Francesco del Franco

Francesco del Franco
e la sua trentennale esperienza alpinistica

Lo scorso febbraio (in ricordo di Francesco del Franco, scomparso il 27 marzo 2015) è stato dato alle stampe un numero speciale de L’Appennino meridionale, il periodico della Sezione di Napoli del CAI da lui impostato e del quale è stato redattore per tanto tempo. Clicca qui per scaricare il pdf del numero speciale.

Data l’importanza della figura di del Franco, ottimo ponte storico-culturale tra alpinismo e attività in montagna appenninica o costiera, riportiamo qui due dei 25 capitoli del numero speciale. Il primo, di Pierroberto Scaramella, riassume bene la figura di del Franco, mentre il secondo è a firma di del Franco stesso (AG).

Francesco del Franco in arrampicata in Dolomiti

Dalle Dolomiti ai Faraglioni
di Pierroberto Scaramella

Gli esordi dolomitici
Fu lo stesso Francesco del Franco a raccontare gli esordi della sua passione alpinistica in uno dei rari momenti autobiografici affidati alla stampa. Il cambiamento del suo rapporto con l’Alpe avvenne per circostanze legate al suo mestiere di editore. Avendo deciso di pubblicare la traduzione in italiano di un libro del matematico tedesco Hermann Weyl, prese contatti con la professoressa Barbara Veit dell’Università di Roma. “La nostra collaborazione professionale ben presto divenne intensa amicizia, così nell’agosto ’83, terminato il lavoro, Barbara propose un viaggio nelle Dolomiti fassane, luoghi a lei cari per averli frequentati giovanetta con il padre. Pur non scalando, percorrevamo sentieri in quota, a volte impervi, in ambiente in qualche misura pure avventuroso e ciò mi affascinò. L’asperità dei luoghi, la loro solitudine, il contatto con la natura nel suo aspetto immediatamente selvaggio, erano esperienze che amavo già dalla frequentazione del mare di altura. Quell’estate non facemmo granché ma il seme era gettato”. Insomma, è in quel frangente che del Franco scoprì di preferire e di scegliere il movimento e l’avventura a un’esistenza quieta.

Nel 1986 del Franco iniziò a scalare prima su ferrate e poi su vie alpinistiche lunghe, pur se di modesta rilevanza tecnica. Tra le prime guide alpine che lo avvicinarono all’alpinismo, egli ricorda Renzo Favé, “un uomo di non alta statura, ma robusto”, responsabile del locale soccorso alpino e presidente della sezione fassana del CAI-SAT, con il quale si impegnò a scalare la Punta Penia per la cresta ovest, una via ferrata attrezzata durante la Grande Guerra. Fu in quella occasione che per la prima volta si misurò con la dimensione verticale, l’esposizione al vuoto, il senso dell’ascensione alpinistica. Lì comprese bene cosa significhi, per chi si muove su di una parete strapiombante, trovare e aggrapparsi a un appiglio come all’essenziale.

Francesco del Franco in arrampicata in Dolomiti

Per circa sette anni del Franco, assieme a Renzo Favé, scalò una cinquantina vie, di volta in volta più impegnative, come il Pilastro Piaz o la via Fedele al Sass Pordoi. Fu proprio da Favé che recepì i primi e sempre più approfonditi insegnamenti legati alla tecnica di scalata nello stile classico, misurando con oculatezza gli appoggi e gli appigli, nella conoscenza e nel rispetto dell’ambiente alpino.

Ma, soprattutto, quelle prime scalate furono lo spunto per stringere rapporti di fraterna amicizia, che soltanto l’esperienza dell’Alpe può dare, con i più famosi nomi dell’alpinismo dolomitico, di Cortina e della val di Fassa.

Accanto a Renzo Favé, tra gli altri, bisogna ricordare almeno Luigi Bibi Ghedina, conosciuto nel luglio del 1987 durante un’escursione al rifugio Pomedes, dislocato tra le rocce della Punta Anna, in Dolomiti. Sempre seguendo i ricordi personali di del Franco, possiamo identificare in quella arrampicata il momento di non ritorno nel legame con l’Alpe e il suo ambiente naturale e umano: “Il luogo m’impressionò tantissimo: dall’ampia terrazza prospiciente il rifugio si potevano ammirare tutte le montagne della Conca ampezzana e quel giorno, come se attendessero questa visita e volessero sedurmi, risplendevano in tutta la loro bellezza. Ne rimasi così affascinato che da quel momento la mia vita è cambiata, avendo deciso di dedicarne una cospicua parte alla gioia di soggiornare in quei luoghi straordinari”.

