Giusto Gervasutti, il Michelangelo dell’Alpinismo
di Gian Piero Motti
(pubblicato in Storia dell’Alpinismo) (GPM-SdA-30)
Nella storia dell’alpinismo vi sono degli uomini che giocano un ruolo essenziale e che riescono in un certo senso a catalizzare molta energia presente intorno a loro, tanto che l’analisi della loro vita permette contemporaneamente la comprensione di un’epoca e dell’alpinismo stesso.
Giusto Gervasutti (1909-1946) era friulano, infatti nacque a Cervignano il 17 aprile 1909. Leggendo il suo libro Scalate nelle Alpi, si comprende come già fin da ragazzino egli sentisse il fascino arcano dei monti e dei luoghi solitari e selvaggi, verso i quali si sentiva attratto da una forza magnetica irresistibile. Vi sono degli uomini per i quali il gran gioco del destino sembra svolgersi secondo una linea tracciata a priori e secondo gli schemi di un disegno che l’individuo non riesce più a padroneggiare ma soltanto a seguire. Se ci fu un’esistenza di questo tipo, questa fu quella di Gervasutti. Egli compare alla ribalta dell’alpinismo in un’epoca lacerata e convulsa, in cui la competizione caratterizza ogni impresa. Un’epoca in cui l’alpinismo è strumentalizzato da interessi politici e nazionali, che ne fanno uno strumento di pretesa supremazia di razza e di popolo.
Gervasutti comincia ad arrampicare nei suoi bei monti della Carnia e forse per sempre gli resterà il ricordo di quelle montagne un po’ magiche, dove la foresta, il torrente, il pascolo, la rupe, il vento ed il cielo sono ancora tali e riportano alla coscienza suoni ed immagini di un tempo lontanissimo e perduto, oppure produzioni fantastiche che appartengono ad un regno illusorio ed ideale. Comunque in Gervasutti troveremo sempre una fortissima nostalgia, una profonda melanconia ed un desiderio bruciante di qualcosa che trascende il terrestre, di un mondo che non è quello del pianeta, oppure che potrebbe essere quello del pianeta se le contraddizioni potessero essere risolte.
È troppo facile vivisezionare Gervasutti e dire che ciò era un derivato naturale del suo vissuto infantile, del rapporto errato che egli ebbe con la madre o forse con tutto il suo nucleo familiare.
Addirittura quello di Gervasutti potrebbe essere un caso da manuale, talmente è chiaro nelle sue linee e nei suoi particolari. La nevrosi di Gervasutti è perfettamente delineata: il suo disprezzo per il quotidiano, la sua incapacità di vivere la normalità, la sua incapacità di allacciare un rapporto stabile con una donna, il suo desiderio di infinito, il costante superamento di se stesso, l’impossibilità di vivere situazioni mediate, la paura della vecchiaia e della decadenza fisica, l’inconscio desiderio di morte. Chiunque legga le pagine di Gervasutti vi troverà con facilità tutti questi elementi.
Ma ciò è troppo facile. A dispetto di un vezzo attuale che vorrebbe spiegare tutto partendo dalla base del rapporto che l’individuo istituisce nei primissimi anni di vita con le figure materna e paterna, noi invece vorremmo spingerci un po’ più in là e vedere l’individuo non come un robot che giunge alla luce e sul quale vengono innestati dei relais, ma come un fascio d’energia che viaggia nel tempo e che passando attraverso strati materiali successivi indossa abiti diversi.
A noi interessa una cosa: il ricordo che affiora nella memoria dell’individuo che più di altri ha vissuto questi traumi infantili. A noi interessa il fatto che a causa di questi traumi i cancelli della memoria non si siano chiusi ermeticamente sospinti dalla rimozione, ma che vi sia rimasto uno spiraglio attraverso il quale filtra una lama sottile di luce, che come un laser va a penetrare con la sua forza distruttiva nel mondo del reale.
Giusto Gervasutti è l’uomo che condensa su di sé tutto il dramma di un’epoca e tutta la contraddizione dell’alpinismo. Si potrebbe dire che nel suo tentativo di fuga dal reale egli giunge alla paranoia. E questo è vero. Ma voler definire la paranoia anormalità ci porta negli schemi di un sistema che per salvare il salvabile ha dovuto definire ciò che è anormale e ciò che invece è normale, costringendo con vari mezzi consci ed inconsci a vivere nel normale. La paranoia è un modo di essere, è un linguaggio differente, è la possibilità del diverso. E tutto finisce qui.
