Relazione di Maura Benegiamo al Convegno Le montagne non ricrescono (Carrara, 16 dicembre 2023).
Estrattivismo: quale modello di sviluppo?
di Maura Benegiamo (ricercatrice dell’università di Pisa)
(pubblicato su 16dicembrecarrara.it)
Introduzione
Sono molto felice, ed emozionata, di essere qui e mi unisco ai ringraziamenti alle organizzatrici ed agli organizzatori di questa giornata, che ringrazio anche per avermi invitata. Mi presento, sono ricercatrice in sociologia economica e del lavoro presso l’Università di Pisa (1) e mi sono occupata di ecologia politica, conflitti ambientali (in particolare legati all’estrattivismo) e tematiche riguardanti la transizione ecologica.
Considero importante questa iniziativa poiché il tema dell’estrattivismo rappresenta effettivamente una questione cruciale, oltreché urgente, che coinvolge in maniera forte il presente e il futuro dei nostri territori, e che, più in generale, ha a che fare con le domande fondamentali che permeano il nostro presente e che riguardano il tipo di vita e di futuro che desideriamo per noi e per chi verrà dopo di noi.
Ho intitolato il mio intervento “Estrattivismo: quale modello di sviluppo?”, proprio perché considero importante situare la comprensione di questo fenomeno, e della sua evoluzione, nel quadro più generale del modello specifico di sviluppo capitalista che domina oggi il rapporto tra economia e ambiente, e quindi, il rapporto tra salute, lavoro e vita.
Il mio intervento sarà dunque strutturato in tre parti: inizierò fornendo una definizione generale di estrattivismo e tenterò di contestualizzare questo fenomeno nel panorama socio-economico globale oggi fortemente segnato dalla questione della transizione ecologica. Successivamente, proverò a mostrare in che modo questo modello di sviluppo presuppone e contribuisce a definire uno specifico modello sociale. Infine, mi soffermerò su alcune rivendicazioni dal basso, portate avanti dai movimenti sociali e climatici e la loro importanza per pensare un modello di sviluppo alternativo, nell’ottica di una transizione ecologica e sociale.
Definire l’estrattivismo
A cosa ci si riferisce quindi con il termine estrattivismo? L’estrattivismo può essere definito come “un modello socio-economico basato sulla rifunzionalizzazione dei territori a favore dell’estrazione intensiva o estensiva di una specifica risorsa, allo scopo di commercializzarla nei mercati globalizzati”.
Si tratta di una definizione costruita sulla base della letteratura, della mia ricerca empirica e dei molti casi documentati: rispecchia quindi una lettura comune di tale fenomeno. Questa definizione potrebbe essere ulteriormente completata facendo riferimento all’idea di una “presupposta separazione tra società e natura” che sottende questo modello di sviluppo, tale per cui natura e società sono intesi come due entità separate, esterne l’una all’altra. Di conseguenza sarebbe possibile agire nel quadro di una piena sottomissione della natura, che deve e può essere dominata dalla società, piuttosto che riconoscere i processi di co-determinazione tra questi due elementi. Si tratta di una questione su cui non avrò tempo di soffermarmi ma che opera in sottotraccia al mio intervento, e che vi chiedo quindi di tenere a mente.
Tornando invece alla definizione fornita, il suo interesse sta nell’esplicitare alcuni elementi utili a comprendere il fenomeno dell’estrattivismo. Anzitutto l’idea di “funzionalizzazione”, ovvero il fatto che un territorio sia concepito non in funzione di sé stesso, dei propri bisogni o dei bisogni dei suoi abitanti, ma in funzione dell’appropriazione di una risorsa specifica in esso contenuta, al punto che tale risorsa viene a confondersi con il territorio stesso, eliminando o entrando in contrasto con altri possibili usi di quel territorio, inclusi altri usi economici.
