Giancarlo Dolfi è morto il 17 giugno 2019, a 89 anni. E’ stato uno di quelli che hanno reso speciali le Alpi Apuane.
Giancarlo Dolfi
di Elio Bonfanti
(pubblicato su planetmountain.com il 18 novembre 2016)
Foto: Archivio Giancarlo Dolfi
Vi risparmio la mia presentazione alla quale il Dolfi, non senza una iniziale e giustificata diffidenza, si sottopone. Le parole chiave per superare l’ostacolo si rivelano essere nell’ordine: Roberto Vigiani e Umberto Ghiandi, personaggi con i quali ha condiviso più di una scorribanda alpina.
Da ultimo, del Dolfi avevo sentito parlare da un altro alpinista Toscano, “Il Gallorini” (in Toscana si usa sempre mettere l’articolo davanti ad ogni nome), fatto questo che aveva già contribuito a rendermelo simpatico ancora prima di conoscerlo e di stringere la sua mano, che da sola è grande come due delle mie che… già non sono minuscole.
Combinato l’appuntamento, mi accoglie nella sua casa di Grassina vicino a Firenze, scendendo dal trattore. Ha 86 anni e mezzo e si lamenta che a causa dello slittamento di una vertebra sono tre anni che non arrampica. Per un istante provo ad immaginare come sarò io tra 34 anni, ma soprassiedo e penso che evidentemente il trattore lo usa per fare fisioterapia.
Ci accomodiamo in casa dove, in nome della ormai conquistata fiducia, lo lascio raccontare a ruota libera cercando di cogliere i momenti più importanti di una vita divisa tra la sua professione di insegnante di educazione fisica e la sua passione per l’alpinismo. Nel giro di cinque minuti già non ci capisco più niente, mi ha raccontato così tante cose di un periodo talmente breve della sua attività, che mi impongo di cercare di guidarlo, solo che non ci vorrebbe uno scalzacani come me a indirizzarlo ma un giornalista di professione.
Mi ero ormai arreso quando, supportato dalla sua dolce signora anch’essa insegnante di educazione fisica, nel racconto mi infila un: ho inventato la settimana bianca per le scuole! Al che cercando di riacchiappare il bandolo della matassa, tra l’incredulo e lo stupito, lo blocco e gli chiedo cosa volesse dire. Voleva dire esattamente quello perché sino ad allora (anni ’60) a livello didattico nessuno aveva osato tanto e, visto che doveva consegnare le relazioni delle attività svolte, il provveditorato degli studi, assunti i suoi dati, li estese a livello nazionale dando la possibilità a tutti di integrare le attività scolastiche con “la settimana bianca”.
I racconti alpinistici partono dal 1953 quando si iscrive alla scuola Graffer di Trento, allora diretta nientepopodimeno che da Marino Stenico. I primi anni della sua attività sono strettamente legati (e la corda ne è il suggello) al Melucci, con il quale nel 1958 diviene istruttore nazionale di Alpinismo. Il suo debutto da primo di cordata avviene del tutto casualmente in quanto, durante un tentativo della via Gervasutti alle Fiamme di Pietra del Gran Sasso, una défaillance del compagno gli impone di tentare da capocordata il primo tiro pena il ritorno a casa. Vi riesce, portando a temine la salita e, considerato che si trattava della quarta ripetizione, la cosa ebbe una certa eco. Insomma, fu un vero successo e la fiducia conquistata gli permise di riuscire nel 1955 nell’apertura della via Dolfi Melucci al Procinto. Itinerario questo già precedentemente tentato dal Melucci con un altro compagno, il quale, fortunatamente senza conseguenze, fece un bel volo.
Ormai il Dolfi inizia a farsi conoscere e la sua attività si divide tra le Alpi Apuane, il Gran Sasso e le Dolomiti. Proprio in queste ultime ebbe l’occasione di doversi ergere a paladino delle virtù femminili, difendendo un gruppo di giovani ragazze insidiate da un “giovinotto” molto esuberante. Lo acchiappa per gli stracci, lo rinchiude nella grotta dove alloggiava il mulo del rifugio Brentei e getta via le chiavi. Purtroppo per lui quel ragazzo (con cui divenne grande amico) era Cesare Maestri, il quale per “punizione” il giorno successivo lo fece girare nudo nei dintorni del rifugio.