Gervasutti forse disprezza i suoi simili e non li comprende. Gervasutti vola alto su ciò che intorno gli accade, sul fascismo, sulla guerra, sulle polemiche tra orientalisti ed occidentalisti, su chi dice che all’epoca molti erano più forti di lui, su chi dice che Cassin produsse un’attività superiore alla sua. Gervasutti come un’aquila sola e disperata fugge nel suo nido di rocce e forse lì diventa una colomba, lì ritrova per un po’ quella pace e quella serenità che al piano gli sono negate. Ma egli ritorna pur sempre al piano, e qui il gioco ricomincia da capo. Ma Gervasutti insegue ideali grandissimi, egli cerca la follia e forse non se ne avvede. D’altronde non è forse attraverso la follia che si giunge alla conoscenza?
Ma Gervasutti è ancora impegnato in una lotta feroce, cercando di vincere e distruggere quella parte di se stesso che egli odia e disprezza, in quanto tanto simile gli pare a quei modelli del piano che egli non ama. E con questa parte di se stesso si impegna in una lotta titanica che gli richiede tutte le sue energie e che lo porta fatalmente all’appuntamento finale della morte. Gervasutti non si è accettato, forse non ha compreso che quella parte di se stessi non può essere distrutta, ma deve essere capita, amata, deve essere fatta crescere, accompagnata e guidata verso il grande altopiano dove il sole non tramonta mai. Ma Giusto aveva la tempra del lottatore, era del segno dell’ariete e quindi non era certo facile alla resa. Giusto aveva lo spirito di un martire, sentiva il soffio della vocazione, avrebbe potuto essere un santone indiano. Ma forse in lui ribolliva troppo la coscienza di essere infinitamente più grande e più forte della misera condizione umana in cui si trovava ristretto: significativi sono il suo fiero disprezzo per il dolore, il suo atteggiamento di sfida con la morte e con il tempo, la costante commiserazione che ha di se stesso quando si scopre troppo debole o timoroso.
Dunque la storia di questo dio caduto dal cielo ed insoddisfatto di trovarsi uomo, ci interessa in modo particolare. È una storia che chiude tutta un’epoca in cui agirono ancora i seguaci del grande «cavaliere della montagna» Paul Preuss.
La guerra segnerà un netto punto di distacco e vedremo come dopo il conflitto l’artificialismo dilagherà inarrestabile, fino a giungere al punto di massima espansione.
Gervasutti è dunque un dolomitista, un arrampicatore della scuola orientale. Fisicamente è magnificamente dotato, è un atleta nel senso più genuino della parola, anche perché egli ha un culto del suo fisico ed attraverso la pratica di numerosi sport si tiene costantemente in allenamento perfetto. Tuttavia sulle Dolomiti egli più che altro ripete le grandi vie di sesto grado aperte in quegli anni, ma non apre un itinerario che, per esempio, possa reggere il confronto con la via di Cassin alla Cima Ovest di Lavaredo. Poi, nel 1931, egli si trasferisce a Torino e qui viene subito a contatto con l’ambiente alpinistico della capitale piemontese. Conosce allora gli esponenti più significativi dell’alpinismo occidentale del momento: il valdostano Renato Chabod, studente in legge a Torino, il valdostano Amilcare Crétier, spirito inquieto ed esasperato, che morirà anch’egli giovanissimo cadendo sul Cervino, il torinese Gabriele Boccalatte, suo compagno di mille avventure, animo estremamente sensibile e raffinato, e ancora Michele Rivero, Piero Zanetti, e molti altri.
Gervasutti porta in quell’ambiente non solo tutto il bagaglio tecnico della scuola orientale, ma anche l’impeto creativo di cui il suo carattere era capace, la forza di lottare e combattere, la coscienza della propria capacità disinibita. Egli dunque risveglia il mondo torinese da un torpore in cui era caduto, bloccato forse dal gelo del mondo aristocratico che gli aveva dato origine. Eppure già prima di Gervasutti questo ambiente alpinistico andava come risvegliandosi dal suo torpore, forse per prepararsi alla venuta del redentore. Boccalatte, Chabod, Crétier e tutti gli altri, si avvicinavano alle grandi vie di roccia del Bianco di Ryan e di Young e si accorgevano, non senza sorpresa, che essi erano perfettamente in grado di ripeterle, anzi in qualche caso riuscivano a passare dove i «grandi» non erano passati. D’altronde anch’essi, sull’esempio della scuola orientale, cominciavano ad allenarsi sulle rocce dei Tre Denti di Cumiana, su quelle della Rocca Sbarua o sulle altre calcaree della Parete dei Militi in Valle Stretta.