Ciò rimanda ad un altro concetto, quello di “incompatibilità” che, per quanto riguarda la questione ambientale accennata nell’intervento introduttivo, ha a che fare con la riproduzione stessa della vita in quel territorio. L’idea di “funzionalizzazione”, inoltre, rende chiaro perché il concetto di estrattivismo (che non l’ho specificato, ma è un concetto che origina nel contesto dei movimenti, in particolare in America Latina, e dei conflitti contro le grandi miniere a cielo aperto ed i “mega progetti”) è sempre più utilizzato anche in ambiti che non sono strettamente legati all’estrazione mineraria. Si parla infatti di “estrattivismo agroindustriale”, in riferimento in particolare alle grandi monoculture estensive, e si parla sempre più spesso di “estrattivismo turistico”. In quest’ultimo caso, la risorse che viene “estratta” è il territorio stesso, nella sua totalità, e in relazione alla sua cultura e alla sua storia. Ciò sempre nell’ottica di una monofunzionalizzazione che diventa l’unica modalità di pensare e organizzare il rapporto tra economia e territorio.
Il secondo elemento, che rientra nella definizione fornita, riguarda la finalità di tale processo di funzionalizzazione, cioè l’inserimento di una determinata risorsa nei mercati globali. Ciò permette anche di tracciare la differenza tra estrazione intesa come attività produttiva legata al territorio ed estrattivismo, dove la logica estrattiva non risponde più alle esigenze locali di chi abita e lavora nei territori, ma è subordinata a logiche economiche esterne, spesso finanziarizzate, quindi sempre più fluttuanti e sempre più incerte e imprevedibili, e soprattutto che sfuggono al controllo democratico e alla sovranità dei territori. Il terzo elemento riguarda l’intensità e l’estensione dei progetti estrattivisti, che richiama anche l’idea di grandi opere. Una nozione chiave, connessa a ciò, è quella di gigantismo.
La questione delle scale e della scala: mercati globali e gigantismo
Oltre ad averli elencati, è importante sottolineare come questi elementi siano intrinsecamente legati, ovvero si co-determinano l’uno con l’altro in maniera strutturale. In questo senso possiamo dire che l’estrattivismo è un modello che fa sistema: è sistemico. Ciò significa anche che l’idea di un estrattivismo sostenibile è in qualche modo un ossimoro, proprio a ragione della profonda interconnessione tra tutte le variabili che abbiamo chiamato in causa. Un modo per comprendere ciò è quello di mettere in relazione la dinamica delle “scale” con quella della “scala”, ovvero tra il gigantismo delle operazioni estrattive e l’estensione globale delle catene del valore, dei flussi di materiali e merci dentro cui sono inserite le risorse estratte. L’estrazione alimenta infatti un mercato delle materie prime e delle merci che, dentro un’economia capitalista, funziona solo quando è in crescita e soltanto quando è in espansione.
A tal proposito, vorrei mostrarvi un grafico tratto da un report dell’UNEP – l Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (2) – di dieci anni fa, che analizza l’estrazione globale di materiali dal 1900 al 2005. Il grafico evidenzia non solo l’aumento di 8 volte dell’estrazione totale in meno di un secolo, ma anche l’incremento maggiore che si osserva per i minerali da costruzione, cresciuti di un fattore 34, seguono i minerali e i minerali industriali di un fattore 27 e per i vettori energetici fossili di un fattore 12. Per quanto riguarda la biomassa (ossia i prodotti dell’agricoltura) è interessante notare come lo stesso documento rilevi una sorta di dissonanza tra un aumento generale della produzione e l’intensificarsi del problema della fame nel mondo. Oltre al fatto che una parte crescente di biomassa è destinata a nutrire gli allevamenti intesivi e alla produzione di energia cosiddetta “green”, il tema generale qui è quello di constatare che si produce di più, ma non per tutti (3).
Non si tratta, dunque, di riflettere solo su come le risorse vengono prodotte ed estratte (che è un tema centrale oggi), ma anche di capire per “chi” e per “che cosa” questo avvenga. Ossia, quali siano le finalità dietro ai processi di estrazione. Ed è un tema cruciale. Consideriamo per esempio la crescente richiesta di materiali strategici, incluso le cosiddette “terre”, in molti casi fortemente trainata da settori come quello militare e dell’aviazione, piuttosto che da finalità di transizione (4).
