tutti e cinque riusciamo a introdurci nelle tenda, a poco a poco – le nostre lingue si sciolgono. Ora parliamo, parliamo, non si finirebbe mai di raccontare.
Peccato di non poter dare la notizia a Desio, giù al campo-base. Le nostre radio funzionano benissimo ma soltanto «a vista», cioè solo nel caso che fra trasmittente e ricevente non ci siano ostacoli di mezzo. Qui, invece, al campo otto si è «coperti» dal gran ciglione della spalla.
Poi le dita, che fino a poco fa erano insensibili, cominciano a far male. Le ultime falangi sono nere, colore cioccolato. Il dolore è atroce. Anche se avessimo un letto di piume riscaldato, non potremmo prender sonno.
E un’altra notte di pena, di inquietudine, di gelo. La notte più stupenda della nostra vita.
5
Premessa doverosa: io sono un semplice escursionista e anche abbastanza scalcagnato, e quindi non mi azzardo certo a esprimere giudizi in merito alle tecniche di scalata (e di prima salita!) di un 8000. Però mi sentirei sommessamente di osservare che la scelta del posto per il campo, accordo o non accordo, doveva logicamente essere lasciata a chi doveva passarci la notte, per poi lanciare l’attacco finale.
Ma comunque, questo non è il punto della mia domanda, e per comodità di discussione sono disposto ad ammettere che si sia trattato di una scelta sbagliata (qualunque significato si voglia dare a questo termine). Siamo sempre a Bonatti che, a quanto sostiene, non se la sente (a causa della presenza di Mahdi) né di scendere, e né di raggiungere la tenda, Dato questo, ripeto: cosa avrebbero dovuto e potuto fare C. e L.?
Questa non è una domanda retorica o una critica – sto davvero cercando di capire. Se qualcuno è in grado di suggerire un comportamento moralmente ineccepibile e tecnicamente fattibile, senza compromettere l*esito della spedizione. sarò ben lieto di conoscerlo, e di togliermi un dubbio che mi tormenta da parecchio tempo.
“Cosa dovevano fare, C. e L.?”
Il piano originario prevedeva di installare il campo a 8000 metri. La sera precedente Compagnoni, Lacedelli e Bonatti si accordarono per montare il campo a una quota inferiore e cioè intorno a 7900 metri.
Invece il campo fu montato a piú di 8100 metri.
Ecco, Compagnoni e Lacedelli avrebbero dovuto prima di tutto rispettare l’accordo. Cioè montare il campo dove si è soliti fare dalla seconda ascensione del K2, in un posto ideale.
Poi ci furono altre cose che avrebbero potuto fare o non fare, per esempio evitare di chiudere la cerniera e andarsene a dormire mentre fuori c’era gente che attendeva la morte.
La storia della diatriba tra Bonatti da un lato, e Compagnoni e Lacedelli dall’altro, mi tormenta da quando la conosco (cioè da diversi decenni), perchè c’è un punto che non mi sembra sia mai stato espresso chiaramente e che non riesco a spiegarmi: e cioè cosa esattamente, secondo Bonatti, svrebbero dovuto fare C. ed L.
Date le circostanze, il consiglio che gli venne gridato “lasciate lì le bombole e scendete”, era certamente la cosa più logica da fare. Ma B. dice che scendere al buio con Mahdi sarebbe stato troppo pericoloso, e ammettiamo pure senz’altro che questa preoccupazione fosse corretta. Ma B. dice anche che sarebbe stato ugualmente troppo pericoloso seguire le tracce nel traverso sino alla tenda.
E allora? Cosa dovevano fare, C. e L.?
Magari scendere per andare a prendere B. e M. pe portarli con loro alla tenda, cioè facendo due volte, andata e ritorno, il traverso “troppo pericoloso al buio”? Oppure smontare la tenda per portarla dove erano B. e M`(sempre con il famoso traverso)? In ogni caso, rinunciando alla vetta e mandando in vacca la spedizione e gli sforzi di tutti?
Insomma, su cosa esattamente si basano le accuse di Bonatti? Qualcuno ha una risposta?
Io tenderei piuttosto a sospettare che il cuore di tutta la faccenda ci sia stato piuttosto il rifiuto di Bonatti di scendere. Ci si potrebbe anche interrogare sui motivi, ma una sentenza della magistratura lo impedisce,
Marco, per questa volta, eccezionalmente, io e Alberto ti perdoniamo. Pensa: ti perdoniamo persino se non hai colpe. Siamo buoni, eh? ???