Ben presto Gervasutti per gli amici diviene il «fortissimo» e ben presto egli porta i suoi stessi amici verso le lontane Dolomiti e li guida su quei grandi itinerari che essi guardavano con timore e rispetto. Ma Gervasutti ama troppo il mondo della montagna occidentale ed è lì che si impegna nelle lotte più feroci.
L’alpinismo di un caposcuola
Nel 1933 comincia con la prima ripetizione della cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey, poi, dopo una spedizione nelle Ande Argentine, nel 1934, nel 1935 e nel 1936 compie tre campagne successive nel massiccio del Delfinato e risolve tre problemi magnifici. Le pagine del suo libro dedicate alla descrizione di queste imprese, sono veramente straordinarie. Prima cade la grande parete nord-ovest del Pic d’Olan, poi la cresta dentellata del Pic Gaspard, e poi, il capolavoro, è superata l’immensa muraglia nord-ovest dell’Ailefroide.
Altissima, tetra, un po’ scura, incrostata di ghiaccio e battuta dalle scariche di sassi, la muraglia dell’Ailefroide è una parete che non ha rivali nel Delfinato. Su questa parete Gervasutti si impegna in una lotta leggendaria, che bene caratterizza il carattere indomabile ed irriducibile di quest’uomo. Giungendo di notte all’attacco, Gervasutti cade malamente e si ritrova pesto e malconcio: il referto medico dirà poi che vi erano alcune cestole rotte, traumi e contusioni un po’ dappertutto e due o tre denti spezzati. Forse chiunque altro a questo punto si sarebbe ritirato. Ma Gervasutti forse capisce che ciò che gli accade è come un dispetto del destino, come uno scherzo maligno che lo vuole allontanare dalla parete. Ed egli con rabbiosa determinazione vuole essere più forte del dolore lancinante che gli mozza il respiro, più forte delle fitte che le gengive sanguinanti gli danno ogni volta che serra le mascelle; più forte del dolore, più forte della debolezza, più forte della sua condizione umana che egli disprezza.
E così attacca la parete, sale quasi senza infiggere chiodi intermedi, supera tratti di sesto grado in arrampicata libera che lasciano Devies ammirato e sconcertato. Nella notte si scatena la bufera, il freddo esaspera ancor più il dolore delle ferite e dei traumi, ma Gervasutti sembra quasi insensibile a tutto, anzi, più gli elementi si scatenano contro di lui e più lui si sente al suo posto, realizzato, degno della sfida. Tanto che, quando, durante il secondo giorno d’arrampicata, un camino ghiacciato sembra precludere ogni possibilità d’avanzata, egli quasi ne gode e si lancia al suo superamento, trovando forse nella lotta e nel dolore quella grandezza che al piano gli era impossibile.
La parete nord-ovest dell’Ailefroide è una delle più grandi salite della catena alpina e conta ben poche ripetizioni, tanto che oggi la si ritiene superiore alla stessa parete delle Grandes Jorasses.
Nel 1936 Gervasutti realizza un’impresa non estrema, ma significativa per meglio comprendere i lati nostalgici e melanconici del suo carattere. La vigilia di Natale egli se ne parte tutto solo e sale il Cervino lungo la via normale. «... Nel pomeriggio del giorno seguente, ultimata la preparazione del sacco esco per le vie della città per dare aria alla mia eccitazione. Quasi automaticamente salgo al Monte dei Cappuccini. Sento il richiamo del vento lontano che rende più trasparente il tramonto, colorando di verde l’orizzonte. Sopra il Gran Paradiso due nuvolette riflettono ancora l’ultimo sole. Sotto di me la città sta accendendo le prime luci. L’idea dell’azione vicina suscita in me sensazioni e contrastanti pensieri. Provo una grande commiserazione per i piccoli uomini, che penano rinchiusi nel recinto sociale che sono riusciti a costruirsi contro il libero cielo e che non sanno e non sentono ciò che io sono e sento in questo momento. Ieri ero come loro, tra qualche giorno ritornerò come loro. Ma oggi, oggi sono un prigioniero che ha ritrovato la sua libertà. Domani sarò un gran signore che comanderà alla vita e alla morte, alle stelle e agli elementi.