Ma la questione delle finalità che stanno dietro i processi estrattivi è importante anche per valutare i modelli di transizione ecologica, in particolare alla luce di un’idea di sviluppo economico incentrata sul consumo e sulla crescita. Interrogarci sul “per chi e per cosa” ci permette di fare la distinzione tra una transizione di mercato, che si limita a sostituire un tipo di produzione e consumo con un altro, ed una proposta di transizione e trasformazione di tipo sociale o socio-ecologica. Nel primo caso, non solo la domanda del mercato globale viene sempre inevitabilmente rappresentata come in crescita, per cui si sostiene il bisogno di estrarre di più, ma viene anche confusa con i bisogni sociali.
Ecco, io credo che nell’analizzare l’evoluzione del modello estrattivista questa differenza debba essere chiara, in particolare quando si sente enormemente parlare, oggi, della necessità di estrarre sempre di più in connessione con i nuovi materiali strategici. Quando ascoltiamo il dibattito circa l’apertura di nuovi siti estrattivi in Italia, della necessità di aumentare il livello di estrazione, bisogna quindi valutare se non si tratti di interessi privati spacciati per bisogni sociali. In questo senso, una sorta di cartina tornasole è capire se quando si discute di transizione ecologica lo si faccia unicamente in termini tecnologici, o in connessione anche alla trasformazione dei modelli sociali. Dobbiamo chiederci: perché la transizione è sempre una questione tecnologica e raramente una questione sociale? Perché il modello di transizione tende ad essere dissociato, per esempio, da questioni che hanno a che fare con la redistribuzione, oltre che con la democratizzazione dei modelli di produzione, cioè col porsi veramente la questione di come, per chi e in funzione di cosa produciamo?
Infine, sempre a proposito della relazione tra “scale” e “scala”, un elemento rilevante riguarda il progressivo declino dei gradi metallici nei depositi minerari e la conseguente necessità di aprire nuovi siti estrattivi e l’ingrandimento dei siti esistenti. Del resto il report dell’UNEP che abbiamo citato riconosceva già dieci anni fa che a seconda del metallo coinvolto è necessario spostare una quantità di sterili fino a tre volte superiore a quella di un secolo precedente, per la stessa quantità di minerale. Cioè parliamo di milioni di tonnellate di rifiuti minerari a cui ovviamente si somma tutto il crescente utilizzo di energia necessario.
Vorrei concludere questa parte dicendo che il rapporto tra il gigantismo e le scale del mercato si pone anche ad un altro livello, che è molto importante, ed assume ulteriore rilevanza nel contesto della transizione energetica, e cioè il fatto che la logica della globalizzazione non implica soltanto un’espansione dei siti estrattivi, ma permette anche di giocare in modo strategico le asimmetrie di potere tra i territori, in particolare tra territori più marginali e territori meno marginali.
Il modello estrattivo è infatti un modello che estrae in un posto per produrre e consumare in un altro. La dimensione delle scale gioca tantissimo su queste asimmetrie territoriali, le cristallizza, le solidifica, le amplifica. Non è un caso che i siti finanziari, le borse in cui la maggior parte delle imprese minerarie sono quotate (come la borsa di Toronto o la borsa dedicata di Londra) permettono, per esempio, di non fornire agli azionisti informazioni sugli impatti sociali e ambientali che avvengono in un territorio. Ciò sembra esprimere la consapevolezza da parte di questo settore di dover rendere opaca l’informazione su come opera. Se non ci fosse questa possibilità di distanziare tra di loro le comunità e le persone dentro catene del valore estremamente larghe e globalizzate, se non ci fosse questa possibilità di nascondere gli impatti (perché tanto gli usi avvengono in un altro contesto), probabilmente la situazione sarebbe differente.