P.S. Se nel GognaBlog non scherzo con te e pochi altri, chi mi rimane? ???
Certo Marco . La carpenteria non è rivolta a te.
Ma poi Bonatti sarà stato:
– un carpentiere in ferro ?
– Oppure un carpentiere edile?
Però una cosa bisogna dire che non è poi stato un “grande carpentiere” perchè il trapano/tassellatore non l’ha mai usato.
Alberto! Io con Bonatti carpentiere non c’entro nulla! Giusto per…
Vegetti in alpinismo di eroico non c’è nulla. Gli eroi sono altri.
Bonatti che da solo e d’ìnverno sale una via nuova sulla nord del Cervino è un carpentiere. OK!!! Ne prendiamo atto.
Stiamo andando fuori tema, ma definire Bonatti un carpentiere non e’ non condividere il suo alpinismo ma un mezzo insulto. E comunque sapete cosa se ne faceva o se ne fa ora Bonatti di chi dice che era un carpentiere… nulla! Sono d’accordo con chi dice che, con scarpette e magnesite in dosso, criticare Bonatti e’ innanzitutto un errore storico e poi una sciocchezza. Io ho passato anni non solo ad andare in montagna ma tirare microappigli e gli ispiratori erano Edlinger come Bonatti e Desmaison. Gente votato all’estremo, poi non importa se con scarponi o scarpette due numeri in meno. La passione e’ la stessa. Quanto al K2, Nessuno poteva sapere di avere in squadra uno dei piu forti alpinisti di sempre… naturale che in qualche modo lasciasse un segno.
Ad avercene di carpentieri e capi mastri così!
“Un po’ di gratitudine, forse, io l’avrei avuta a prescindere.”
Caro Marco, un uomo assiderato a ottomila metri non è piú in grado di sentire gratitudine. Ancor peggio, non è piú in grado di sentire…
Forse è per questo che Bonatti si arrabbiò cosí tanto. Per lo meno, io un po’ mi sarei arrabbiato. E tu?
Accusare Bonatti e Desmaison di essere carpentieri significa semplicemente “non condividere l’alpinismo di qualcuno”? Tutto qui? Strane metamorfosi avvengono nel significato delle parole…
Sono abituato a chiamare le cose col loro nome. Mi hanno insegnato a usare le parole con rispetto. Per me l’accusa di carpenteria è cosa leggerissimamente diversa dalla “non condivisione”.
Definire Bonatti come un carpentiere rivela assoluta ignoranza della storia dell’alpinismo, il che per una guida alpina non è una bagattella. Ma tant’è: ignorare il passato è un vanto dei tempi moderni. Piú probabilmente si tratta però solo di arroganza, anch’essa di gran moda ai nostri giorni.
P.S. Come da lungo tempo avrà già capito chi mi legge, io non giudico un uomo dal suo Elixir.
Va bene, ma i nomi sono sempre quattro. Con Cassin ho dimenticato i Detassis… ;D Comunque, il fatto è che a me Bonatti non è mai stato simpatico, tutto qui. Tra le varie che potrei trovare, anche il fatto di non aver mai pensato che se è andato al K2 lo deve SOLO a Desio, il ducetto che si era scelto i componenti del gruppo… Un po’ di gratitudine, forse, io l’avrei avuta a prescindere… Il problema è che Bonatti ha sempre pensato che lui era il migliore e DOVEVA essere lì. Punto e basta. Altro: ma a voi non ha mai fatto un po’ ridere il termine “alpinismo eroico”?
Credo che a Gio Bassanini ed al suo solare carattere il disprezzo di chicchessia interessi ben poco. Interessa invece, magari, sapere che Gio Bassanini, che ha tutto il diritto di dire (se così ha fatto) le sue opinioni su Bonatti (opinioni che, indipendentemente siano effettivamente le sue o no, io condivido al 100%, non avendo mai sopportato nè Bonatti, nè il suo alpinismo, nè soprattutto i bonattiani, ed i libri di Bonatti, dopo averli letti, li ho usati come fermaporte o ad uso zeppa), ha una ripetizione (unica) in solitaria di Moonlight Shadow sul Guglielmina (1989), nel 92 apre il volo di Icaro sull’Androsace, e sempre nello stesso anno, di inverno, sale con Dal Pra per la prima volta Elixir, G. Capucin.Non condividere l’alpinismo di qualcuno è assolutamente accettabile, disprezzare invece gratuitamente qualcuno è esecrabile, soprattutto per motivi così futili. Ma mi pare che il disprezzo sia il leitmotiv di questo blog: che sia un effetto collaterale dell’alpinismo eroico?