Ancora una volta il legame con la roccia e, in particolare, con le eleganti vette dolomitiche, si coniugavano strettamente con i rapporti umani. Con Bibi Ghedina, del Franco percorse tutte le tappe di avvicinamento e di formazione nell’alpinismo classico. Dalle semplici ferrate di Punta Anna, o dalla scalata alla Gusella di Passo Giau – vie di II e III – si passò ben presto alle ben più impegnative scalate di V e VI. Ma sin dall’inizio egli recepì non soltanto gli insegnamenti alpinistici propriamente detti, ma l’attitudine all’insegnamento dell’arte alpinistica, dalle manovre di corda alla progressione in cordata, dalle tecniche di sicurezza alle discese in corda doppia. Del Franco apprese quella che sarà una delle caratteristiche peculiari della sua personalità alpinistica: la capacità d’insegnare l’andare per monti aggrappati a una roccia. E fu proprio Bibi Ghedina a trasmettergli forse il primo e fondamentale insegnamento di pedagogia alpinistica: le prime scalate devono essere operate su vie facili ma complete, di più tiri, dove, anche se su gradazioni modeste, si possa acquistare dimestichezza con l’attrezzatura, la tecnica, l’abbigliamento, la mentalità alpinistica. Le “prescrizioni” ereditate da Bibi Ghedina sono state trasmesse a più di una generazione di alpinisti che Francesco del Franco ha formato. Chi ha arrampicato con lui ricorderà i suoi semplici insegnamenti riguardo il cibo. Durante l’arrampicata bisogna mangiare poco, magari frutta, e bere pochissimo perché: “più bevi, più sudi e più hai sete”. Per Francesco esistevano soltanto le mentine (le Polo, quelle con il buco) che offriva a ogni sosta, tra un tiro e un altro. Così le mentine di Bibi divennero in breve le mentine di Francesco, suo piccolo segreto che accompagnava gli insegnamenti concernenti l’abbigliamento (a cipolla e in fibra naturale) e naturalmente alle complesse tecniche dell’alpinismo classico.

Francesco del Franco in Dolomiti

Francesco del Franco fece sua al meglio la tradizione alpinistica dell’alta scuola dolomitica degli Scoiattoli di Cortina, della quale si sentiva – a ragione – uno degli ultimi allievi. E tra i suoi ricordi più cari ci saranno sempre quelli legati alle regioni alpine orientali e ai suoi primi insegnanti, sperimentando con loro le emozioni assolutamente inedite di una scalata, dove vigeva la legge suprema del “vietato volare”, e cioè dell’assoluta interdizione di perdere un punto di appiglio o di appoggio e cadere, anche se protetti dalla corda legata al primo di cordata.

Intendiamoci: “volare” restava per Francesco una remota possibilità, presente però nello spirito dell’alpinismo classico, vissuto all’insegna dell’avventura, con i suoi rischi e pericoli senza i quali anche il senso della purezza di una via alpinistica, e del suo tracciato, o il godimento estetico venivano meno.

Con Franz Dallago in cima alla Gusella per la via Dallago (13 agosto 1991)

Alpinismo classico a Capri
La fine degli anni ’80 e gli inizi del decennio successivo per del Franco – ormai alpinista esperto – si aprirono con una nuova stagione che caratterizzò tutta l’esperienza successiva. Egli infatti iniziò a mettere in pratica gli insegnamenti dolomitici su vie alpinistiche classiche ma con le radici immerse nel Golfo di Napoli.

Sino alla fine dell’Ottocento, e prima del successo turistico e mondano, l’isola di Capri era ancora chiamata “La Rupe de’ Disperati”, “uno scoglio entro mare … al pie’ dell’amenissimo promontorio di Surrento”. L’isola era vista come un sasso dal quale era sicuro “sfracellarsi o andare in abisso dentro al profondo mare che la circonda”.

Con l’alpinismo quelle rocce vengono riscoperte e reinterpretate. È noto che, agli inizi degli anni ‘30, il grande alpinista austriaco Hans Steger e la sua degna compagna di cordata, la fortissima Paula Wiesinger, visitarono Capri e, pur non trascurando il fascino romantico che l’isola offre con generosità, aprirono due vie, una all’Arco Naturale, l’altra al Faraglione di Terra. Personaggio poliedrico e dalla vita ricca e affascinante, Steger potrebbe essere considerato a tutti gli effetti un italiano, avendo vissuto quasi tutta la sua esistenza in Italia, in un lungo vagabondaggio all’insegna dei lavori più diversi: fu portuale a Genova, falegname a Roma, custode a Napoli. È proprio nel soggiorno napoletano che Steger aprì vie alpinistiche capresi, considerate oggi tra le vere più classiche dell’isola.

Francesco del Franco in arrampicata sulla via della Continuità alla parete ovest del Monte Alpi di Latrònico

Del Franco su una placca spettacolare del II tiro della via della Continuità al M. Alpi di Latrònico

Ma Steger non fu il primo a cimentarsi con quelle vie, e non è errato dire che i primi scalatori di quelle rocce furono proprio i capresi. Quando nel 1923 Cesare Capuis salì il Faraglione di Terra rimase infatti deluso dal trovare in cima vestigia umane.