Un modello sociale conflittuale e “di sacrificio”
Questo ci porta al secondo aspetto che vorrei affrontare nella mia esposizione. Ovvero la questione dell’enorme conflittualità che costituisce il modello estrattivista. Osservando l’Atlante della Giustizia Ambientale, un progetto creato dall’Università ICTA di Barcellona che registra il numero di conflitti ambientali nel mondo, ho selezionato alcune informazioni relative ai conflitti legati all’industria estrattiva. Questa immagine evidenzia un dato ampiamente riconosciuto tanto dalle organizzazioni della società civile che da quelle più istituzionale, e cioè che l’estrattivismo comporta un modello sociale altamente conflittuale, che inoltre è sistematicamente marcato dalla violazione di diritti umani e di diritti ambientali. Secondo i dati raccolti dall’ONG internazionale Global Witness (5), l’estrattivismo minerario, associato a quello agroindustriale, è il principale responsabile dell’assassinio di attiviste e attivisti che lottano per la preservazione dell’ambiente, dell’acqua e della terra in tutto il mondo. Stiamo parlando di numeri significativi: nel 2019, Global Witness ha registrato l’omicidio di 212 attiviste e attivisti, molte donne e soprattutto indigene. I numeri salgono a 227 nel 2020. E se facciamo i calcoli, si tratta di più di una persona uccisa ogni due giorni. Sempre secondo l’ONG il 60% di queste morti è legato all’industria estrattiva mineraria e al settore agroindustriale e ai conflitti che vengono generati in questi contesti.
Un modo per comprendere questi dati è connesso al termine che abbiamo richiamato all’inizio dell’intervento: incompatibilità. Incompatibilità infatti significa anche trovarsi di fronte ad un modello sociale di sviluppo che non può andare incontro a forme di mediazione democratica. Non c’è una contrattazione possibile quando due forme di vita su un territorio sono strutturalmente incompatibili, e quando la possibilità di rifiutare un progetto nel proprio territorio non è concessa.
Ma senza andare a menzionare i risvolti più tragici come l’assassinio di attiviste e attivisti, spesso condotto in nome degli interessi di imprese e multinazionali del nord globale, possiamo limitarci ad evidenziare alcuni elementi che ricorrono nel contesto dei conflitti nei territori estrattivi. Il primo è sicuramente la criminalizzazione del dissenso, che in qualche modo rappresenta la maniera strutturale in cui le proteste vengono trattate in questi casi. A ciò si lega l’accusa, ricorrente, allo Stato di agire come facilitatore delle imprese piuttosto che promotore di sviluppo locale. Infine vi è la questione dell’impatto ambientale, evidenziata in particolare dai conflitti attorno alla preservazione e all’accesso alle risorse idriche. Basti pensare che la pratica del drenaggio acido, cioè dei metodi di lisciviazione per la separazione chimica delle rocce, è stato indicato dall’ONU come la seconda questione ecologica più importante a livello globale dopo il cambiamento climatico (6).
Infine un ulteriore fattore spesso denunciato nelle proteste riguarda l’opacità degli accordi e del funzionamento delle operazioni estrattive. Vi sono moltissimi casi di conflitti estrattivi in cui le persone sul territorio scoprono quasi per caso il fatto che ci siano dei progetti estrattivi, o faticano a conoscere il numero di estrazioni concesse e ad avere informazioni sull’impatto ambientale. Come abbiamo detto, si tratta di un tema, quello dell’opacità, che in questo settore gioca un ruolo strategico.
Per concludere questa terza parte, vorrei quindi richiamare un altro termine che è entrato anche nel linguaggio ufficiale dalle organizzazioni internazionali per designare i territori segnati dall’estrattivismo: si tratta dell’idea di “zona di sacrificio”. Un termine che in Italia è stato utilizzato per il caso di Taranto, segnato dagli impatti dell’inquinamento industriale. Questi territori sono riconosciuti a livello globale come delle zone sacrificabili. Il concetto si rifà all’idea di un territorio dove i residenti sono chiamati a contribuire a un sacrificio collettivo. Il termine ha avuto origine nella guerra fredda, quando è stato usato per descrivere le aree rese inabitabili dagli esperimenti nucleari, e tuttavia è entrato sempre di più nel linguaggio accademico e istituzionale per parlare di un territorio in cui, appunto, si è stabilito che le persone che vi risiedono e la sua diversità possono essere sacrificate ai fini del mantenimento di un sistema economico, di mercato e di consumo.
