Extradiario – 22 (22-24) – Prima del Badile – 1 (1-2) (AG 1967-011)
(scritto nel febbraio 1968, salvo diversamente indicato)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
Viene il momento in cui uno deve decidere come organizzare la propria vita ed è giusto che prima sappia cosa vuole in realtà. Per molti non è grande sforzo, sono i genitori, la scuola e le amicizie che pensano per lui e lo catechizzano. Perciò quando un giovane riesce con maggiore o minore volontà a raggiungere quella meta che è la laurea, paragonabile soltanto a poche altre, ad esempio il matrimonio (da evitare), il servizio militare (da evitare), la prima esperienza amorosa (da raggiungere al più presto), l’automobile, quando, dicevo, ha in mano il famoso “pezzo di carta” che lo autorizza a chiamarsi dottore in qualcosa, ha in mano quasi sicuramente il fine e i mezzi della sopravvivenza.
Se questo giovane è realista non si preoccuperà molto quando, alle prime inevitabili disavventure, andrà “in crisi». La nube sarà passeggera, non rimarranno tracce e ci sarà poca sofferenza.
Se invece avrà spiccate doti di intraprendenza, attitudine al rischio e molto orgoglio, non gli sarà difficile superare lo scoraggiamento e servirsi nel migliore dei modi dei suoi studi.
Ma se invece, come disgraziatamente talvolta succede, la crisi gli arriva prima, allora sono dolori, perché c’è il rischio che della laurea se ne infischi, a volte a ragione, più spesso a torto.
8 dicembre 1967. Preparativi all’Arrête
Al tempo dei miei esami di maturità (1965), quando gli allievi erano duramente esaminati dai professori e quando il polveroso apparato dell’Esame statale provocava ancora una grossa percentuale di immaturi, salivo vie di estrema difficoltà, alternandole, con notti passate sui libri e pomeriggi sulle guide alpinistiche.
La sensazione di essere qualcuno mi fu data per la prima volta dal mio professore di lettere: ero il suo beniamino, mi riteneva «superiore» a tutti gli altri compagni di classe. Questo mi riempiva d’orgoglio e mi aiutava a non prendermela, quando prendevo voti inferiori a qualche altro. All’apparenza non mi davo troppe arie, anche senza avere troppa confidenza con nessuno dei maturandi, ma dentro di me ribolliva la volontà di potenza, di sopraffazione generale. Si fece strada in me la certezza di essere superiore.
La preparazione all’esame fu assai singolare. Studiai abbastanza, ma ero sicuro che fosse tutto lavoro inutile. La domenica prima delle prove scritte me ne andai tranquillamente con Gianni Calcagno a fare la prima dello Sperone delle Tablasses, nelle Alpi Marittime (vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/cinquantanni-di-maturita/); e il giorno precedente fu un continuo logorio mentale per creare una giustificazione filosofica alla mia ormai certa superiorità. Se gli altri si ripassavano le opere minori di Pirandello, con le annesse notizie di critica, se si appiccicavano le più remote e inutili formule di analisi matematica, io potevo tranquillamente stare in poltrona al cinema, con un pacchetto di sigarette in tasca, a erudirmi e ingegnarmi su un film di sesso. Se i vari Renzo, Cesare, Sergio, Lorenzo si facevano la merendina pomeridiana, preparata dalla mammina, perché «poverini è tutto il giorno che studiano e se non mangiano poi deperiscono e vanno agli esami pallidi come ostie”, io nel frattempo mi leggevo Così parlò Zarathustra nella biblioteca comunale.
Ero sicuro di essere promosso, non avevo il minimo timore dei membri della Commissione. Coscienza di vittoria che naturalmente esulava dai ristretti limiti della ragione, disprezzata anzi in compagnia dell’istinto, e si appoggiava sulla volontà.
L’inevitabile contrasto con la realtà era da me facilmente superato, meditando allora che, se anche nella pratica, nella quasi totalità dei campi, io non potevo dimostrare di essere il primo, per ovvie ragioni, ero superiore a tutti ugualmente, primo perché lo dicevo io, secondo perché non era necessario dimostrarlo ovunque e sempre. Univo quindi una bella dose di arroganza all’ignavia più degradante.