Tra gli anni Trenta e Sessanta i più grandi alpinisti europei si cimentarono con quelle vie, e non pochi ritornarono in patria con vividi ricordi contraddistinti dall’unicità di una scalata classica vivificata dall’odore della macchia mediterranea, dal canto dei gabbiani, preoccupati di difendere i nidi, e dalle brezze marine del golfo napoletano. Una vera e propria scuola di alpinismo venne creata a Napoli da fortissimi arrampicatori che ripeterono le vie classiche, e altre ne aprirono nell’impareggiabile scenario caprese. Da Emilio Buccafusca ai fratelli Bruno e Riccardo Luchini, da Francesco Castellano ad Antonio de Crescenzo, Imma Boccadamo, Adolfo Ruffini, per citare soltanto alcuni nomi, una ricca pattuglia di alpinisti che si cimentò con quelle rocce, aguzze e friabili.

È merito di del Franco aver ripreso, recuperato e razionalizzato quelle esperienze, ripercorrendo le vie classiche, aprendone di nuove, e, soprattutto, creando un rinnovato rapporto tra l’ambiente alpinistico dolomitico e quello caprese. Furono anni intensi, da un punto di vista alpinistico, che diedero nuovo impulso alla conoscenza di quelle pareti rocciose. Le rocce capresi non erano più “La rupe de’ Disperati”. Francesco aveva dato vita, fiato e concretezza ai celebri versi di Pablo Neruda: Capri è ormai diventata “Reina de Roca”.

Sosta sul settimo tiro della via della Continuità al M. Alpi di Latrònico, 8 giugno 2003. Da sn.: Francesco del Franco, Luigi Ferranti, Laura Maschio, Rocco Caldarola

Da Cortina e dalla Val di Fassa sbarcarono a Capri rocciatori del calibro di Franz Dallago – compagno di mille scalate dolomitiche – Paolo Bellodis, Mario Moro Dibona, Enrico Majoni, Bruno Pompanin Dimai, Paolo Riz, Francesco Leardi, Luciano Lares Zardini, il bolognese Paolo Galli, mentre dal Sud vanno menzionati almeno i fortissimi alpinisti Luigi Ferranti, Rocco Caldarola, Lello Girace, Luigi Vuotto, Lorenza Ercolino, Massimo Iodice, Rosario Romeo, assieme ai presidenti del CAI sezione di Napoli Onofrio De Gennaro ed Enzo Di Gironimo.

Ma non si possono tralasciare le figlie di Francesco del Franco, Emilia e Diana, assieme a Pia Hullmann, compagna su per le cime e nella vita.

Instancabile inventore di eventi e situazioni, del Franco fu un vero e proprio traghettatore di esperienze alpinistiche, trapiantando l’etica dolomitica dell’andar per monti tra quelle pareti partenopee, e diffondendo in Dolomite un modello umano, e un sapere alpinistico che più di una traccia ha lasciato tra quelle comunità.

L’esperienza caprese, che culminò, nel 2002 con la pubblicazione, per i tipi dell’editore “La conchiglia”, del volume Alpinismo classico nell’isola di Capri, è il prodotto finito di quella impareggiabile stagione di vita, e quel libro, al quale Francesco era fortemente legato, non si configura soltanto come un’attenta guida alle arrampicate capresi, ma propone uno stile di vita, un modo di essere al tempo stesso originale, per non dire unico, e un modus vivendi profondo e al tempo stesso leggero e, per usare una sua espressione, “non banale”.

Da quelle pagine introduttive si deduce come del Franco non si sentisse mai isolato nelle sue peregrinazioni montanare, poiché forte era in lui il senso di incarnare una tradizione alpinistica che aveva profondamente assimilato, ma che aveva, in un certo qual senso, saputo stimolare e attualizzare.

Francesco del Franco in Dolomiti

Alpinismo come stile di vita
Ma cos’era per Francesco del Franco l’alpinismo classico? Certamente classico è qui da intendersi come scuola di pensiero che rappresenta un precedente, un fondamento storico e culturale di una scelta presente. Ma questa definizione non è certo sufficiente. L’alpinismo classico non è soltanto una vaga estetica dell’ascensione caratterizzata dall’abbigliamento, dalle tecniche di sicurezza e progressione, e, più in generale, dal livello tecnologico nelle arrampicate.

Secondo del Franco la storia ci ha mostrato come l’alpinismo, e più in generale l’”andar per monti” sia profondamente legato alla cultura, sia quella per così dire scientifica, sia quella umanistica. «Da un punto di vista tecnico – egli scrive – abbiamo definito l’alpinismo classico quella forma di alpinismo in cui non vengono utilizzati i chiodi a pressione (i cosiddetti Spit: ndr) o strumenti equivalenti né per la progressione né per la sicurezza. Caratteristiche di questo tipo di alpinismo sono la ricerca dell’avventura in senso lato, del rischio calcolato, la curiosità e la disponibilità al viaggio esplorativo. In questa prospettiva la fantasia, l’intuizione, l’esperienza dell’ambiente e della roccia sono doti necessarie per la scelta dell’itinerario di salita che, nel limite del possibile, deve soddisfare anche esigenze squisitamente estetiche».