Nel Rapporto del Consiglio per i diritti umani dell’ONU del 12 gennaio 2022 (7), dove viene definita Taranto tra queste zone di sacrificio, troviamo una definizione di zona di sacrificio molto eloquente, ve la leggo:
“la salute, la qualità della vita e un’ampia gamma di diritti umani sono compromessi apparentemente per crescita, progresso, sviluppo, ma in realtà lo sono per interessi privati degli azionisti e delle aziende inquinanti che beneficiano di maggiori profitti. I consumatori ne traggono vantaggio solo grazie a energia e beni a costi inferiori, e il prolungamento dei posti di lavoro dei lavoratori delle industrie inquinanti viene utilizzato come forma di ricatto economico per ritardare la transizione verso un futuro sostenibile, mentre il potenziale dei lavori verdi viene ingiustificatamente scontato. La continua esistenza di zone di sacrificio è allora una macchia sulla coscienza collettiva dell’umanità, e sono spesso create con la collusione di governi e imprese, rappresentando tutto l’opposto dello sviluppo sostenibile, danneggiando gli interessi delle generazioni presenti e futuri. Le persone che abitano le zone di sacrificio sono sfruttate, traumatizzate e stigmatizzate e vengono trattate come oggetti usa e getta, la loro voce viene ignorata, la loro presenza è esclusa dai processi decisionali e la loro dignità e i loro diritti umani vengono calpestati. E queste zone di sacrificio esistono in stati ricchi e poveri, nel nord e nel sud.
Parliamo di un testo delle Nazioni Unite, non di una definizione militante, dove il dibattito sulle zone di sacrificio è molto più critico, in quanto pronuncia la parola capitalismo e parla di colonialismo e di colonialità interna. Queste parole sono importanti perché sono portatrici di visioni antisistemiche molto più radicali, ma ho preferito, in questo contesto, fare riferimento ad una definizione che si colloca in una cornice istituzionale, che non possiamo accusare di radicalismo estremo. Eppure, già tutto ciò fa venire i brividi.
Fondamentale è anche il riferimento al lavoro: il fatto che le zone di sacrificio coincidano con territori che sono spesso definiti marginali, e che in quanto tali sono pensati come zone di sacrificio, mostra come il lavoro non è un’offerta, ma un ricatto, l’unica possibilità che viene concessa. Senza dimenticare che sono i lavoratori e le lavoratrici i primi ad essere esposti alle nocività di ciò che producono, di ciò che contribuiscono a estrarre.
L’idea di zona di sacrificio è importante anche perché, se ci soffermiamo un momento e prendiamo sul serio le analisi sull’andamento dell’economia globale, ci rendiamo conto che il modello di sviluppo che viene chiamato progresso, e che dovrebbe avere a che fare con la promessa di poter elevare la condizione sociale di tutti, è in realtà un modello “decrescente suo malgrado”, il cui peso si riversa sempre di più sulle spalle dei ceti medi, e ancora maggiormente sui più poveri. È un modello che sta aumentando profondamente le disparità sociali e con ciò le marginalità sociali e dei territori in cui tutti siamo potenzialmente a rischio di diventare oggetti di sacrificio.
Conclusioni: giustizia climatica e transizione giusta
In questa presentazione ho cercato di evidenziare come la questione dell’estrattivismo metta al centro la necessità di analizzare il “per chi” e il “per cosa”, non solo il “come”. Questo è fondamentale. Citando il teorico francese André Gorz, uno dei principali esponenti dell’idea di un’ecologia politica, non abbiamo bisogno di “riforme riformiste”, cioè di riforme che non cambiano la struttura del sistema, riforme che vogliono fare un po’ meglio o un po’ meno qualcosa che comunque non va fatto. Oggi le imprese estrattiviste stanno utilizzando la transizione energetica in maniera molto tattica, molto strategica, posizionandosi come degli attori essenziali all’interno di quel contesto, utilizzando l’idea che sono loro i soggetti che ci aiuteranno a fare la transizione energetica e ecologica. Ma è proprio questa retorica che deve essere contrastata e messa in discussione, e ciò può essere fatto a mio parere soltanto dal basso, e solo attraverso un processo di democratizzazione dei processi di produzione.