Ridiscendendo verso la città cammino senza meta per le strade affollate di gente festosa che si prepara a celebrare la grande solennità vicina. Mamme e bambini passano con grandi pacchi sulle braccia. Qualche fanciulla mi sfiora passando, ridente. Il richiamo è ora lontano, sommerso dal rumore chiassoso ed una strana nostalgia affiora dal fondo dell’animo, che aumenta ancora il piacere del prossimo distacco da tutto questo mondo… (G. Gervasutti, Scalate nelle Alpi)».
La sera di Natale, da solo, al rifugio, forse con tanta tristezza e forse con un desiderio infinito di una compagna con cui vivere insieme quei momenti, Giusto dice: «È la notte di Natale. Esco un momento all’aperto. Si è alzato un vento freddo, impetuoso. Nel chiarore lunare le montagne intorno a me sembrano irreali, evanescenti. Mi pare di essere in un mondo di sogno e di vivere una favola per piccini. Passa un’ondata di malinconia… (op. cit.)».
Ma perché dunque tutto questo desiderio di fuga, quest’ansia di morte, questa ricerca di solitudine, quest’assenza triste di una dolce compagna accanto a sé? Sovente negli alpinisti è facile scoprire un comportamento contraddittorio, che si manifesta da un lato con l’esibizione di una sessualità aggressiva, violenta e volgare, dove la donna è vissuta brutalmente come oggetto di sfogo, come bambola di carne su cui soddisfare i desideri più prepotenti ed inconciliabili. Dall’altra la figura di una donna angelica, dolce, trasferita nel regno dell’ideale. Sovente si possono osservare negli alpinisti il sorgere di intuizioni straordinarie, la manifestazione di tutta una sensibilità per gli aspetti più intimi e delicati della Natura, il potere di cogliere sfumature ed emozioni che per molti sono forse irraggiungibili, l’avere sentimenti magnifici come la generosità che giunge al sacrificio e l’amicizia vera e sincera. Ma dall’altra vi è tutta una ricerca del volgare, un volontario abbrutimento, si potrebbe quasi dire il piacere di un imbestialimento collettivo dove trovano spazio comportamenti gretti e meschini, il sorgere di invidie feroci, dove la gelosia stimola le calunnie più perfide.
Insomma è tutto un quadro fin troppo chiaro, in cui figure come quella della donna-madre e donna-amante trovano uno spazio ben definito. Sarebbe fin troppo facile, dunque, giungere alla conclusione che l’alpinista sovente è un maschilista, un fallocrate, un timoroso di castrazione. Egli non accetta la femminilità che vi è in lui e nemmeno quella che gli è esterna. Però oggi le cose vanno cambiando, in quanto molti giovani hanno capito che accettando il proprio ruolo inverso e vivendolo (dunque parliamo questa volta di alpinisti maschi e femmine) si può giungere ad una nuova situazione esistenziale, in cui anche l’alpinismo si apre a dolcissimi orizzonti che un tempo erano invisibili e sconosciuti. Ma questo non vuole essere un trattato di psicologia dell’alpinista o forse vorrebbe anche esserlo, ma limitate possibilità di spazio costringono a ritornare ai fatti.
Il 19 e 20 agosto 1938, Gervasutti, con l’amico Boccalatte, supera la fantastica parete sud-ovest del Picco Guglermina e realizza una scalata di roccia pura superba, trasferendo il concetto dolomitico nel Monte Bianco. Come già si è detto, Gervasutti ha uno spirito inquieto, che non può fermarsi a ripetere ciò che già gli altri hanno fatto. Egli cerca negli angoli più riposti e selvaggi del Bianco ciò che ancora non è stato cercato e «vede» nella parete ciò che ancora gli altri non hanno visto.
Nel 1940 forse concettualmente supera se stesso e realizza un’impresa di portata storica che aprirà all’alpinismo nuovi orizzonti dopo la guerra. Con Paolo Bollini sale il Pilone di destra della parete sud del Monte Bianco, la più cruda e selvaggia della catena alpina. Ma ancora non è soddisfatto, ancora come un vecchio viandante si appoggia al suo bastone e vaga per i valloni del Bianco alla ricerca del «perfetto». I suoi occhi si posano su una parete rossa come il sangue, verticale, compatta, che si alza prepotente sopra un caos di blocchi di ghiaccio ammonticchiati. Nessuno ha mai pensato di salirla. Quella è la «sua» parete, la parete est delle Grandes Jorasses.