Estetica e tecnica devono andare di pari passo con il rispetto per la montagna, e per la logica delle ascensioni alpine che mal sopporterebbero l’uso intensivo e ravvicinato dei chiodi a pressione, con conseguente utilizzo dei trapani e la foratura della roccia.

Ci si consenta questa breve divagazione per addetti ai lavori. Il chiodo a pressione era per del Franco, sulla scia di celebri nomi dell’alpinismo degli ultimi settant’anni, la negazione dell’arrampicata in stile classico, caratterizzata questa da chiodi conficcati nelle fessure naturali della roccia col martello, e assai distanti tra di loro, o da strumenti di sicurezza non invasivi, da recuperare a ogni passaggio.

In questo senso è giusto definire l’alpinismo classico quello che nell’arrampicata, utilizza, sia per la sicurezza sia per la progressione, unicamente le strutture naturali della roccia, dove posizionare i chiodi tradizionali, i dadi, i friend, ecc., escludendo rigorosamente i chiodi a pressione e altri strumenti a questi equivalenti.

In un saggio del 1968 dal titolo L’assassinio dell’impossibile Reinhold Messner individuava nel chiodo a pressione, e nell’abbandono dell’utilizzazione delle possibilità naturali offerte dalla montagna il vero colpevole, l’assassino di quei percorsi che, dichiarati “impossibili” erano poi stati superati, ma soltanto grazie a trapani, spit, buchi artificiali e irreparabili, sulla roccia. “L’impossibile in montagna è sgominato, il drago è morto avvelenato e l’eroe Sigfrido è disoccupato”. L’uso dei chiodi a pressione, per del Franco, non solo vanificava il concetto stesso di via alpinistica, ma sviliva anche un altro aspetto peculiare dell’alpinismo classico: la ricerca dell’avventura, del rischio calcolato, del percorso intentato. «Purtroppo non tutti gli assalitori di vette hanno capito che bisogna difendere i fattori fondamentali dell’alpinismo che sono l’incognita della scalata, la prova di coraggio, l’accettazione del rischio. Il chiodo a pressione elimina il rischio, elimina l’incognita, elimina l’alpinismo stesso».

«Fermo restando tutto ciò – scrive ancora del Franco – ogni alpinista classico sceglierà poi, come gli ingredienti e relative quantità per un buon cocktail, i mezzi artificiali da usare. Così ci sarà chi ricorrerà più o meno alla progressione in artificiale, chi preferirà la scalata in libera, chi userà pochi chiodi o nessuno, e chi vorrà una chiodatura continua; chi vorrà tentare vie al limite delle sue possibilità e chi a questo limite vorrà tenersi prudentemente al di sotto».

Cos’era dunque, alla fine, l’alpinismo, e l’alpinismo classico in particolare, per Francesco del Franco? Ecco le sue parole: «Credo che sia confortata dai fatti la conclusione, a cui è arrivato chi scrive, che l’alpinismo non sia riducibile a mera attività sportivo-ricreativa, ma costituisca un patrimonio culturale prezioso per configurare un non banale ‘stile di vita’, e che il legame tra cultura e alpinismo sia la chiave di lettura per assicurare a quest’ultimo un non precario futuro… Ciò che conta, credo, è che alla fine della giornata ognuno abbia realizzato un proprio progetto intimamente costruito, sulla base della conoscenza di se stesso, senza condizionamenti di mode, miti, velleità competitive ed exploit tipici della nostra società proditoriamente consumistica. Chi praticherà l’alpinismo con tale spirito, in qualunque modo e a qualsiasi livello di difficoltà, avrà in qualche modo contribuito al grande gioco dell’alpinismo propriamente inteso».

L’alpinismo per del Franco era infine la capacità di mettersi in gioco nella conoscenza piena dei propri limiti, e anzi una vera e propria filosofia del limite – saper conoscere le proprie attitudini, “sentire” il proprio corpo sottoposto alle sollecitudini dello sforzo atletico, raggiungere un’armonia fisica e mentale – può essere considerato il senso alpinistico profondo del suo andar per monti.

La montagna raccontata: il periodico L’Appennino meridionale
Sta scritto nel libro del destino che, tosto o tardi, l’alpinista cadrà vittima del furor scribendi”. Con una citazione tratta da Le mie scalate di Albert Frederick Mummery si apriva il bel volume di del Franco Alpinismo classico nell’Isola di Capri.

Ma con ogni probabilità la più completa esperienza di scrittore di montagna del Franco la ebbe con la fondazione e la redazione de L’Appennino meridionale. Periodico di cultura e informazione della Sezione di Napoli del Club Alpino Italiano.

L’idea di del Franco è stata quella di far risorgere un’antica testata, pubblicata per la prima volta nel 1899 come bollettino della Società Alpina Meridionale. La rivista, la cui redazione vedeva la partecipazione, oltre che dello scrivente e di del Franco, anche dello speleologo Umberto del Vecchio, del presidente della sezione CAI di Napoli, Enzo Di Gironimo, e del geologo e alpinista Luigi Ferranti, venne pubblicata tra il 2004 e il 2009, con cadenza semestrale, e una veste grafica che, nella copertina, richiamava alcuni periodici italiani del primo Novecento.