Proprio per questo, vorrei concludere il mio intervento citando due rivendicazioni che hanno assunto una dimensione importante nel contesto dei movimenti, in particolare dei movimenti climatici, dei movimenti giovanili per il clima, e anche nei movimenti del lavoro. Il primo termine è “giustizia climatica”, il seconda è “transizione giusta”.
La parola transizione giusta è una parola che nasce nel contesto sindacale e che ha a che fare con l’idea che il lavoro e i lavoratori non possono essere lasciati indietro nella transizione ecologica. Il dibattito istituzionale sulla transizione climatica è sempre stato pensato come una questione che non prevedeva, né necessitava un piano di negoziazione con le parti sociali. Non possiamo invece fare a meno del punto di vista dei lavoratori, non solo per pensare assieme il futuro del lavoro, ma anche qual è il lavoro del futuro, ossia il modo in cui vogliamo lavorare, per chi e per cosa. Si tratta di una questione imprescindibile. La questione della giustizia climatica invece si collega alla questione espressa in precedenza: ovvero la necessità di differenziare che cos’è una transizione ecologica sociale e cos’è una transizione unicamente per il mercato. La prima prevede tenere assieme la questione della disparità e della redistribuzione con la questione del cambiamento dei modelli di produzione e consumo, di affrontare in maniera unita questi due problemi. Non è pensabile di poter risolvere il problema ecologico senza risolvere il problema sociale, non lo è perché sono due problemi che sono strutturalmente connessi, e il caso dell’estrattivismo lo mostra in maniera esemplare. Se non ci fosse infatti la possibilità di giocare con povertà e disagio in maniera funzionale alle esigenze del mercato, il modello in sé andrebbe in qualche modo a cadere.
Spero di essere riuscita a fornire degli spunti utili alla comprensione di questo fenomeno e ad inquadrare il caso dell’estrattivismo in una cornice più ampia, all’interno di un dibattito che ci chiede di essere protagonisti.
Vi ringrazio.
Note
[1] Discorso tenuto in occasione della conferenza “Le Montagne non ricrescono. Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque”, 16 dicembre 2023, Carrara. https://16dicembrecarrara.it
[2] IRP (2011). Decoupling natural resource use and environmental impacts from economic growth. Nairobi: UNEP, p. 11. Disponibile all’indirizzo : https://www.ourenergypolicy.org/wp-content/uploads/2014/07/decoupling.pdf Ultimo accesso dicembre 2023
[3] Ivi, p. 10.
[4] Per un’analisi si veda per esempio: Hitchcock Auciello, 2019. A Just(ice) Transition is a Post-Extractive Transition, WaronWant and London Mining Network.
[5] https://www.globalwitness.org/ vedi report: Global Witness (2020). Defending tomorrow. London: Global Witness; Global Witness (2021), Last line of defence.
[6] Vedi: Marchildon, J. (2017). “The UN Has Called This The Second Biggest Environmental Problem Facing Our World,” Global Citizen, September 14. Disponibile all’indirizzo: https://www.globalcitizen.org/en/content/acid-drainage/ . Citato in Seas at Risk (2021). Breaking free from mining: A 2050 blueprint for a world without mining – on land and in the deep sea. Brussels.
[7] A/HRC/49/53: The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment – Report of the Special Rapporteur on the issue of human rights obligations relating to the enjoyment of a safe, clean, healthy and sustainable environment. Disponibile all’indirizzo: https://www.ohchr.org/en/documents/thematic-reports/ahrc4953-right-clean-healthy-and-sustainable-environment-non-toxic
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Comunque Aronte resiste, è rimasto li con il suo vecchio bivacco, circondato dalle ruspe resiste. Volevano buttarlo giù a rotoli per i ravaneti, come hanno sempre fatto con bidoni, copertoni e cisterne. Invece resiste assieme alla Punta Carina che gli fa da faro nella tempesta. Per quanto ancora? Non si sa perchè il male è potente.