È una parete feroce e selvaggia, come quelle che Gervasutti ama di più. Egli la studia dal fondovalle, ne osserva i rilievi, ne scruta la luce, le ombre, già immagina forse i passaggi, già vive le emozioni, già si vede come un biondo nume guerriero lottare nel sole e nel vento, in quel vento che gli scompiglia i capelli e gli porta la voce di un mondo lontano. Gervasutti si «carica» con la contemplazione per poi passare all’azione diretta. Ed infatti più volte la parete lo respinge, ma egli sempre ritorna, forse più che mai convinto che «quella» è proprio la meta tanto sognata. Ed infine, con l’amico Giuseppe Gagliardone, vince e realizza una superba scalata, tecnicamente sicuramente la più difficile di quelle compiute fino al 1946.
Ma anche questa volta non è felice. Anche questa non era la meta. Giunto in vetta con tristezza si accorge che dovrà ancora tornare al piano, ancora vagare, ancora cercare, ancora illudersi, ancora combattere. Ancora crearsi una meta, per poi distruggerla nel superamento. E così Giusto riprende a correre, a correre su per le pareti di rosso granito, su per gli scintillanti canali di ghiaccio, su per gli spigoli solari delle Dolomiti. Ma forse è un po’ stanco. Forse qualche volta comincia a vedersi un po’ vecchio, forse comincia a capire che per molti giovani non è più «il fortissimo», forse qualche volta la tempra del guerriero si incrina e sul viso serrato in una espressione dura e severa si delinea un’ombra di dolcezza, uno strano sorriso infinitamente triste e socchiudendo gli occhi vede visioni di un mondo che sempre più sembra appartenere solo ai sogni. E poi la guerra… gli amici caduti che non ritorneranno più, le distruzioni. Ora Gervasutti cammina e non corre più. Cammina lentamente e senza fretta, appoggiandosi al suo bastone, cammina nella luce della sera su quel grandissimo prato illuminato da una luce che non sorge e non tramonta, cammina solo ma non è solo. Nel settembre del 1946 mentre si ritira lungo uno splendido pilastro di granito, rosso e compatto, che si alza come una freccia nella parete nord-est del Mont Blanc du Tacul, Gervasutti precipita per un banale incidente in corda doppia.
Questa in breve la storia di quest’uomo, uno dei più grandi di tutto l’alpinismo (ma vi sono forse grandi e meno grandi? O forse chiunque di noi non è Gervasutti, Cristo, Buddha? Non abbiamo forse paura di riconoscere il tutto in noi, e per questo proiettiamo all’esterno in immagini illusorie ciò che è in noi?).
Poco si è detto delle imprese. Ma ciò non ha molta importanza. Comunque il numero delle imprese compiute è impressionante. Bisogna anche sottolineare l’impulso che egli seppe dare all’alpinismo torinese, anche se poi la sua caduta fu un trauma gravissimo che fu poi superato con forte difficoltà dalle generazioni seguenti. Ma a noi importa l’uomo. «… Ero partito da solo, come spesso mi accadde in quell’anno. Sapevo che l’alpinismo solitario in genere è condannato e considerato quasi come una mania suicida. L’uomo, dicono i benpensanti sostenitori di questa tesi, non ha il diritto di impegnarsi di sua volontà in un gioco eccessivamente rischioso come questo… Preuss passava sovrano di vetta in vetta, di conquista in conquista, sprezzante di ogni mezzo di protezione… Io, più modestamente, mi accontentavo di andare lassù a sfogare il malumore accumulato nelle ore monotone di città. E nelle vibranti e libere corse sulle rocce tormentate, nei lunghi e muti colloqui con il sole e con il vento, con l’azzurro, nella dolcezza un po’ stanca dei delicati tramonti, ritrovavo la serenità e la tranquillità. E nessuna teoria pacifista e sentimentale potrebbe indurmi a cambiare opinione.