L’Appennino meridionale ebbe una vasta eco negli ambienti di cultura della montagna nazionali, e un successo dovuto, in parte, alla cura con la quale si affrontavano i diversi aspetti dell’andar per monti, dall’alpinismo in senso stretto alla speleologia, dall’escursionismo alla generica cultura montanara. Pur essendo intimamente legata con gli accadimenti relativi alle montagne del Sud, la rivista spaziava su tematiche che coinvolgevano questioni nazionali e internazionali, recuperando testi e dibattiti classici che venivano affiancati da opinioni delle più grandi personalità legate, per passione o per lavoro, col mondo della montagna. Così oltre che dello stesso del Franco, nel corso degli anni videro luce testi e opinioni di Paolo Bellodis, Sergio Valentini, Toni Valeruz, Silvia Metzeltin Buscaini, Mario Ravello, Luigi Bibi Ghedina per l’alpinismo, di Paola Milone, Marta Herling, Annibale Salsa, Francesco Bevilacqua – tra gli altri – per l’escursionismo e la cultura di montagna.

Ma accanto a interventi di importanti personalità appartenenti al variegato mondo della montagna, la rivista ripubblicò brevi saggi di intellettuali, alpinisti, letterati o filosofi che erano intervenuti, in tempi e modi diversi, sul tema delle montagne, e di quelle del Sud in particolare. Così furono riproposti, tra gli altri, scritti di Cesare Capuis, Benedetto Croce, Achille Ratti (Pio XI), Giustino Fortunato, Emilio Buccafusca, Pasquale Palazzo, Francesco Castellano, che apparivano accanto a preziose interviste agli eroi degli 8000 (Mario Dibona, Vivienne Cuq), agli alpinisti napoletani del periodo d’oro (Paolo Bader), agli speleologi che si erano distinti per memorabili imprese (Alfonso Piciocchi, Paolo Scandone), agli infaticabili escursionisti (Aldo Pireneo, Imma Benenato), ai fotografi e documentaristi (Tullio Bernabei), agli esploratori dei vulcani del mondo (Onofrio De Gennaro).

L’Appennino meridionale è il risultato di un doppio e fecondo innesto, di una cultura alpinistica dalla lunga e gloriosa tradizione, come quella dolomitica, con le rocce con le radici piantate nel mare di Capri e tra i monti del Sud. Per contro, attraverso la rivista, una raffinata cultura mediterranea invade il Nord, proponendo motivi e dibattiti, tanto classici quanto d’attualità. Una doppia natura alpinistica che, in fondo, era quella dello stesso del Franco, poiché è in lui che trova quella fusione originalissima. Egli è certamente stato una personalità carismatica, alpinisticamente molto amata grazie proprio alla capacità di apprendere un mondo, l’Alpe dolomitica, così distante dal proprio, di riscoprirlo e riproporlo al Sud, ma anche di proporre al Nord le proprie esperienze alpinistiche e umane, fatte di Faraglioni certo, ma anche di Monte Faito, di Gaeta o del Monte Alpi in Basilicata, animando così tutto l’ambiente alpino.

La copertina di un numero del periodico L’Appennino meridionale

La montagna è un signore che si serve in letizia
Una polemica che vide impegnati a distanza due letterati e alpinisti italiani, sono ormai molti anni, Dino Buzzati e Massimo Mila, aveva portato il primo a sostenere che il sentimento della montagna è essenzialmente triste. Mila rispondeva risoluto: «No. Ogni alpinista interroghi lealmente se stesso: la sua personale esperienza gli risponderà che la montagna è un signore che si serve in letizia». Chi ha arrampicato con Francesco sa che questa era una frase che gli era cara, e che ripeteva spesso (talvolta declinata al femminile: la montagna è una signora) ai principianti che portava in roccia per la prima volta così come ai più stretti e navigati compagni di cordata. Essa è, in filigrana, un po’ il tratto più intimo e distintivo con il quale viveva ogni esperienza montanara.

L’alpinismo di del Franco era cultura nel senso più ampio del termine, e conoscenza pratica, dove – è sempre Mila a parlare – “il conoscere e il fare sono un’unica cosa”. Questa simbiosi e identità del conoscere e del fare, facevano del suo alpinismo l’espressione più alta di uno stile di vita, segnata dal senso dell’avventura, dalla fantasia, oltre che dalla fruizione estetica, ecologica o sportiva. Non c’era per del Franco un solo modo di intendere l’andar per monti. Almeno in questo campo, egli sosteneva, deve mantenersi il più chiaro senso di libertà i cui limiti erano definiti dal buon senso piuttosto che da leggi scritte.

La fantasia, che ha sottilmente influenzato tante pagine de L’Appennino meridionale, sottintendeva un’esigenza umana che non può concepire né conoscenza né agire senza la sua ispirazione non intesa come una sorta di sostituzione del reale, ma come uno strumento per intenderlo.