Fabio è il figlio di un ex ministro.
Ma non lo disse solo di Bonatti ma anche di Desmaison
Anni fa un arrampicatore da settimo grado e oltre sentenziò che Walter Bonatti non sapeva scalare e lo equiparò addirittura a un carpentiere (o a un muratore?) perché secondo lui era capace di salire soltanto a furia di chiodi.
Questo tizio, assolutamente privo del minimo senso della storia, è addirittura guida alpina. In segno di disprezzo mi rifiuto di farne il nome: lo chiamerò l’Innominato.
Tranne Comici che tirò le famose vie in Grigna e ai Campelli da primo. Per esempio la Comici-Cassin ai Campelli Comici la considerava una via Comici con prima ripetizione Cassin che condusse una cordata subito sotto a quella del triestino.
Vero Fabio!!
E con Vaucher andavano a comando alternato.
Bonatti scrisse in uno dei suoi libri che gli unici due alpinisti capicordata di cui si fidava come se ci fosse lui al loro posto erano Carlo Mauri e Michel Vaucher (Sperone della Whymper). Non chiedetemi qual è il libro, perché dovrei scartabellarli tutti. Fidatevi della mia memoria.
Non menzionò Andrea Oggioni, non so perché. Forse il poveretto era già deceduto.
Vero, ma quando erano con Cassin andavano tutti dietro.
Dimenticavo:
– prima ripetizione della via OPPIO al Croz dell’Altissimo in Brenta. Bonatti c’era ma era da secondo dietro Oggioni!!
E sempre con Oggioni la ripetizione della Cassin alla Walker.
Vegetti ti dimentichi qualcosa:
Con Mauri le invernali alla Cassin alla Ovest di Lavaredo e alla Comici alla Grande e le solitarie in parallelo lui sulla Mayor e Mauri sulla Poire.
Con Oggioni una su tutte (ma ce ne sono altre) la via diretta alla est del Maudit . E, purtroppo, il tentativo al Pilone.
Giusto per essere precisi.
33 Benassi. Con Mauri al G4, con Oggioni al Pilastro rosso e una spedizione sulle Ande prima di morire. Altro? Leggiti invece gli innumerevoli compagni di cordata di Cassin, tra cui (a caso) Comici, Mary Varale, Corti, Dell’Oro, Tizzoni, Esposito, ecc. ecc….
30 Vegetti. Non è vero che Bonatti non arrampico mai con altri di pari suo.
Mauri e Oggioni non erano certo dei comprimari.
Beh ma Lacedelli alla fine non ha in qualche modo rettificato le versioni iniziali, dicendo quindi che Bonatti aveva detto il vero, o perlomeno avvalorando sostanzialmente quello che Bonatti aveva sempre sostenuto? O sbaglio? A mio parere la cosa interessante e’ proprio la rettifica di Lacedelli.
29# mati? …ma e quindi?Sai i milioni di copie che hanno stampato e venduto grazie alla polemica che poteva essere straevitata evitando versioni e posizioni granitiche ma false su come si sono svolti i fatti ,meno male che Desio non ha respirato l aria sottile per dirla alla Krakauer, sennò chissà che saltava fuori d’altra parte partendo da una regia che manomette lastre e referti medici per lasciar a casa piu potenziali galli ( e che galli!) da spedizione è tanto quello portato in fienile.
25 Fabio. Bonatti è stato un grandissimo alpinista. Stop. Io mi sono sempre chiesto perché non abbia mai arrampicato con grandi come lui ma sempre con comprimari: la risposta, la so, e la sai anche tu. Era un “duce” intollerante. Esattamente come Desio e come tutti i capi spedizione di quegli anni, Sulla dirittura morale, avrei da ridire o almeno da discuterne. Tra i suoi coetanei giravano (non pubblicamente) interessanti storielle… Non ero in vacanza, ma “in vacanza” da qui hahahahahah
@28, antoniomereu
Veramente proprio no. Vai nella biblioteca della tua città, consulta il Corriere della Sera del 28 settembre 1954 e vedrai esattamente la foto di Compagnoni in vetta con il boccaglio; proprio quella che secondo Marshall qualcuno fece di tutto per tenerla nascosta. Basta poco per verificare ed evitare di andare dietro alle speculazioni di Marshall. Poi basta leggere quello che ha scritto Marshall per vedere l’opinione che aveva degli italiani.