… E l’ebbrezza di quell’ora passata lassù isolato dal mondo, nella gloria delle altezze, potrebbe essere sufficiente a giustificare qualunque follia… Ed al giovane compagno che inizia i primi duri cimenti, ricorderò il motto dell’amico caduto su una grande montagna: Osa, osa sempre e sarai simile ad un dio (G. Gervasutti, Scalate nelle Alpi)».
A lui, proprio ai piedi del versante est delle Grandes Jorasses, è stata dedicata una piccola capanna di legno, che serve da rifugio agli alpinisti impegnati sui difficili itinerari di questo versante della montagna.
Attorno a Gervasutti: Gabriele Boccalatte e Renato Chabod
Il gruppo di alpinisti dell’ambiente torinese in cui si inserì Gervasutti era caratterizzato da alcune personalità-guida che seppero creare, in seno al gruppo principale, alcuni piccoli gruppi secondari, che si espressero in modo differente sul terreno. Michele Rivero, per esempio, prediligeva in modo particolare l’arrampicata libera su roccia pura, dove sempre si era distinto come uno stilista elegante e perfetto. Infatti Rivero, con al fianco il più delle volte Guido De Rege, seppe realizzare sull’arco alpino occidentale un gran numero di vie esteticamente assai pregevoli, alcune delle quali rientrano nel novero delle classiche più ripetute.
Il valdostano Renato Chabod (1909-1990), invece, forse in virtù del suo spirito montanaro, fu veramente l’uomo del misto e del ghiaccio. Anche durante le imprese realizzate con il «fortissimo» Gervasutti, il suo compito era appunto quello di superare i tratti di ghiaccio. D’altronde le imprese giungono a conferma di quanto si è detto: prima ascensione della parete nord del Gran Paradiso (1930), prima ascensione del selvaggio couloir du Diable al Mont Blanc du Tacul (1930), prima ascensione della splendida parete nord dell’Aiguille Bianche de Peutérey (1933), una delle più belle pareti di ghiaccio della catena alpina, prima salita diretta del canalone nord-est del Mont Blanc du Tacul (con Gervasutti nel 1934), tecnicamente la realizzazione più difficile. Impresa notevolissima fu anche la via aperta sul Mont Maudit (parete est) con Amilcare Crétier, dove in stile assolutamente classico, ossia senza alcun chiodo da roccia e da ghiaccio, fu vinto uno sperone roccioso e ghiacciato dove ancora oggi i pochissimi ripetitori si trovano impegnati assai seriamente. Degna di menzione è anche l’attività culturale che Chabod seppe esprimere nell’ambiente alpinistico italiano. Scrittore brillantissimo e dotato di un’arguzia sottile ed intelligente unita ad un vivo senso dello «humour», capace di sdrammatizzare le situazioni più tragiche, Chabod è da ricordare come attento compilatore di alcune guide alpinistiche del settore piemontese della catena alpina.
Personalità affine a quella di Gervasutti, ma differente per certi altri aspetti, fu quella di Gabriele Boccalatte (1907-1938). Anche se la sua intera esistenza fu dedicata all’alpinismo e alla montagna, Boccalatte forse riuscì a conciliarsi meglio con il mondo e con la vita. Anche Boccalatte era comunque uno spirito inquieto ed insoddisfatto, ma nel passaggio all’azione riusciva ad esprimersi forse con più dolcezza e con una pacatezza che a Gervasutti era sconosciuta. Vi è da dire che Gabriele amava immensamente la musica ed era anche un eccellente pianista. Forse proprio per questo, una buona parte della sua aggressività poteva essere sublimata in senso artistico e fluire in quella direzione, permettendogli di giungere all’alpinismo con una maggiore distensione e con vivissimo senso estetico dell’arrampicata, che sempre ebbe la prevalenza sui fattori di lotta, di vittoria e di competizione con se stessi. Di lui, in una acuta analisi, Mila dice: «La vita di Boccalatte ha una sua tragica coerenza inferiore, come la vita di Winkler, di Preuss, dei grandi cavalieri della montagna. L’ampiezza delle esigenze alpinistiche di Boccalatte testimonia d’una passione che non ha la sistematicità esplorativa del geografo, né l’accanimento agonistico dello sportivo che s’accanisce e si fossilizza sui cosiddetti “grandi problemi”: ha piuttosto la libertà e la pienezza dell’arte.