Oggi tutto ciò mi fa l’effetto di farneticazione: mi fa sorridere leggere su un mio quaderno di allora della “suprema manifestazione della coscienza volontaristica”. Chissà dove avrò preso a prestito simili frasi, mescolandole con le mie nebbie!
Ricognizione al Badile, 8-10 dicembre 1967. Il Pizzo Badile dal Sasc Furä
È evidente che con questi mansueti grilli per il capo, se avessi preso una stangata ci sarei forse rimasto un po’ male: invece andò tutto bene. Anche se, andando agli orali, avevo lasciato in segreteria lo zaino pronto per una settimana in montagna, sperando che non andasse troppo per le lunghe, perché alle 17 passavano a prendermi, riuscii a totalizzare un sette di media.
Non ero neppure soddisfatto di tale risultato. Consideravo la cosa di normale amministrazione. L’essere maturo non era poi un gran merito, era solo una conferma di cui non avevo bisogno.
In seguito mi accorsi che la prova forse aveva avuto i suoi lati positivi: potevo finalmente oziare. Ma la gioia di essere pigri e fannulloni credo sia purtroppo riservata a pochi fortunati, i quali, non certo grazie a elucubrazioni pseudofilosofiche, riescono a godersela. Per me non fu così: ho sempre odiato fondamentalmente il fare niente.
La scelta della facoltà universitaria mi fu negata dalle allora vigenti disposizioni della scuola italiana. Mi sarei volentieri iscritto a lettere, ma fu giocoforza per me, proveniente da un liceo scientifico, iscrivermi a ingegneria. Non sto a raccontare nulla di quell’ignobile esperienza che fu il mio primo anno accademico e non accennerò neppure al secondo. Basti dire che in due anni riuscii a dare solo Disegno 1° e che anche in questo non superai i 22 trentesimi. Al terzo anno tentai la strada della giurisprudenza e, dopo un inizio stranamente pieno di buona volontà (mi facevo scrupolo di seguire tutte le lezioni) che durò non più di un mese, mi convinsi che io non potevo studiare.
Era il momento dell’invernale alla Nord-est del Badile.
(scritto nel 1974, da Un Alpinismo di Ricerca)
(Ci fu una memorabile riunione nel ristorante di Lino Andreotti a Savigliano. Erano i primi di dicembre, Paolo Armando mi aveva invitato all’annuale riunione dell’allora ambitissimo GAM, Gruppo Alta Montagna, per discutere con gli altri membri un possibile aiuto al nostro progetto. In sostanza chiedemmo senza mezzi termini che venissero a farci praticamente da portatori: solo che lo chiedemmo ai migliori alpinisti torinesi e piemontesi patentati di quel momento… Non so cosa ci spinse ad avere quella faccia tosta, visto a distanza di così tanti anni quell’episodio ha dell’assurdo. E contrasta con l’assoluta buona fede con la quale parlammo perorando la nostra causa. Mentre va perfettamente d’accordo con il risultato. Aiuto? Zero assoluto… NdA).
8 dicembre 1967
Partenza da Genova alle 4 di mattina con Gianni Calcagno, per arrivare verso le 6 a Milano, in viale Stelvio 16. Appena arrivati esce dal portone Ettore Pagani, che ci accompagnerà in questi tre giorni di esplorazione alla Nord-est. Poco dopo arrivano anche Paolo Armando e il Condor (Alberto Risso). Tutti assieme con due auto verso la val Bondasca. Il tempo è splendido, perciò il morale è altissimo. Gianni ed io, sulla 500, perdiamo subito strada. Nessuno di noi due è mai stato oltre Lecco sul lago di Como e tanto meno a Chiavenna e in Bregaglia. Questi luoghi ci fanno un effetto molto strano: sembrano riflettere che non siamo solamente dei turisti. Passata velocemente la frontiera svizzera, arriviamo a Bondo. Nessuno ci presta attenzione, meglio per noi. Comperiamo qualcosa da mangiare nel negozio di Dino Salis. Siamo impazienti di proseguire, di alzarci in Bondasca, per vedere se ci sono altre automobili, dunque altri candidati alla Nord-est. Fa molto freddo, quindi abbiamo garanzia di bel tempo: siamo soddisfatti della piega che le cose stanno prendendo. Al cosiddetto Arrête, fermiamo le auto. Con la strada semighiacciata è stata una fatica salire fin quassù, circa a quota 1100 m, in questa valle deserta e gelida, esposta unicamente a nord. Il Badile si nasconde, coperto dal crestone del Sasc Furä. Si intravvedono solo i ghiacciai di Sciora e Céngalo.