Veramente le foto del respiratore citate sono saltate fuori da un annuario alpinistico svizzero del 55..non so poi perché dare l attributo razzista in un contesto tale…chiudo qui l intervento.
“il fatto ( grave ) delle bombole che a detta di Compagnoni e Lacedelli non sono state utilizzate e mezze vuote…” non mi risulta che qualcuno abbia mai negato l’utilizzo delle bombole; quella dell’utilizzo fu una polemica successiva e comunque Lacedelli mai disse una cosa del genere. Magari l’ossigeno non finì, ma si bloccò l’erogazione a causa della formazione di ghiaccio, come successe a Norgay salendo sull’Everest. Oppure vi erano delle perdite nel sistema (non credo proprio che si siano messi a avvolgere le filettature col teflon).
Riguardo poi alle foto della cima, quelle che Marshall vuol far credere trafugate da qualcuno per non far sapere la verità riguardo all’ossigeno (erogazione con sistema a circuito aperto!), sono le stesse pubblicate nell’articolo del Corriere della Sera del settembre ’54. Se Desio, o chi per lui, avesse voluto nascondere qualcosa, proprio quelle doveva fornire al quotidiano a maggior diffusione nazionale? I ‘3 saggi’ manco la fatica di analizzare i documenti dell’epoca? Spiace che Bonatti abbia ripreso pari pari le stupidate di quel razzista di Marshall nei suoi ultimi libri
Aggiungo solo una considerazione ,anzi due chiarita la prima questione quota tenda che può e rimane una questione di lana caprina rimane la seconda… il fatto ( grave ) delle bombole che a detta di Compagnoni e Lacedelli non sono state utilizzate e mezze vuote fatto che e stato volutamente cosi posto in maniera parziale alla storia ,alla cronaca e agli appassionati di montagna dell intero mondo di allora e che ha aspettato anni annorum la lente d ingrandimento delle kommissioni kai sulle foto ricordo cima per chiarire che l ossigeno di Bonatti è stato determinante per l l’obiettivo di tutta la spedizione la vetta. La verità…quella di Bonatti non quella Bulgara è cosa assodata da anni oramai.
È bello però che venga riproposto il primo resoconto pubblicato allora perche comunque contiene un enorme fascino e importanza da ogni prospettiva lo si voglia leggere.
Grazie.
Caro Marco, innanzitutto bentornato dalle tue vacanze di un mese e mezzo (o due?), Dio solo sa dove. Noi invece qui nel GognaBlog a lavurà, lavurà, lavurà.
… … …
In quanto alla ‘faccenduola’ del K2, sappi che ho sempre considerato Bonatti un tipo autoritario, della serie: “Vi lascio liberi di scegliere: si fa come dico io oppure si fa come dico io”.
Spirito libero e allergico ai duci, mai sarei andato in montagna con un tipo del genere. Meglio un sentiero in solitudine.
Bonatti era pure assai permaloso. Per esempio, nel suo resoconto sulla traversata scialpinistica delle Alpi trascurò perfino di informare il lettore dell’esistenza di un’altra squadra concorrente, che giunse anch’essa alla conclusione. Perché tacque?
Bonatti criticò in modo sferzante (e, a mio giudizio, malevolo) la cordata di Armando Aste, reduce dalla prima scalata italiana della parete nord dell’Eiger. Perché la criticò? Perché essa aveva impiegato una settimana. Aste ribatté che fu una scelta ponderata: si arrampicava solo nelle ore piú fredde, per diminuire i rischi di caduta pietre.
Ricordo che Bonatti in precedenza aveva fallito sulla stessa parete, a causa delle scariche. E mi domando: il suo giudizio piccato dipese forse dal tentativo fallito?
… … …
Però Walter Bonatti era uomo di rarissima dirittura morale. Quando affermava una cosa, si può star certi che era quella: Lacedelli dixit.
Pertanto la sua versione di quei giorni sul K2 è assolutamente attendibile, oltre che, in molti punti cruciali, confermata dalle testimonianze degli altri.