Il senso dell’avventura, accanto alla fantasia, stimolava per Francesco del Franco la crescita alpinistica, culturale e umana. Questa ricca partecipazione interiore gli permetteva di superare difficoltà anche notevoli in parete con quella pazienza, quella tranquillità e quella dolcezza che chi ha arrampicato seguendolo per diedri, traversi e falesie, ricorderà come suo tratto distintivo.

E ancora, nessuna ebbrezza spirituale, nessun afflato misticheggiante è ravvisabile nell’alpinismo di del Franco, le cui qualità e caratteristiche peculiari, il cui stile e maniera erano e restavano tutte umane, e scevre da facili speculazioni religiose.

Con lui ha arrampicato, in tanti anni, veramente una folla variegata di personaggi, dai bambini agli adulti, dagli alpinisti esperti ai principianti e a coloro per i quali l’unica esperienza alpinistica è stata quella fatta a suo seguito. Tutti ricorderanno la calma e la lentezza della progressione, l’assenza di retorica, i consigli semplici, precisi e chiari. Del Franco insegnava che nell’alpinismo nulla deve esser fatto in fretta, e che l’esperienza e la prudenza devono sapientemente bilanciare la forza e il coraggio.

Centinaia di volte Francesco ha ripetuto vie che conosceva perfettamente, ma anche la ripetizione di una via gli lasciava un pieno senso conoscitivo, e ogni volta era un’esperienza nuova, poiché nuovi erano i protagonisti dell’impresa, principianti o esperti che fossero, indifferente alle distinzioni e qualificazioni onorifiche.

Esisteva come una sorta di fedeltà alle sue montagne, e una confidenza che gli permetteva di muoversi in territori anche impervi con dimestichezza e affiatamento.

Accanto alle scalate dolomitiche o capresi il ricordo più vivo che personalmente ho di Francesco del Franco sono quelle interminabili riunioni di redazione, dove si mangiava poco e si beveva moltissimo, riuscendo sempre a organizzare e rendere pronto per la stampa il materiale per il nuovo numero. L’impegno alpinistico si coniugava così bene con quello di redazione da diventare, nel tempo, l’uno corollario dell’altro. Ma proprio in quelle riunioni appariva più chiaramente lo spirito intelligente, ironico e limpido di un uomo generoso, quel suo tratto per così dire conviviale, la sua capacità intrinseca di stare in compagnia, il che, per chi era abituato a fare il solitario “primo di cordata”, non era poco.

C’era come un dono prezioso che la montagna gli suggeriva, assai più cospicuo dell’attitudine tecnica o della sicurezza di sé nella progressione in parete, ed era certamente la capacità di riunire accanto a sé gli amici, i compagni di cordata come quelli che richiamava al lavoro per la compilazione di un numero della rivista.

Quei momenti di riflessione, di serioso lavoro, sempre alternati allo scherzo e alle abbondanti bevute, erano indizio chiaro della sua fantasia sfavillante, e di una passione profonda per la vita, dove l’alpinismo in lui sembrava quasi raggiungere la percezione di far parte di una società ideale, partecipata, da proteggere quasi, e da vivificare sempre. In nome della montagna: un signore che si serve in letizia.

Francesco del Franco e la sua immensa biblioteca

Una storica salita sulla Nord del Sorapiss (20 e 21 agosto 1994)
di Francesco del Franco
(pubblicato sul sito https://www.guidedolomiti.com/storie-vere/via-muller-dimai-dibona/, qui riprodotto per gentile concessione del direttore Enrico Maioni)

Cortina, la Regina delle Dolomiti!”. Questo luogo comune, largamente utilizzato nella propaganda pubblicitaria non è infondato: Cortina sorge in posizione del tutto eccezionale nello straordinario ambiente dolomitico. Il sole la fa da padrone splendendo immancabilmente durante l’estate ma anche nei mesi invernali non è troppo avaro.

Questa sua assidua presenza gratifica soprattutto le signore in vacanza che possono esibire eleganti abiti con generosi décolleté quando si rifocillano in ristoranti raffinati o in comodi rifugi, dove si rilassano e si abbronzano di fronte allo spettacolare panorama della Conca ampezzana.

Ma c’è anche chi paga un prezzo per questa felicità climatica e siamo noi alpinisti, alpinisti classici beninteso, perché questa felicità è resa possibile dal fatto che le montagne sono lontane da Cortina. Tranne il Pomagagnon, la montagna di Cortina, lontane sono la Croda da Lago e le Tofane, molto lontane il Cristallo e la Croda Rossa, lontanissimi l’Antelao e il Sorapiss.

In arrampicata sulla via Müller alla Nord del Sorapiss

Ma la seduzione esercitata da queste splendide montagne per noi alpinisti è tale da indurci di buon grado ad affrontare, oltre la dura fatica di conquistarle, qualche disagio supplementare per raggiungerle.