Nel 1956 in cinque ore compie la prima ripetizione della via Oppio Colnaghi al Pizzo d’Uccello e nel 1959 ne effettua la prima solitaria senza utilizzare mai la corda… “Sai, l’avevo portata dietro ma fortunatamente non ho avuto bisogno né di lei e né del paio di chiodi che avevo appresso. Pensa, mi dice, questa salita era tanto ambita che addirittura Alessandro Gogna alcuni anni dopo mi confessò che aveva pensato e sperato di averne fatto lui, la prima solitaria”.
Ripete con Biasin la via Detassis al Crozzon di Brenta nel tempo record di 5 ore e ripete molte delle grandi classiche delle Alpi compiendo anche alcune prime di valore. Tra le quali la via sulla Torre Est del Vajolet insieme a Guido Ridi. Con la signorina Vittorina Frisman (che soccorse tempo prima sul Campanile Basso), ed insieme a Giulio Gabrielli, tenta senza successo una via nuova sulla Sud Ovest della cima dei Bureloni, parete che da Predazzo si vede distintamente e che con il Cimon della Pala e con la punta Vezzana costituisce un bellissimo gruppo di vette. Purtroppo dopo una dura giornata di sforzi in artificiale, la cordata dovette arrendersi per la mancanza del materiale adatto, ma i tre si lasciarono con il patto di tornare l’anno successivo a terminarla.
In una tragica giornata del settembre del 1959 in Marmolada, nonostante un’operazione di soccorso che coinvolse oltre al Dolfi stesso i più bei nomi dell’alpinismo locale da Stenico a Maestri, il Gabrielli scomparve. Per Giancarlo il patto restava valido, quindi in onore dell’amico decise di tornare sui Bureloni, questa volta da solo, ignaro del fatto che pochi giorni prima la via era già stata portata a termine dalla cordata locale formata da Scalet, De Lazzer e Marmolada. Sicché, a soli due giorni dall’apertura, dovette accontentarsi di dedicargli la prima ripetizione e la prima solitaria della via da loro incominciata. Sensibilmente emozionato mi soggiunge: “Non avevamo portato il perforatore e fuori dal diedro strapiombante non si passava, così quando ero tornato da solo mi ero portato dietro tutto l’ occorrente, ma già dagli strapiombi c’era qualcosa di diverso, non c’era più nessuno dei chiodi che avevamo lasciato la prima volta. Che strano, pensai, poi non senza alcuni patemi d’animo, una volta uscito da quella parte strapiombante, ecco spiegato il tutto, una fila di chiodi a pressione era lì a testimoniare che ero stato ‘fregato’”.
Oramai il Dolfi è veramente conosciuto, nel 1962 apre una via nuova sulla Rocchetta alta di Bosconero, scala molto spesso con Rolly Marchi, con Detassis, e viene invitato a Trento a far parte di un gruppo composto da 60 tra i migliori alpinisti dell’epoca. In quel periodo un “certo” Francesco Delladio di Tesero (il fondatore de “La Sportiva”, NdA) gli prese le misure per realizzare una scarpa da arrampicata su misura per lui, che un po’ sornione mi dice: “Chissà che le scarpette Mariacher non le abbiano poi prodotte su quella forma là…a me andavano a pennello!”.
Da istruttore Nazionale di Alpinismo cresce parecchie figure che diventeranno alpinisti di vaglia ed una su tutte è quella di Mario Verin del quale mi dice: un vero Fuoriclasse.
Il Rulli, invece, allievo della scuola Tita Piaz di Firenze, viene testato sulla Steger in Catinaccio e, superato l’esame, lo invita ad accompagnarlo al Procinto dove a furia di passare sotto alla parete est si era convinto si potesse salire. “C’ero già andato con il Melucci ed avevamo fatto il primo tiro poi, purtroppo, egli non riuscì più a venire ed allora mi risolsi di andare con Marco Rulli. Bivaccammo nella grotta di fronte alla parete, alle 8,30 si attaccò ed alle 19,30 eravamo in cima pronti a scendere dalla comoda via ferrata”.