——— DIFFIDA ———
Pertanto ti diffido formalmente dallo spargere maldicenze sul grande Bonatti. In difetto, sarò costretto a sfidarti in singolar tenzone, all’ultimo sangue, all’arma bianca (piccozza da cascata).
Fabio, 14. Hanno posizionato la tenda a una quota non pattuita? Pattuita 4000 metri più in basso, da gente che non era mai stata a quote più alte del Monte Bianco. Ma dai. L’han messa dove hanno potuto e saputo. Perché gli accordi erano anche che Bonatti e Mahdi portassero le bombole e riscendessero… Comunque sia, su questa storia persino il CAI di oggi di stupidaggini ne ha dette tante, compresa la “famosa” (famigerata?) Commissione dei saggi. Partecipai alla presentazione e nessuno dei signori seduti al banco rispose a domande semplici e dirette, non solo mie. Comunque, Bonatti ha SEMPRE litigato con tutti, a prescindere dal K2 (vedi il pilone centrale “rubato” dagli inglesi -“era mio!”)…
Ho letto di Tommaso Magalotti: “Mani da strapiombi”, anche la spedizione al Garshebrun IV ebbe le sue diatribe e dinamiche di gruppo…emerse con gli anni . Anzi penso che ogni spedizione nazionale o di associazioni Guide o club le abbia avute , piu’ o meno intense o esposte ai media. Anche chi e’ salito in solitaria, ha raccontato di avere allucinazioni, di vedere altre “persone” , ectoplasimi ..effetti dell’altissima quota. Quindi inutile attizzare retropensieri..
Albert l episodio che descrivi mi ha fatto venire alla mente l infanzia al asilo di Donald Trump l ex presidente hai presente?;infastidito dalle belle opere dei coetanei , gru, grattacieli edifici di migliaia di pezzi…le distruggeva per glorificarsene e apparire… così va il mondo.
19) ho visto 2 giovani nipotini giocare.Il primo ha eretto una costruzione alta e ardita con pezzetti di legno…una sfida alle leggi dell’equilibrio..il secondo con un ghigno ha dato unc olpetto , prima che l’altro facesse in tempo a scattarsi un selfie assieme al sui capolavoro.Va così.
Si è scritto e detto tanto.
Furono due grandi imprese. La conquista della cima, il bivacco tremendo di Bonatti.
I dissapori tra questi uomini appartengono alla storia. Ognuno ha sempre le sue ragioni valide.
Quando mi mandarono ad intervistare Desio, in occasione dell’apertura della piramide CNR, sua figlia si raccomandò di non toccare l’argomento. E io non mi permisi una parola.
Bonatti è sempre stato il mio eroe, ma non giudico né nego la grandezza di Compagnoni e Lacedelli.
Spiace solo vedere tutti ormai in pace, senza essere riusciti a riappacificarsi. Come mi spiace per Nardi, con il quale parlai, che non si riappacificò con Moro.
L’alpinismo è fatto d’uomini, alla fine come tutti. Le passioni hanno la loro influenza.
In piccolo anche in queste pagine.
Su quella cima non vi salirono solo quei 2 ma insieme alla bandiera idealmente un intera nazione che voleva dare un segnale forte al mondo una forma di riscatto e onorabilità che andasse ben oltre le gesta di quel pugno di alpinisti si usciva da pochi anni dalla guerra civile ,dalla seconda dalla parte dei vinti e da un ventennio nero…ma anche dentro e fuori quella spedizione ci dividemmo come al solito sappiamo fare …tipicamente e italicamente solo noi.
Amen
uno scritto di altri tempi che ha fatto un epoca
discussioni e discussioni e poi libri e libri
ha ragione Maria scrivendo che emoziona lo scritto quanto ha emozionato mè
tt quello che viene scritto riguarda Walter Bonatti …..certo un gran personaggio e alpinista…..ma no c’era solo lui
fin da ragazzo ho letto libri su libri riguardo la prima salita del K2
ho avuto modo di conoscere, tramite i personaggi che nel tempo lo hanno salito, tutti i particolari
ho avuto la fortuna di conoscere e pranzare con il signor Kurt Diemberger
poi ho salito il K2
………………………………………………………….
vuol dire per me che sono stato su quella vetta,,,,,,rispetto…..silenzio…..gioia e dolore….fantasmi buoni e cattivi che ritornano…ma rispetto per questa montagna e per chi ci è stato per la prima volta nel 1954
Sí, la tenda era troppo piccola e l’accordo non aveva senso. Questo fu uno sbaglio di tutti: Bonatti, Compagnoni, Lacedelli.