L’avidità dell’uomo ha ridotto il passo della Focolaccia in un luogo infernale dove distruzione e puzza di gasolio regnano. Purtroppo non è il solo, non gli basta, vogliono tutto. L’aruspice Aronte non è riuscito a difendere questi sfortunati monti.
MG, da lui non lo sentirai mai: lui è coscientemente pro-sistema… E il sistema è quello di depredare, distruggere e fottersene del resto…
non è un caso che quel convegno si sia tenuto a carrara, epicentro di una attività distruttiva che negli ultimi 40 anni (Almeno da quando ne sono testimone diretto) ha devastato le apuane più che i mille anni precedenti. Il progredire dei mezzi e delle tecniche di escavazione e la rapacità in nome del profitto di pochi hanno condotto a situazioni non più sostenibili.
Lo scempio della focolaccia non ha eguali al mondo, credo, dove un intero passo è stato sventrato e il crinale abbassato di decine di metri con una colata di detriti (ravaneto) sul lato garfagnana visibile da chilometri di distanza. Inquinamento e distruzione delle falde, marmettola e altre amenità sono il contorno.
Allora le banalizzazione alla Crovella, che ha un concetto buono per tutto e tutti, ovvero il ritorno alla vita spartana, servono – more solito – a sviare la riflessione e tirare la palla in tribuna, mandando in malora l’ennesimo spunto serio di riflessione.
LA vita spartana, almeno per ciò che concerne le apuane , non c’entra nulla.
Semmai si tratta semplicemente di scelte di gestione del territorio che privilegino e tutelino la res publica di fronte a interessi meramente privati che, per il profitto di alcuni, stanno radendo al suolo beni, inestimabili, di tutti.
Tra l’altro, per un materiale, il marmo che non è un farmaco salvavita nè è insostituibile nelle costruzioni.
Ogni tanto tacere se non si ha nulla da dire o non si conosce il problema, invece di dar fiato alle trombe con i soliti tre sterili mantra, potrebbe costituire un valore.
Certo fare la TAC ad un problema come questo è utile per approfondire e divulgare ma siamo alle solite …come nella storia del cinema dove nella sala i primi spettatori provano ad entrare nella storia e nelle immagini dalla parte del telo, e/o aspettare una nuova proiezione per provare nuovamente ad entrarvi a farne parte .
Quello che viene proposto come un ” problema ” dagli spettatori paganti non lo è affatto per chi spende i frutti delle cave nei posti più esclusivi al mondo.
Non vedo differenze nella rapacità umana in giro per il pianeta e le grosse società assieme ai servi della politica calpestano ogni diritto e si girano dal lato opposto per non vedere l orrore chimico e i buchi che lasciano.
Mentre l’ ultimo nato tra gli adolescenti chiede l’ ultimo modello dello smartphone…
non sono così competente sulla specifica materia come l’autrice di questo intervento, che ho molto apprezzato. Dal mio punto di vista, ragionando terra terra, il problema è molto semplice. a differenza di altri “frutti” della terra, come i prodotti agricoli che si rigeneraqrno (oggi utilizzo un campo a grano, lo raggoglo, e domani utilizzo lo stesso campo a mais; oppure gli alberi da frutta ogni anno danno un nuovo raccolto, ecc ecc ecc) l’estrazione di minerali dal terreno priva il pianeta in modo irreversibile di una sua componente. chi si estragga silicio, carbone, terre rare è irrilevante: è un fuirto netto e non ricostituibile di componenti dell’ambiente. Nei secoli potevamo permettercelo. Ora siamo arrivati ad un punto in cui non possiamo più permettercelo, pena l’irreversibile danno all’ambiente che è il contesto dove viviamo. Come fare? occorre ridimensionare sensibilmente lo stile di vita, virare verso uno stile molto più spartano e semplice. Se cambiamo il cellulare con troppo frequentemente, alimentiamo questo processo. occorre invertire il processo, stroncandolo alla radice, cioè a livello di consumi finali. Saremo tutti più poveri, ma almeno saremo ancora vivi e daremo una chance alle generazioni future. E’ il succo della favola della cicala e della formica.