I suoi racconti si dipanano veloci e passano dal tentativo al monte Nona poi concluso dai fratelli Vaccari, alla via Rosy sul monolito del Corno Piccolo al Gran Sasso, realizzata nel 1962 insieme a Gigi Mario. Questi in seguito al primo tentativo ci ritornò da solo e forzò il tratto chiave della via attrezzandolo con barre e fil di ferro arrotolato. Fatto ciò, richiamò poi il Dolfi e gli concesse l’onore di terminare la via in testa, in quanto questa era stata da lui vista e concepita.
Oramai è un fiume in piena ed ascoltarlo è un piacere, ma il tempo stringe ed ha un sacco di cose da fare tra le quali mettere al riparo il trattore perché ha iniziato a piovere.
Ma dai, Giancarlo, ancora un’ultima cosa, qual è la salita che in assoluto ti ha più segnato? Lui, senza indugiare nemmeno un secondo, mi risponde: la traversata solitaria e invernale delle Alpi Apuane, cime per le quali denuncio la mia ignoranza, non le conosco ed i loro nomi (pronunciati con l’accento Toscano) fatico persino a capirli.
La Roccandagia da Ovest a Est, la Tambura e l’Alto di Sella, chi le conosce alzi la mano, ma queste vette hanno lasciato un ricordo indelebile nell’animo di quest’uomo, il quale mi confessa: “Avrei sempre voluto scrivere qualcosa su questa realizzazione, ma ancora oggi tutte le volte che ci penso mi vengono le palpitazioni perché le apuane d’inverno “sono di molto” pericolose. Dalla vetta della Roccandagia dovetti scendere disarrampicando su ghiaccio, sino alla sella est con un baratro di 400 metri sul versante nord est che domina Campocatino. Risalii poi abbastanza facilmente la Tambura anche se le condizioni invernali rendevano il tutto quanto mai precario e aleatorio, sino al canale di accesso all’ Alto di Sella che, intasato di neve, non mi permetteva di poter arrivare alla cresta di questo colosso delle Apuane. Stetti un po’ a pensarci, poi decisi di attaccare la parete direttamente ma dopo qualche metro gli appigli rovesci mi respinsero. La caduta fu immediata ma la molta neve attutì l’urto e non mi feci nulla, allora dopo una serie di bei respiri piantai l’unico chiodo che avevo e riuscii a superare il passaggio, raggiungendo finalmente la cresta che dopo due chilometri mi portò fuori dalle difficoltà. Ora via, devo mettere dentro ‘sto trattore”. E con uno scatto da centometrista (alla faccia del mal di schiena) mi semina senza darmi il tempo di fotografarlo mentre doma il suo cavallo meccanico.
Mi sarei ancora fermato delle ore ad ascoltare le avventure di quest’uomo mite, modesto e moderno che con ironica leggerezza, ma soprattutto senza retorica, racconta le avventure di un’epoca a più oramai quasi dimenticata.
Grazie Giancarlo, è stato un privilegio raro poterti conoscere ed apprezzare.
Per ricordare… Giancarlo Dolfi
di Giuseppe Beppe Ocello
(pubblicato su alpinismofiorentino.caifirenze.it il 1 settembre 2020)
Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa per ricordare Giancarlo, visto che per oltre 20 anni abbiamo lavorato insieme nell’organizzazione di settimane bianche e verdi.
Non essendo assolutamente bravo a scrivere e ad esprimere sentimenti, sensazioni, emozioni che hanno caratterizzato questo lungo periodo di tempo, mi limito a raccontare un episodio nel quale, per me, c’è un po’ la sintesi di Giancarlo: l’estrosità, l’imprevedibilità, la testardaggine, l’allegria, la competitività.