Dopo lunga e assidua frequentazione delle vie di roccia classiche delle Tofane e della Croda da Lago, in compagnia di due miti dell’alpinismo ampezzano, Bibi Ghedina e Franz Dallago nell’estate del 1994 decisi di scalare le montagne “lontane”.

In questo progetto coinvolsi i miei giovani amici Paolo Bellodis, Mario Moro Dibona, Enrico Maioni e Luciano Lares Zardini.

Nel corso di una memorabile riunione alla Birreria Centrale ove, aiutati da un imprecisato numero di birre, dopo accanite discussioni nelle quali frequentemente ricorreva l’esclamazione «Oh perbacco», convinsi Paolo a scalare la via Dallamano-Ghirardini al Cristallo, Moro all’infrequentata variante di Bibi e Mescolin (Beniamino Franceschi) all’Antelao, Lares alla traversata della Croda Rossa da Carbonin alla Malga Ra Stua e… restava la punta Sorapiss che volevo salire per una via, suggerita da Bibi, considerata mitica nei primi decenni del ’900.

Questa via si presentava particolarmente complessa non per il grado di difficoltà ma per la sua lunghezza e per la qualità della roccia e del ghiaccio. Enrico, da vero gentiluomo, aveva dato la precedenza di scelta ai suoi amici, sicché alla fine era toccato a lui il boccone più duro da addentare. Infatti la via Müller-Dimai-Dibona non era stata mai percorsa né da Enrico, né dai suoi amici ma solo da Guide storiche come Bibi, Mescolin e Boni (Albino Alverà), che di questa scalata per altro avevano solo vaghi ricordi.

Francesco del Franco, Capri

Enrico in quegli anni era uno dei più forti arrampicatori di Cortina ma preferiva l’arrampicata atletica piuttosto che le lunghe vie di montagna. Perciò ho particolarmente apprezzato la sua decisione di accompagnarmi su una via che di atletico non aveva nulla, ma difficile da trovare. L’attacco della via è sul ghiacciaio Centrale del Sorapiss a quota 2500 m, quindi è obbligatorio pernottare al rifugio Vandelli, un vero rifugio alpinistico a quota 1900 m, punto di partenza per numerose scalate e punto di sosta per il giro del Sorapiss, escursione vivamente consigliabile.

L’accesso al rifugio avviene per comodo sentiero che si prende da Passo Tre Croci e qui la sera del 20 agosto ci accompagnò in auto Pia, mia buona allieva in arrampicata, soprattutto sulle rocce capresi e affettuosa compagna. Al passo Pia ci lasciò per poi, il giorno seguente, riprenderci dall’altro versante della montagna, al rifugio Scotter.

Con i gestori del rifugio ci intrattenemmo dopo cena per bere una birra e fare due chiacchiere. Enrico è tra i miei amici ampezzani di gran lunga il bevitore più morigerato tanto è che, malgrado le mie insistenze e le astuzie, suggerite dalla mia lunga esperienza per prolungare le bevute, non superammo le 10 birre, non a testa, che ancora sarebbe stato un traguardo onorevole, ma in due! Consapevole dell’impegno che ci attendeva l’indomani non opposi resistenza quando Enrico propose di ritirarci osservando scrupolosamente l’orario del rifugio.

Francesco del Franco sulla placca Steger del faraglione di Terra (Capri)

Saggia decisione, l’indomani alle 6.30 già arrancavamo sulla morena verso l’attacco 600 m sopra di noi che raggiungemmo alle 8.30; un attimo di sosta anche per sciogliere la corda e mettere i ramponi e subito ripartimmo. Il Sorapiss è una montagna immensa e la via Müller penetra proprio nelle sue viscere, tanto che, nel percorrerla non si vede panorama e neanche il cielo, se non quello spicchio proprio sopra di noi. La via non è tecnicamente difficile perciò mi meravigliò vedere Enrico affrontare con disinvoltura una paretina di ghiaccio piuttosto dritta, montare su un minuscolo pulpito, prepararsi a superare un piccolo strapiombo, già con la mano sinistra appigliata su uno spuntoncino di roccia, quando con un cupo tonfo il pulpito franò, Enrico rimase sospeso nel vuoto, lo zaino sulle spalle e senza per altro tradire sul volto la minima emozione, salvo una certa espressione di meraviglia. Istintivamente recuperai un po’ di corda, manovra inutile perché Enrico non aveva messo chiodi. Non so con quale artificio, Enrico riuscì a scendere i pochi metri che ci separavano e, guardando l’espressione preoccupata del mio volto, mi fece flemmatico: «Ma Francesco anche se fossi caduto erano pochi metri… al più mi sarei rotto un piede». Figurarsi: soli sul ghiacciaio del Sorapiss, lontani dal rifugio, senza facili possibilità di chiamare soccorso, con un piede rotto… Una ristata liberatoria, una stretta di mano e proseguiamo. Giunti quasi a metà salita osserviamo uno strano oggetto che pendola sulla parete di ghiaccio: sembra una specie di corda con strani rigonfiamenti.