Siamo soli, non ci sono altre auto. Il materiale viene completamente messo in mostra, per poter fare zaini più o meno uguali. Solo io e il Condor abbiamo gli scarponi doppi, gli altri se li devono ancora procurare. Le corde da fissare non le abbiamo ancora, ci sono invece gli zaini speciali. Manchiamo dei sovrapantaloni imbottiti, delle ghette speciali a stivale e di tante altre cose, per le quali non sappiamo se faremo a tempo per il 21 dicembre.
9 dicembre 1967, l’arrivo al Colletto dello Spigolo Nord del Badile
Nell’orgasmo generale e nel freddo pungente gli zaini sono finalmente riempiti. Sono più alti di noi, quasi. Ci avviamo lentamente sul tratturo, innevato e ghiacciato. Oltrepassiamo il bivio per la capanna Sciora e ci dirigiamo verso il Sasc Furä. Ci aspetta un dislivello di 800 metri, massacrante, su uno dei sentieri più ripidi delle Alpi, in fondo a un canalone incassato, con frequenti traversate e strappi ripidissimi. Ciondoliamo lentamente sulla neve e sul ghiaccio, aiutandoci con i bastoncini da sci e aprendoci la pista nella neve vergine. A poco a poco c’inoltriamo nel canalone, del quale in certi punti neve e ghiaccio non riescono a coprire il fondo sassoso, perciò spesso scivoliamo con i piedi ed evitiamo di cadere solo grazie ai bastoncini. Dove la pendenza aumenta si va perciò lentissimi. Ma finalmente ne usciamo, stravolti dalla fatica, dopo un numero imprecisato di soste per aver sollievo dal peso bestiale che trasportiamo, ben più di venti kg a testa. Ettore ci sta aiutando moltissimo e gliene siamo molto grati. Forse senza di lui avremmo fatto due viaggi.
Con un lungo traverso nei pini, su un pendio di neve durissima, ci spostiamo sul filo della dorsale. La seguiamo per un bel po’, fino a scorgere il rifugio. E’ aperto e ben tenuto, ordinato, preciso come un orologio svizzero. Entriamo e richiudiamo la porta con cura. Sono le 15.30.
Convinti che la benzina raffinata non gelasse che a -65°, subiamo il primo duro colpo. Con noi abbiamo infatti un fornello Borde a benzina perché sappiamo che quelli normalmente usati a butano al freddo non funzionano bene. Prendiamo le borracce in cui abbiamo messo la benzina e vediamo che è solida per metà. Versiamo una goccia sul pavimento, increduli, rabbiosi. Ma come è possibile che la benzina geli?
– Non è benzina, forse… versa una goccia e dalle fuoco.
Appena la goccia tocca terra gela istantaneamente. Al tocco della fiamma arde, spandendo il caratteristico odore.
– Ma… a che temperatura siamo?
– Mah… fa un freddo cane. Io dico -15°.
Scopriremo poi che eravamo a -30°. Infatti a St. Moritz negli stessi giorni, alle 6 di mattina, si erano registrati -24°, -22°, -24°. E St. Moritz è mille metri più bassa di noi, e di giorno è al sole.
L’incidente viene presto dimenticato pensando che, anche se la benzina gelava, la potevamo sempre scaldare con le candele!
Ci rimane ancora un’ora di luce, così Paolo ed io portiamo su due zaini pieni di materiale per ancora circa 300 metri di dislivello, ogni tanto affondando nella neve fresca, spesso camminando su neve da ramponi. Li abbandoniamo bene in vista, domattina li prenderemo. Scendiamo alla capanna con le ultime luci, a sorbirci la minestra che Gianni ci ha preparato.