È un episodio che mette insieme il piacere di andare in montagna, di stare in compagnia e di mantenere rapporti di amicizia con le famiglie ed i ragazzi che partecipavano alle settimane bianche.
Nel gruppo dei numerosi ragazzi che abbiamo avuto ai corsi, c’erano tre famiglie i cui figli e figlie si erano susseguiti negli anni nel partecipare alle nostre attività: tutte con tre figli, per cui la loro conoscenza si era rafforzata essendo proseguita per sei o sette anni di seguito e si era creato con loro un rapporto di amicizia.
Due di queste famiglie erano solite andare in vacanza in Valle d’Aosta, l’altra al mare. La scelta di andare a trovarle fu semplice: “… andiamo in Valle d’Aosta ?!.. Ok, andiamo!”.
Arriva l’estate ed arriva d’improvviso la telefonata di Giancarlo:”… domani si va, preparati!” “Domani?” – dico io -”Sì sì, domani “- risponde Gianca.
L’indomani, io in sella alla mia Aermacchi 350, lui con la Guzzi 850 con dietro zaini e tenda, siamo pronti a partire.
Faccio presente quale sia, per me, il percorso più breve e lui mi risponde: “Ma una puntatina in Dolomiti, no?“.
“Caspita” – rispondo, “ma sono dalla parte opposta!!”.
“Sì” – replica – “e s’allungherà un po’, ma si fa un’arrampicatina, poi ci si ferma dall’Angela al Pordoi e si sta due o tre giorni lì!”.
L’albergo dell’Angela era per me un luogo magico: le settimane bianche con gli studenti delle superiori fanno parte dei miei ricordi più belli dei corsi di sci.
I ritrovi serali con i ragazzi, quelli che più caratterizzavano le nostre settimane e che certamente sono stati un momento distintivo rispetto a quelle organizzate da altri gruppi, sono stati formidabili. Le scenette che preparavamo con Gianca – dall’“assiderato“ alla “motocicletta“, allo “zoppo“, al “sir“, al “dumbo“, – alle barzellette interpretate insieme agli studenti, alle cantate serali con tutti i ragazzi sotto le finestre degli alberghi vicini, alla formidabile “guerra a pallate “ a metà strada fra il Belvedere ed il Passo, fra i due alberghi dove avevamo i ragazzi, in una serata di luna piena con il luccichio della neve che aiutava ad illuminarci, sono ricordi indelebili.
Risultato finale: mi convinse!
Partimmo a metà pomeriggio e, dopo aver dormito in tenda dietro un cespuglio in un campo coltivato, finalmente arrivammo al Pordoi.
Naturalmente la mattina di poi eravamo già in parete ad arrampicare ed ecco un altro degli aspetti di Giancarlo: “… Beppe… e un mi ricordo più di dove si passa… e un ce la fò più… io provo di là … te fammi assistenza…”.
Potete immaginare che piacere sia stato il mio a sentire queste parole. Mi venne subito in mente la prova di “assistenza” che facevamo al corso di roccia dove, simulando la caduta di un compagno, dovevamo controllare il volo di un copertone lanciato nel vuoto per 10-15 metri. Pur essendo un semplice copertone di un’auto, molti di noi sono stati trascinati in terra dal contraccolpo, con conseguenti fragorose risate dei vari Valdo, Mario, Giovanni.
Il pensiero che non si trattasse di un copertone ma di un uomo di 75 chili mi mise in ansia, controllai i chiodi e sperai in bene.
Così fu e il salmo finì in gloria.
Il giorno dopo, altra arrampicata, questa volta, per fortuna, senza perdita di memoria da parte di Gianca e così, soddisfatto il desiderio di arrampicare, ci preparammo a partire per la Valle d’Aosta.
La mattina seguente appena svegli ci accorgemmo che aveva nevicato:
“… e adesso icchè si fa??”, disse Giancarlo.
Non si poteva certo partire in moto con la neve sulla strada.