Quando siamo vicini constatiamo trattasi di una corda di metallo lungo la quale sono disposte delle palle di ferro, su cui si erano formate abbondanti incrostazioni di ghiaccio che così, osservate dal basso, apparivano come “strani rigonfiamenti”.

Penso sia un’attrezzatura militare come se ne vedono moltissime nelle Dolomiti, triste testimonianza della prima guerra mondiale, la così detta “Grande Guerra”, una delle peggiori barbarie commesse dall’uomo, ma non è così: è invece, mi dice Enrico, un’attrezzatura predisposta dai primi salitori per agevolare la salita di quel tratto di ghiaccio un po’ più ripido, e a tal fine nella corda sono state fissate delle grandi biglie di ferro da usare come appigli e appoggi. Naturalmente non ci fidiamo e proseguiamo la scalata senza neanche toccare questa corda, lunga circa una decina di metri. Giunti all’estremità, infissa nel ghiacciaio, per curiosità verifichiamo la tenuta dell’ancoraggio e costatiamo meravigliati che è ancora solidissimo, sebbene siano trascorsi cento e più anni! Proseguiamo inoltrandoci per la grande parete interrotta da alcuni terrazzini.

Per l’ultima volta in discesa sulla via Steger al Faraglione di Terra (Capri)

Per chi apprezza le scalate classiche, la via Müller merita a pieno la grande considerazione che un tempo riscuoteva, posso testimoniarlo in tutta coscienza avendo compiuto in Dolomiti molte scalate classiche. Come dicevo quello che maggiormente colpisce di questa via è la grandiosità dell’ambiente in cui si snoda. Infatti a percorrere il dislivello, dall’attacco alla vetta, di 700 m (dal rifugio 1300 m) impieghiamo ben sette ore (nove dal Rifugio) ma ne è valsa la pena per l’interessante esperienza alpinistica che questa scalata ci fa vivere.

Giunti in cima, superfluo sottolineare la bellezza del panorama, festeggiamo con una calorosa stretta di mano e una birra gelata che aveva miracolosamente trovato posto nell’enorme zaino di Enrico. Poi senza indugio iniziamo la discesa per la via normale verso il rifugio Scotter, anche questa lunga, con un dislivello di 1600 m, che ci impegna per quattro ore.

Alle 19 siamo al rifugio accolti dalla proprietaria, e della nostra bella Pia che ci attendeva sin dal mattino. Facciamo onore al pranzo sontuoso preparato per l’occasione e brindiamo con un numero adeguato di birre questa volta anche Enrico non si attiene alla sua abituale sobrietà nel bere e partecipa senza remore alle numerose libagioni.

Con Enrico Maioni al termine della scalata sulla Nord del Sorapiss

Infine ci congediamo dagli amici che ci hanno così squisitamente ospitato e prendiamo la via del ritorno; vado per caricare nell’auto lo zaino di Enrico ma nel sollevarlo quasi perdo l’equilibrio e avverto un lancinante dolore alla schiena: lo zaino è pesante, molto pesante anzi pesantissimo! Incuriosito chiedo ancora una birra (ogni scusa è buona) e vincendo la ritrosia di Enrico apro lo zaino per vedere cosa mai contenesse.

C’era di tutto e di più ancora: un paio di ramponi di riserva, un lungo spezzone di corda, chiodi da roccia con relativo martello, chiodi da ghiaccio sia a vite che a percussione, scatola per il pronto soccorso e infondo addirittura un pesante “corpo morto”! Scolando l’ultimo sorso di birra, rielaboro con calma la paurosa scena di Enrico, aggrappato con una sola mano a quel minuscolo appiglio, i piedi nel vuoto e quel mostruoso zaino sulle spalle… Bravo Enrico!

Francesco del Franco (Roma, 2 agosto 1943) si è laureato in Fisica teorica all’Istituto di Fisica dell’Università di Napoli. Nel 1976 ha fondato la casa editrice Bibliopolis. Edizioni di filosofia e scienze (www.bibliopolis.it). Dal 1986 ha iniziato sempre più assiduamente a frequentare le montagne,  compiendo scalate in roccia nello stile dell’alpinismo classico. In estate, prediligeva le montagne dell’Ampezzano e dell’Alta Val di Fassa; durante le altre stagioni arrampicava nell’isola di Capri aprendo, insieme al compagno di cordata Lello Girace, alcune vie e “restaurando”, sempre attenendosi ai canoni dell’alpinismo classico, quasi tutte le numerose vie realizzate negli anni 1940 e 1950 dai rocciatori napoletani. Ha diretto insieme agli amici Umberto Del Vecchio, Enzo Di Gironimo, Luigi Ferranti e Pier Roberto Scaramella il periodico L’Appennino Meridionale. E’ morto il 27 marzo 2015.
(tratto da http://www.trafaraglioniedolomiti.it/, il sito di del Franco)

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Francesco del Franco ultima modifica: 2017-03-31T07:01:29+02:00 da GognaBlog

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