La parete nord-est del Pizzo Badile dal Colletto sotto allo Spigolo nord. 9 dicembre 1967
Riferiamo delle condizioni di neve e del Badile. Infatti l’abbiamo finalmente visto, anche se solo per la sua metà superiore. E’ orrendo, pauroso. Una lastra di ghiaccio totale. Le condizioni però potrebbero essere anche peggio… alla fine diventano “buone”. ma finché non ci saremo sopra non si potrà dire nulla.
Per ora siamo già contenti di essere arrivati fin qui: nelle nostre meditazioni degli ultimi due-tre mesi, l’avvicinamento non è mai stato l’ultimo dei problemi, anzi.
Il resto della serata è passato allegramente, mangiando ciò che ci propina il cuoco Gianni, il quale sperimenta su di noi i suoi intrugli proteinici e vitaminici. La cucina a gas del rifugio, perfettamente in funzione, ci fa risparmiare benzina e tempo. Accendiamo anche la stufa e otteniamo quindi un certo conforto, anche se non si può certo parlare di lusso sfacciato. Verso le 21 ce ne andiamo a dormire, perché siamo un po’ stanchi e vogliamo essere bene in forma domani.
Prima della Nord-est
(di Gianni Calcagno)
Organizzare una salita invernale è una cosa sufficientemente difficile e abbastanza dispendiosa. Dover organizzare in questa stagione l’ascensione della Nord-est del Pizzo Badile è stato veramente complicato e, dopo aver osservato il colore costantemente verde delle nostre tasche, si può forse pallidamente immaginare il nostro stato d’animo pre-spedizione. Com’è nata l’idea della Nord-est? Certamente poteva solo nascere in una mente malata come quella di Paolo. Il seme gettato ha trovato subito terreno fertile, ed è germogliato in quella testa bacata che Alessandro porta a spasso da alcuni anni. Cosa certa che, parlandone col sottoscritto, avrebbero ottenuto un netto rifiuto…
Ma visto che il privarli della mia compagnia in una salita del genere li avrebbe riempiti di gioia… Trovare un quarto, non completamente sano, almeno di mente, non fu cosa difficile, perché Gian Piero Motti, di Torino, rispose subito affermativamente.
Come abbiamo incominciato? Me lo sono domandato spesso anch’io. Forse da una lista lunga a non finire. Corde, chiodi, moschettoni, sacchi da recupero, scarponi doppi… è impossibile! Dove li prendiamo i soldi per tutto quel materiale? Sovrapantaloni imbottiti, giacche a vento di nylon, sei o sette paia di guanti a testa, e ancora: sacchi piuma, calzerotti e guanti imbottiti, giacche duvet, tendine, soprascarponi… come si fa? Cosa mangiare? Cosa bere? E intanto il tempo passa. Si può vivere 10-15 giorni in parete? Dove si bivacca? Come si bivacca? Come si arrampica a -30°? Ma si può arrampicare a quella temperatura?
9 dicembre 1967. Gruppo delle Sciora dal Colletto nord del Pizzo Badile
Il gas liquido gela! Anche questa ci voleva! Facciamo un po’ d’ordine… l’insistente strombettare di un clacson mi riporta alla realtà: con un gesto ormai automatico innesto la marcia e riparto di botto. Se voglio finirepresto il lavoro, bisogna che mi sbrighi. Il conducente dell’automobile mi sorpassa e mi urla:
– Ma a cosa pensi?
– A cosa penso…? che il gas liquido gela, belin! Ma che importanza può avere se poi non mi concedono quindici giorni di permesso?
Benzina! Che scemo a non pensarci prima… La benzina non gela. Tra uno sbadiglio e l’altro mi addormento e non m’importa più niente neppure della benzina.
La domenica, riunione al vertice: ci troviamo al rifugio SEM al Pian dei Resinelli, in Grignetta. Si arrampica, ci si diverte e ci si allena; poi, verso sera, si discute. Si gettano le fondamenta. E’ Paolo a parlare:
– Il presidente della Falchi, Attilio Farina, ha una fabbrica di materiale alpinistico ed è disposto a fornirci gratuitamente una parte del materiale che ci occorre.