Ci toccò aspettare fin verso le 11 prima di poter ripartire e poi scendemmo a valle a velocità ridottissima. Questo naturalmente aveva fatto sballare tutti i tempi di viaggio ed infatti arrivammo a poco più delle 3 di notte in val d‘Ayas. Ovviamente non potendo pensare di farsi ospitare da nessuno, né di cominciare a montare la tenda, tirammo fuori il sacco a pelo e dormimmo sotto gli abeti nel bosco.
La mattina dopo fummo accolti con sorpresa e con grande entusiasmo dalle famiglie che, dopo averci rifocillato, ci invitarono a seguirli in una camminata sul Testa Grigia, gita che avevano programmato da giorni. Non eravamo certo nelle migliori condizioni di freschezza, ma come sempre l’entusiasmo contagia e ti dà una gran verve e poi Giancarlo, alpinista per antonomasia, non poteva certo tirarsi indietro.
Durante il percorso ci divertimmo coi ragazzi ad arrampicarci su piccoli massi trovati lungo il sentiero, a cantare – come si sente la quota quando si canta ! – e con scherzi vari, tanto che i genitori erano stupiti della vivacità dei loro figli e nostra.
Dopo due giorni di camminate e di vita trascorsa con le due famiglie ripartimmo per Firenze: ho ancora viva l’immagine di questi ragazzi che seguitavano a salutarci, sbracciandosi finché ci hanno potuto vedere.
Per fortuna non ci fu nessuna variante al programma di rientro, forse Giancarlo era soddisfatto e forse un po’ stanco, ma sicuramente ambedue eravamo molto contenti! Ciao Gianca!
Intervista immaginaria a Giancarlo Dolfi
di Leandro Benincasi
(pubblicato su alpinismofiorentino.caifirenze.it il 9 ottobre 2020)
Leandro: Ciao Giancarlo, mi rivolgo a te, in punta di piedi e con molto rispetto, per chiederti se puoi rispondere a qualche mia domanda. So bene che questa mia richiesta può apparirti strana, visto che non sei più fra noi, ma io vorrei ugualmente fare questo tentativo, sempre che tu me lo permetta.
Giancarlo: Per me va bene, anzi, sono molto curioso di come andrà questa cosa. Però stai attento a te, perché ti prenderanno per uno un po’ fuori di testa.
L.: È vero, ma correrò ugualmente questo rischio. Come si dice? “Il rischio è il mio mestiere”.
G.: E allora vai, comincia.
L.: Benissimo. Però, prima di iniziare con le domande, vorrei farti i complimenti per il tuo inconfondibile stile di arrampicata. Se chiudo gli occhi mi sembra di vederti, attaccato alla roccia con braccia, busto e gambe a formare un potente arco. Si tratta certo di una posizione un po’ datata, ma veramente efficiente negli anni passati, quando si arrampicava con gli scarponi rigidi. Una posizione così solida e naturale, che davi l’impressione di essere un tutt’uno con la roccia e che niente poteva strapparti da quelle prese.
G.: Sì, è così. Mi è sempre venuto molto spontaneo muovermi in arrampicata. E quelle posizioni, che sembrerebbero studiate, mi venivano quasi automatiche. Anche sugli sci avevo una buona posizione, per me molto naturale, elastica e morbida, pronta ad assecondare il movimento.
L.: Devo aggiungere anche che eri un maestro non solo nell’arrampicata libera, ma anche nella progressione in artificiale. Raccontami un po’ di quest’ultima tecnica.
G.: Ai tempi in cui ho iniziato a praticare l’alpinismo, la progressione in artificiale mediante l’uso delle staffe era molto di moda. Questo metodo ebbe poi un ulteriore sviluppo con l’uso sistematico dei cosiddetti chiodi a pressione, che potevano essere infissi nella roccia anche laddove quest’ultima era completamente liscia, priva di fessure per accogliere i chiodi normali. Questo permetteva di superare le pareti più incredibili e gli strapiombi più spaventosi. Tra gli alpinisti più famosi nell’utilizzo di questa tecnica c’era Bepi Pellegrinon, nonché il mio caro amico Cesare Maestri. Anch’io fui attratto da questa specialità, e devo dire che ero piuttosto bravino…
L.: Verissimo, e certe tue vie, anche sulle Apuane, lo testimoniano. Ma raccontami dei chiodi a pressione che fabbricavi da te.