E allora, per rimediare all’insensatezza, che si fa? Si lasciano Bonatti e Mahdi fuori al fresco? Gli si dice di scendere alle dieci di sera, nonostante la situazione criticissima?
Lacedelli, nel suo libro “K2 il prezzo della concquista” scrive:
-” In 4 in tenda era impossibile bivaccare”
-“Infagottati come eravamo, Compagnoni ed io abbiamo passato la notte con le gambe fuori perchè tutti interi non ci stavamo”
-“Per dormire al IX campo in 3 avremmo dovuto tagliare la tenda”
Come ho scritto nel mio primo commento, la ricostruzione fatta da Compagnoni in questo articolo è un po’ adattata a quelli che furono gli avvenimenti. L’ipotetico accordo (se mai c’è stato) di dormire in 4 in quella tenda super-K2 (lunga 2 metri, alta 75 centimetri, larga 125 all’ingresso e 90 sul fondo) non aveva senso.
Che male c’è a chiedere scusa? Ego ferito? Umiliazione? Disonore? Addirittura!
… … …
“Scusa, Walter, ho capito di aver sbagliato. Non avrei dovuto fare cosí.”
Tutto qui. E forse non sarebbero nati rancori per il resto della vita.
Ma al mondo pochi sono cosí nobili d’animo da ammettere i propri errori.
Ricordo comunque che l’accordo era il seguente:
1) Posizionare la tenda a una quota INFERIORE a quella in programma.
2) Sistemarsi per la notte in QUATTRO nella tenda, piccola o grande che fosse.
La tenda, come sappiamo, fu invece montata a una quota SUPERIORE a quella in ptogramma.
Per tacer del resto…
… … …
Non criminalizzo Compagnoni né, tanto meno, Lacedelli.
Però sbagliarono, ciascuno con la sua parte di colpa.
E dopo non si scusarono.
Stiamo discutendo sul sesso degli angeli, mi sa.
Di bivacchi imprevisti (cioè senza tenda, senza saccopiuma, senza materassino, senza fornello, senza indumenti di scorta) ne ho fatti solamente tre in vita mia, per fortuna. Il primo, a diciannove anni, fu a 3500 metri sull’Aiguille des Glaciers (Monte Bianco), dopo un tentativo fallito sulla cresta Kuffner. Il secondo sulla cima del Pizzo d’Uccello (Alpi Apuane), a metà ottobre; fu il piú fresco. Il terzo, molti anni dopo, sulla vetta del Cimon della Pala. I primi due – ero molto giovane – mi servirono di insegnamento: la montagna è una maestra severa.
… … …
Sul K2 siamo però a quote stratosferiche, ben oltre la mia capacità di comprensione.
Ricordo comunque che la tragedia del 1986 sul K2 si innescò, a giudizio di Kurt Diemberger, a causa di un giorno perduto. Perduto dopo una pessima notte in una tenda sovraffollata, il che convinse tutti a posticipare di un giorno il tentativo alla vetta. Fu la catastrofe.
Per fortuna, mai fatto un bivacco imprevisto. Comunque non era previsto che bivaccassero in tenda in 4, ma che portassero su le bombole e poi rediscendessero al campo XIII. Poi magari in tenda ci starebbero stati anche in 4, però in quali condizioni si sarebbero ritrovati il mattino dopo? Messner nel libro “Il fratello che non sapevo di avere”: “Vero è che sul K2 al campo IX non sarebbe stato possibile trascorrere la notte in quattro in quella tendina. Troppo piccola”.
Se per il Guinness dei primati sono stati in 22 dentro a una cabina telefonica, sarebbero entrati in 4 per una notte nella piccola tenda K2. Magari seduti, ma se fa freddo e c’è vento ti stringi. Ma l’avete mai fatto un bivacco imprevisto? Mica stai tanto a programmare dettagli!?
La Rutkiewicz sugli 8000 a volte non portava né tenda né sacco a pelo contando che si sarebbe infilata dentro a quelli di qualcuno. Perciò.