9 dicembre 1967. Paolo Armando assicurato da Ettore Pagani inizia la discesa dal Colletto Nord per raggiungere la parete nord-est del Pizzo Badile
Lo abbraccerei! Si profila all’orizzonte anche la possibilità di avere qualche centinaio di metri di corda. Una rapida puntata a Biella dalla ditta Bozzi&Fila ci conferma tale ipotesi. Due poderosi ostacoli vengono così polverizzati. Morale alle stella, ma siamo ancora in alto mare: ci mancano tutti i materiali di piumino, tutti i viveri, buona parte dei chiodi, moschettoni, vitamine, ecc. E anche quando avremo tutto? Come si farà a superare le placche della Nord-est? Come si arrampicherà sul V e VI grado con i ramponi? Come si vivrà in parete per tutto il tempo necessario? E se ci sarà bufera? Come si potrà tornare da una via quasi completamente in diagonale? E i congelamenti? E se qualcuno si ferisce? Troppe le domande, ben poche le risposte. Argomenti trattati in varie ore di conversazioni telefoniche con Alessandro.
Centinaia di domande, sempre le stesse, per settimane… assillanti… Ad una ad una collochiamo le risposte, il mosaico prende forma. Poi arrivano i pezzi più importanti: il permesso è una realtà, i sacchi piuma una certezza. Facciamo una puntata in parete per l’Immacolata. Tre giorni, la prova della verità. Ora bisogna giudicare e giudicarci senza presunzione. tre giorni intensi, indimenticabili. Il fisico rende bene, in parete si progredisce lenti, ma si sale. Sperimentiamo il bivacco in grotta di ghiaccio e vediamo che risulta buono, i viveri vanno bene, anche per il freddo, niente da dire. I -15° stimati si rivelano -30°, che però riusciamo a sopportare, a dispetto dell’equipaggiamento ancora incompleto.
Unica lacuna è il quarto matto. Forse colto da una violenta crisi di razionalità non si è fatto vivo all’appuntamento, anche se ci ha assicurato che sarà della partita al momento opportuno.
Lasciamo là in parete tutto il materiale pesante, poi torniamo a casa. Da questo momento inizia il conto alla rovescia. Il morale cresce ancora: ci arriva un ingente aiuto finanziario dalla Sezione Ligure del CAI, a dimostrazione di sincera amicizia da parte di molti soci. Ognuno arriva col pacchetto di chiodi, con paia di guanti. Perfino le giacche duvet ci prestano.
9 dicembre 1967. In discesa dal Colletto Nord per raggiungere la parete nord-est del Pizzo Badile
A questo punto dobbiamo pur dire dove siamo diretti, almeno che sappiano dove andrà a finire la loro attrezzatura. Incredulità, stupore?
– Già, ma se non ci andate voi…
Le corde non arrivano… tutto rischia di andare a bagno per le corde. Altra gara di solidarietà: più d’uno, col cuore stretto, ma senza bisogno di raccomandarsi, senza dire che è l’unica corda che ha… un gesto semplice, tanta amicizia.
Vigilia, finale giallo-rosa: arrivano le corde, ma Gian Piero rinuncia. Il Condor, visto che il clima molto rigido gli è congeniale, è ben lieto di sgranchire le alacce oltrefrontiera. Una lunga lista rappresenta il mese appena trascorso, una lunga lista trasformata in cinque zaini enormi: si parte per la grande avventura.
9 dicembre 1967
La notte trascorre tranquilla, sui tavolati sottotetto della capanna Sasc Furä, ma alle 4 siamo già in piedi. Chi più alacre, chi meno, chi attorno ai sacchi, chi attorno alla stufa, tutti si danno da fare.
Il problema più grosso è quello di disporre la roba negli zaini in modo razionale, cioè in modo da poter estrarre nel minor tempo possibile ciò che serve senza dover tirare fuori tutto. Ma ciò che di giorno non serve è la roba da bivacco, quindi il materiale più leggero. Ferro e corde andrebbero sopra i piumini, con forte sbilanciamento dello zaino. Non si può neppure pensare di mettere nei sacchi il materiale diviso in categorie. Chi infatti si assumerebbe il compito di portare tutto il ferro? Questi problemi devono essere risolti velocemente, con l’occhio all’orologio, alla pignatta, alle stelle in cielo, e con le mani fredde e gli occhi un po’ gonfi. Senza calcolare che ci sono due zaini già fatti a un’ora di cammino.