G.: Certamente. Ma più che una scelta, era una necessità. Eravamo nell’immediato dopoguerra e di quattrini ne circolavano pochi, figuriamoci se potevano essere sprecati in questa “inutile” attività alpinistica. E aprire una via in artificiale richiedeva l’impiego di numerosissimi chiodi a pressione, un patrimonio. Allora decisi di farmeli per conto mio. Prendevo un quadrello di acciaio, lo tagliavo in tronchetti di 5 o 6 centimetri e poi ci saldavo un quadratino di acciaio cui avevo praticato un foro del giusto diametro per farci passare un moschettone. Alle cave di Maiano ce ne sono diversi, sparsi su varie pareti. E se ben ricordo, ce n’è ancora uno sulla mia via sulla parete est del Procinto, la via Luisa.
L.: Sì, Giancarlo, c’è ancora. E per fortuna a nessuno è venuto in mente di levarlo. Non perché sia utile alla progressione, ma perché è la testimonianza di un’epoca. Ma già che sei entrato in argomento “vie”, cominciamo a parlare della tua attività alpinistica, che comprende sia ripetizioni di vie famose, sia apertura di nuovi percorsi. Racconta un po’.
G.: L’elenco è lungo e faccio fatica a ricordarmi tutto. Però di alcune salite conservo un ricordo incancellabile. E fra le tante, anche famose e che mi hanno poi dato notorietà, una in particolare resta nella mia memoria come salita tra le più impegnative della mia carriera alpinistica, dove ho rischiato la pelle. E non si tratta né della solitaria alla parete nord del Pizzo d’Uccello [via Oppio – Colnaghi], e neanche della solitaria alla cima dei Bureloni, bensì della traversata invernale Roccandagia – Tambura – Alto di Sella – Sella. Non mi vergogno a dire che in quell’occasione ho avuto veramente paura. La sicurezza era affidata totalmente alle proprie capacità, perché l’attrezzatura tecnica di allora era veramente scarsa. Avevo a disposizione un’unica piccozza, che era di quelle a lama dritta, priva di tenuta sulla neve ghiacciata, e ramponi Grivel vecchio tipo. Il tratto di discesa da Grondalpo, con il vuoto della parete sotto i piedi, fu spaventoso, e ancora più estremo fu il primo tratto della cresta dell’Alto di Sella.
L.: Ricordo che qualche anno fa, quando mi raccontasti di questa tua impresa e soprattutto di quanto ti aveva impressionato, rimasi molto sorpreso, trattandosi di una salita modesta se raffrontata a tutte le altre da te effettuate, anche in solitaria. Eppure ne conservavi un ricordo molto profondo e rispettoso. Ne prendiamo atto. Poi però ci sono tutte le altre.
G.: Ho un buon ricordo per le “prime” effettuate sulle Apuane, e che sono poi diventate delle classiche. Dalla più facile, come il pilastrino di Fociomboli, alle meno facili, come la mia via sulla Nord del Procinto salita con Paolo Melucci, ed infine come la già citata Luisa sulla Est del Procinto, salita con Marchino Rulli.
L.: A proposito di quest’ultima via, devo dirti che ancora oggi, a distanza di quasi sessant’anni dalla sua apertura, può essere considerata una via di grande bellezza e difficoltà, specie se fatta interamente in arrampicata libera.
G.: Poi sulle Dolomiti ho una prima sulla Rocchetta Alta di Bosconero e soprattutto la prima ripetizione (in solitaria) della Sud-ovest della Cima dei Bureloni, che mi valse la convocazione al Festival del Cinema di Montagna di Trento insieme ai più forti alpinisti del mondo. Ricordo che c’erano Bonatti, Zappelli, i miei amici Stenico e Pellegrinon, poi Navasa, Brandler, Hiebeler, Diemberger, Solina, Mellano, e tanti altri. E poi c’ero anch’io.