La ricostruzione fatta da Compagnoni in questo articolo è un po’ adattata, ma comunque si leggono cose interessanti su cui bisognerebbe riflettere. Una su tutte, perchè raccontare di aver portato in cima i trespoli con 2 bombole vuote (non 3) e scrivere di aver fatto uso di simpamina se, come dicono i suoi detrattori, voleva rendere il racconto della sua salita più ‘epico’? Ad ogni modo nella tendina super-K2 sarebbe stato impossibile starci in 4 (già ci stavano a malapena in 2).
Quando e dove finì l’ossigeno è abbastanza chiaro, incrociando questo scritto con i racconti di Bonatti: Compagnoni: “Apertesi le nubi anche di sotto, ci voltiamo in dietro ed ecco, laggiù a picco, lontanissime, le due tende dell’ottavo campo…Poi ci rendemmo conto: l’ossigeno era finito”. Bonatti: “Ore 17:30… Due puntini lenti e continui procedono nell’ascesa…”. Con buona pace dei 3 ‘saggi, Marshall&c
Certo far parte di una spedizione cosi costosa ,condotta con spirito militare nei numeri(500portatori) e nazionalista nella corsa al primato assoluto ad Ardito Desio la nota stonata da presentare al rientro era da mal di stomaco …ma come il ” bocia ” della Mia spedizione osa sollevare il velo su quello che di solito un capo decide?La versione concordata da dare alla stampa non solo era falsa ma dava del bugiardo nelle azioni di Walter e questo credo sia stato il vero motivo della lotta personale di una vita perché in quanto a celebrità e padronanza delle sue doti alpinistiche future la salita al K2 fu “solo”un tassello , importante ma solo un tassello.La cima da raggiungere era la verità…
Personalmente nemmeno io credo nella predeterminazione dello spostamento del campo 9 e sopratutto credo anch’io che tutti abbiano dato il meglio in quella ormai lontana impresa come la logica morale di ogni alpinista( di alto) livello impone .
D altra parte se il modello di spedizione proposto in quegli anni fosse stato il futuro non si sarebbe estinto e trasformato nelle mini sped. leggere che anche oggi invece continuano ad esistere.
Nella storia i se non contano.
Io credo che Bonatti sarebbe andato in vetta senza ossigeno se avesse raggiunto la tenda ed avesse dormito dentro. E Madhi avrebbe forse salvato le dita . Leggere che in vetta si tolgono i respiratori dopo cosi tanto tempo che l’ossiggeno era finito in effetti lascia perplessi…
Lacedelli era uno scalatore eccezionale ma Bonatti dimostro’ di essere sovraumano nel sopportare la fatica e l’ambiente ( vedi ritirata dal Pilone Centrale). E comunque dopo 50 anni gli hanno dato ragione.
Peccato, se quella sera avessero dormito tutti e 4 in tenda, forse oggi avremmo 3 italiani primi sulla vetta ed un hunza ancora integro.
Ps
Commenti che lasciano il tempo che trovano….
Bonatti voleva mettere i suoi piedi sulla vetta ma era stato messo in altro ruolo dai piani di Desio. Secondo me aveva sperato che in qualche modo si sarebbe unito a Lacedelli e Compagnoni. Non credo che l’abbiano escluso di loro iniziativa e neppure che abbiano piazzato la tenda in luogo nascosto e volutamente diverso da quello concordato. In quelle condizioni credo che ognuno abbia fatto del suo meglio, incluso rispettare gli ordini di Desio. Ho conosciuto Lacedelli e l’ho sentito raccontare di quella sera diverse volte (una su tutte -la più dettagliata- dal suo amico Uberto Alberti del rif. 5 Torri) e la versione era quella descritta anche qui. E ha sempre detto che gli dispiaceva che Bonatti se la fosse presa in quel modo ma che lui era lì per andare in cima, come Desio aveva stabilito. Forse Bonatti aveva dellastii verso Lacedelli da quando gli aveva ripetuto la sua via al Capucin in poche ore. Ma Lacedelli era un arrampicatore fenomenale, e infatti…
Avevo visto il film.
Ma leggere questo racconto di questa ascesa fantastica emoziona di più.
Grandi Alpinisti!
1@ Albert nella rivista dell’ epoca manca solo la réclame (come si diceva allora) del detersivo che sarebbe poi servito lungo i 50 anni per lavar via l’unto o meglio l’onta che macchio’ l’Ordita Italica impresa…
A Bonatti quel che è di Bonatti…
Gli inserti pubblicitari in bianco e nero fanno quasi tenerezza.Di ogni genere di quei prodotti oggi esiste un’offerta ” esagerata”.