Pizzo Badile, parete nord-est, ricognizione 1a invernale. Paolo Armando si avvia alle rocce sotto al primo diedro (Rébuffat). Foto: Alberto Risso.
Il Condor attacca il pacchetto delle Peter Stuyvesant, Ettore le Nazionali. Io mi servo dall’uno e dall’altro. Il latte in polvere con il cacao e il miele, trasformati abilmente da Gianni in una bevanda buona, nel limite del possibile, ci soddisfano assai.
Viene l’ora della partenza. Usciamo dal rifugio con i ramponi ai piedi. Le stelle sono sicuro indice di bel tempo e lentamente saliamo in alto.
E’ questa l’ora in cui ognuno pensa per sé, cercando di scaldarsi i piedi, di tener calde le mani, di faticare il meno possibile. Ognuno vede se stesso di fronte alla Nord-est e si giudica molto severamente. Rivede le tappe già vissute, una volta molto importanti ma che ora sembrano esistere soltanto in funzione della preparazione alla nuova tappa. Però l’animo rimane tranquillo, nessun tumulto del cuore, anche perché la nostra è solo una ricognizione.
Raggiungiamo i sacchi con le primissime luci, spegniamo le pile frontali. Nuova suddivisione, tutti devono avere il carico uguale. Qualche protesta, nessun spargimento di sangue.
10 dicembre 1967, ricognizione Badile. Di ritorno al Colletto Nord. Ben visibili le nostre tracce e la buca del Palace Hotel.
La nostra meta è il colletto che fa da base allo Spigolo nord. D’estate è frequentato sia dagli alpinisti che vogliono salire per lo spigolo, una bellissima via di III e IV grado, sia da quelli che vogliono salire per la parete nord-est.
Veramente la via originale non pasa di qui. Una cengia obliqua a destra, partendo dalla base della parete, raggiunge la zona del cosiddetto primo diedro o diedro Rébuffat. Invece, la variante Molteni-Valsecchi, attacca più a destra per un nevaio, raggiunge un cengione orizzontale e per roccette, obliquamente a sinistra, fino al primo diedro. Gli alpinisti provenienti da Sasc Furä salgono al Colletto dello Spigolo nord, scendono in arrampicata circa 50 metri e arrivano sul cengione orizzontale della variante Molteni-Valsecchi. Noi seguiremo questo tracciato.
Neve, neve, gobbe e roccette, uno, due canalini con strozzature. D’estate qui si va di corsa, noi arriviamo al Colletto circa alle 9. Ora tutta la parete èdi fronte a noi, nella sua più maestosa veste invernale. Il ghiaccio che tappezza disordinatamente le rocce si è disposto come un’enorme e fittissima ragnatela, dalla quale affiorano solo le rocce un po’ più verticali, cioè dove d’estate è impossibile passare. Assenza di vento, bianco, azzurro e grigio sono i colori dominanti. Di fronte a noi, e a fianco del Badile, il poderoso Canalone del Céngalo, il Pizzo Céngalo e le Sciora. A ovest invece la Punta di Sant’Anna e il Pizzo Trubinasca con il selvaggio accavallarsi dei seracchi del suo ghiacciaio. Ambiente terribile e mistico, sentiamo in pieno la potenza dell’ordine naturale. Potrei dire che ci sentiamo piccoli piccoli, ma sarebbe vero solo in parte. In realtà non vediamo l’ora di misurarci con la parete e di vivere la nostra avventura. A casa pensavo che forse, di fronte al Badile vero, ogni ardire mi sarebbe svanito subito. Invece mi accorgo che la mia energia e quella dei miei compagni sono in netto aumento.
Mentre stiamo trafficando attorno ai sacchi, sul Colletto a quota 2600 m circa, con le mani accuratamente protette dalla lana e cercando di fare ogni lavoro con i guanti, il Condor se ne esce con un: – Ettore, ma tu hai il naso congelato!
10 dicembre 1967, ricognizione Badile. Di ritorno al Colletto Nord.