L.: Bellissimo! Complimenti Giancarlo. Però oltre a queste salite e le tante altre, vorrei che tu mi parlassi di un altro genere di ascensioni, che di solito non entrano nel palmares degli alpinisti, ma che sono da considerare ugualmente imprese alpinistiche di pari valore, se non di più: quelle relative ai salvataggi.
G.: A quei tempi non esisteva il Soccorso Alpino. Quando accadeva un incidente in parete, chi ne veniva a conoscenza cercava di raccattare il più in fretta possibile, tra i presenti in zona, dei volenterosi per le operazioni di recupero e salvataggio. Naturalmente dovevano essere anche sufficientemente bravi per essere in grado di affrontare le difficoltà di quelle pareti, spesso in condizioni meteo disagevoli. Anche a me succedeva spesso di essere chiamato, durante i miei soggiorni in Dolomiti, a fare queste operazioni. E con l’occasione mi trovavo fianco a fianco con i più forti alpinisti del luogo.
L.: Ora tu ce la stai raccontando come una storiella di poco conto, ma la tua modestia ti impedisce di dire che hai salvato delle vite umane. Ripeto: persone che erano date per morte e che invece, grazie a te e solo a te, alla tua caparbietà, hai voluto riportare a valle, salvandole.
G.: Sì, è così. Mi piace ricordare un caso per tutti: un’alpinista si era infortunata in maniera molto grave. Nella squadra di soccorso che la raggiunse, c’ero anch’io, vi erano persone che la davano per morente, spacciata, e pensando che non c’era più niente da fare, proponevano di buttarla giù. Io mi opposi con decisione, me la caricai sulle spalle e mi feci calare giù nel vuoto (per diversi tratti di corda) fino ai piedi della parete. E così questa persona si è salvata.
Ma ora sono stanco, non mi sento più di parlare. E non m’importa più nulla di quello che ho fatto o non ho fatto, Qui, dove sono ora, tutto questo mi appare veramente lontano. Mi resta solo l’amore. Solo l’amore.
L.: Scusa, Giancarlo, se ti ho recato disturbo. Ti lascio nel tuo nuovo mondo luminoso. E da alpinista ad alpinista, ti ringrazio per quanto ci hai saputo donare. Ciao. Grazie.
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Leggo con piacere di Giancarlo. Oltre che come compaesano, lo ricordo fra gli istruttori ai corsi di roccia alla gloriosa scuola Tita Piaz del C.A.I. di Firenze, negli innumerevoli weekend che ci portavano, oltre che in Apuane, fino in Francia, ad arrampiacre in Calanques. Qui, mentre io prima di attaccare mi prodigavo nel rileggere in francese le relazioni delle vie, lui mi toglieva il libro e mi invitava a seguirlo, così, ad intuito. Oppure quando, durante i viaggi di avvicinamento al gruppo di Sella, raccontava aneddoti ed avventure con i grandi dell’alpinismo dei primi anni ’50 del novecento. Sono passati oltre trent’anni ma il ricordo è ancora vivo.
Ciao Giancarlo.
Ho conosciuto Giancarlo e ci siamo frequentati in particolare per lo sci e lo scialpinismo con cui ho fatto varie salite in Apuane, Appennino e sulle Alpi. È stato un grande sostenitore delle settimane bianche dello SCICAI Firenze.
Per me è stato oltremodo una grande persona oltre che grande alpinista e scialpinista. Ciao Giancarlo!
Il Dolfi è un punto di riferimento per l’alpinismo Apuano, le sue vie sono ancora oggi molto apprezzate e ripetute per la loro bellezza. La sua più famosa la via Luisa o come tutti la chiamano la: DOLFI- RULLI sulla est del Procinto. Ma ce ne sono tante altre: sempre al Procinto, al Corchia , alla Torre Francesca. Veramente notevole la sua traversata in solitaria invernale.
Ho conosciuto anch’io il Dolfi ma la storia del soccorso in cui i suoi “soci” volevano buttare giù da una parete una donna ferita ancora viva, non l’avevo mai sentita????.
Veramente un bel personaggio e grazie per averlo ricordato con questo contributo.