Questi frettolosamente si toglie i guanti, si palpa i baffi corazzati di ghiaccio e il naso, bianco e insensibile. Velocemente gli presto il mio passamontagna. Questo piccolo incidente ci dà la misura del freddo micidiale che c’è qui. Ettore decide di fermarsi lì e di tornare al rifugio nel pomeriggio.
Paolo intanto inizia ascendere sul versante opposto, in parete nord-est, assicurato dalla corda. La neve qui è molta e inconsistente. Se è tutto così, va a finire male… Finiti i 40 m, attacchiamo un’altra corda da 40, così lui può scendere per un canalino a 65° pieno di ghiaccio. Finalmente è sulla cengia, trasformata d’inverno in enorme pendio di neve, con tanto di crepaccia terminale alla base e all’inizio delle rocce. Per arrivare alle “roccette” che ci dividono dal primo diedro, occorre traversare circa 250 metri. I primi 80 abbastanza facilmente su un pendio a 45°. Sotto di noi ci sono 200 m di scivolo, fino al ghiacciaio. Seguiamo Paolo e lo raggiungiamo nel punto in cui ha deciso di scavare il buco. Il Condor e Paolo scaveranno e faranno spola con il Colletto, mentre Gianni ed io proseguiremo e piazzeremo le “fisse”.
Tutto il giorno dura la fatica degli alpinisti scavatori e facchini: alla fine però il materiale è in grotta, un buco abbastanza grande per quattro persone, che possono perfino sdraiarsi. Sul fondo è una mensolina di neve compressa per fare da mangiare, all’ingresso un telo di nylon per il vento ed eventuali slavine leggere. Alcuni picchetti d’alluminio servono ottimamente per ancorare sul pendio quel materiale che non patisce le intemperie.
Verso le 11 Gianni ed io partiamo. La prima lunghezza di corda è sempre su neve, non troppo dura e a neppure 50°, in traversata. Il secondo è un po’ più ripido. La sosta è su un gradino ricavato nel ghiaccio. Ora la piccozza incontra la roccia. Più in là però possiamo affondare un bel picchetto di un metro di lunghezza. Siamo leggeri, senza zaino, abbiamo solo le corde fisse da sistemare. Io ho gli scarponi doppi, Gianni no. Le gambe sono protette dalle mutande lunghe, i normali pantaloni di lana, calzettoni e ghette. Il busto da maglia a maniche lunghe, camicia, maglione pesante e giacca a vento assai leggera, neppure di nylon. Ma siccome non c’è vento stiamo bene. Chi però sta per più di dieci minuti fermo, alla fine batte i denti! Continuiamo la traversata, ora c’è ghiaccio scoperto e dobbiamo fare molta più attenzione. Un altro tiro da 40 m, altro picchetto lungo. In leggera discesa per 20 m, su pendio a 55°, poi mi arrampico su una specie di masso staccato, carico di neve e ghiacciato, che mi promette un buco di sosta. Infatti tra il masso e la parete c’è una bella cavità che la neve non è riuscita a coprire completamente. Eleggiamo subito il posto a magazzino. Gianni mi raggiunge e sistemiamo subito la “fissa”. Abbiamo incominciato a usare il cordino da 8 mm lungo 100 m.
Fin qui difficoltà classiche, quelle che si possono trovare d’estate su qualsiasi parete delle Occidentali un po’ famosa. Ciò non toglie che il nostro impegno già sia stato notevole. Dal “magazzino” c’è da scendere una cornice strapiombante di neve, traversare ancora qualche metro e arrivare così alle rocce che portano al primo diedro. Con un chiodo effettuo la traversata, sospeso sullo scivolo e sulle punte dei ramponi. Sulla Nord del Cervino di questi passaggi ce ne sono tanti, ma forse un po’ meno difficili. Di scatto attacco le rocce, che in realtà presentano scoperti solo i tratti verticali. Seguo quindi il ghiaccio e la neve durissima, cercando ogni tanto un appoggio roccioso per il piede e per la mano. Non scalino, per fare più veloce, ma farei meglio a farlo. Un chiodo a U mi assicura per il passaggio successivo, ma l’ho piantato nel ghiaccio più duro che ho mai visto. Per toglierlo Gianni faticherà non poco. Quando la corda non è ancora finita, mi fermo in spaccata alla fine di un bel camino intasato di ghiaccio. Metto due chiodi di fermata. Proseguo, sempre senza gradinare, su roccia e ghiaccio con pendenza a 65°.
Il sogno avverato. Al rifugio Gianetti, dopo la 1a invernale della Nord-est del Pizzo Badile, 3 gennaio 1968. Da sinistra, Gogna, Bournissen, Armando, Troillet, Calcagno, Darbellay.
Siamo in piena forma, scoppiamo di salute, vorremmo urlarlo alla Nord-est. Arrivo così, con 40 m filati, alla base del primo diedro. Lo spettacolo è impressionante. Chi ha sotto gli occhi, come noi, le foto di Rébuffat non può immaginare a cosa è ridotto attualmente questo diedro. Uno scivolo ininterrotto di ghiaccio nasconde ogni fessura, ogni rugosità. Una scorza spessa dai 10 ai 20 cm. D’estate è dato di IV e V grado. Pierre Mazeaud nel 1961 impiegò un giorno intero per questo ostacolo, poi tornò indietro. Gianni mi raggiunge. Riparto deciso. per un po’ si va, con ramponi e piccozza. Poi la scorza si assottiglia. Scavo alla ricerca di qualche chiodo o di fessure. Trovo quella di fondo. Martello un chiodo fino all’occhiello e mi ci assicuro. Proseguo. Due metri dopo, nuovamente le punte dei ramponi cominciano a tremare. Altro scavo e altro chiodo. Ma sono già le 16.30. Assicuro qui il cordino da 100 metri e scendo da Gianni. Siamo più che contenti del lavoro fatto: anche se il diedro Rébuffat non è superato del tutto, senz’altro è superabile, anche se estramente difficile. Il freddo lo sopportiamo… dunque possiamo proseguire.
Un richiamo dal Colletto, Ettore scende giù al rifugio. Lo salutiamo tristi, ci dispiace che se ne stia solo laggiù.
Anche noi scendiamo. Sul cordino da 100 m in doppia, poi sulle “fisse”, poi in traversata assicurati con un moschettone che scorre sulla corda. Dopo un’ora scarsa, già al buio, arriviamo alla grotta del “Palace Hotel”. Segue un concitato e serrato scambio di opinioni e impressioni. Tutti contenti e soddisfatti. Il Condor e Paolo forse sono un po’ più stanchi di noi.
(continua)
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Bel racconto avvincente.
Attendo la seconda parte!
Nel 2012 son tornato ancora d’estate e il diedro anziché un chiodo in alto (ho una foto del 75 con Giovanni e Palma) aveva due chiodi in più, alcuni friends incastrati e chi era davanti integrava ancora. Per un vecchietto come me è stato facile e veloce sul IV-V la mattina superare tutti 🙂
Le cose son proprio cambiate, chissà se si scala ancora con piacere e tanta gioia?
come è cambiato il mondo graze alla evoluzione della tecnica e dell’atttezzatura.
Oggi questa scorza di ghiaccio è la ciliegina sulla torta. Allora un vero problema che rendeva tutto più difficile.
grande accoppiata!!
sulle zolle di palero ghiacciato apuano c’abbiamo fatto di tutto.
Bravo Paolo. Diglielo che la Simond faceva le migliori piccozze mai viste. Chacal & Barracuda hanno aperto le porte del ghiaccio verticale. Oggi roba da museo.
Oggi è della Decathlon ma mantiene sempre un ottima qualità e prezzi abbordabili.
Una considerazione.
Guardando le salite per vie nuove e ripetizioni di vie di questi anni sulla nord-est del Badile in inverno, resto sempre sorpreso di come le tecniche di scalata e i materiali oltre alle condizioni della parete siano “mostruosamente” cambiate!
E quando prendo per una camminata la mia Simond rossa e blu tuttora bella, sorrido contento.
Avete fatto una cronaca descrittiva reale , avvincente , che automaticamente ti proietta in questa grandiosa impresa alpinistica , facendo partecipe colui che la legge con passione . Vi ringrazio .
Bello, ma un alpinismo proprio d’altri tempi!
Spero che venga capito anche oggi da qualche giovane.
E spero diventino alpinisti che sognano e realizzano “cose” così.