Quel temperamento artistico che Gabriele celava così gelosamente nella vita privata, si manifesta invece gloriosamente nella sua azione alpinistica: in fondo la legge che governa le sue salite è una sola, il bello. Amava tanto la roccia che il ghiaccio, certamente più quella che questo, le Alpi Occidentali come le Dolomiti, le vie nuove come le ripetizioni, spesso più fastidiosamente impegnative perché implicano un pericoloso confronto con chi è già riuscito sulle medesime difficoltà; ma né la via nuova gli importava veramente in quanto tale, né la ripetizione importante, né la salita classica o di moda: la sola cosa che gli importava è che fossero belle salite. Questo è quello che risulta chiaro dall’elenco eccezionale delle salite da lui compiute in circa 10 anni (M. Mila, Cento anni di alpinismo italiano)».
È significativo il fatto che Boccalatte abbia avuto come compagno di cordata una donna, Ninì Pietrasanta, che gli fu anche compagna nella vita. Ed è forse anche per questo che in un certo senso lo vediamo più realizzato di un Gervasutti, ma sappiamo benissimo che anche questi giudizi lasciano il tempo che trovano, in quanto è anche possibile che il compimento di Gervasutti fosse proprio vivere la vita che egli ha vissuto. Ci piace però l’immagine di quest’uomo e di questa donna che si aggirano negli angoli più selvaggi e difficili del Bianco, che affrontano tranquilli nuove ascensioni su pareti che li impegneranno per più giorni d’arrampicata sovente estrema, che vivono finalmente insieme sensazioni ricavate da un mondo e da un modo di vivere in quel mondo che il più delle volte porta all’incomunicabilità ed al rinchiudersi sempre più in se stessi.
Si è detto che Boccalatte amava la roccia. Ed è vero. Gli amici di Torino lo ricordano come un arrampicatore magnifico, leggero, elegante, dal gesto delicato, dai movimenti morbidi e concatenati. Gervasutti dava l’idea della potenza, dava l’impressione di poter salire ovunque, dominava il passaggio e la roccia. Boccalatte forse era più in armonia con l’elemento, e dava l’impressione, per chi lo guardava, che tutto fosse facile ed irrisorio. Impossibile stendere un elenco di tutte le imprese compiute, comunque, alcune vanno ricordate. Le due vie aperte sulla parete est dell’Aiguille de la Brenva (1934 e 1935), lo splendido pilastro della parete nord-est del Mont Blanc du Tacul, che ora porta il suo nome, la prima salita della difficilissima parete ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey, realizzata con Ninì Pietrasanta e ritenuta unanimemente come il suo capolavoro, la parete nord del Monte Greuvetta, degna della Nord delle Grandes Jorasses, la già menzionata parete sud del Picco Gugliermina, vinta in stile elegantissimo con Giusto Gervasutti. Numerosissime comunque sono le vie aperte sui monti delle valli piemontesi, le ripetizioni di prestigio sulle Alpi Occidentali e sulle Dolomiti (che egli amava moltissimo), le salite invernali di polso.
Come Gervasutti, anche Boccalatte doveva concludere tragicamente la sua corsa esistenziale; infatti, colpito da una scarica di sassi, perse la vita tentando una via nuova sulla parete sud dell’Aiguille de Triolet, nel 1938.
In sintesi, questi dunque gli uomini che dettero all’alpinismo torinese (ed italiano per quel che concerne le Alpi Occidentali) il suo splendido periodo. Un periodo che oggi, sono passati pochi anni (al tempo della prima pubblicazione, 1977, NdR), ha quasi un sapore di leggenda, talmente è mutato l’alpinismo nelle sue espressioni. Ma chi ha la fortuna di poter ripetere gli itinerari dei grandi maestri dell’anteguerra, realizza facilmente un incontro, non solo ideale, con essi e con il loro spirito.
Prima di concludere l’analisi del periodo che ha preceduto la Seconda guerra mondiale (ed è anche proseguito per alcuni durante gli anni del conflitto), è bene ricordare ancora alcuni nomi ed alcuni fatti, un po’ isolati dal contesto generale, che però sono della massima importanza. Nel contesto dell’arrampicata su ghiaccio, bisogna ricordare la realizzazione di un’impresa che forse resta un esempio insuperato di purezza di stile e di eleganza: il 20 settembre 1931 Robert Gréloz e André Roch, svizzeri, superano la ripidissima parete nord dell’Aiguille de Triolet e vincono numerosi tratti inclinati a 60 gradi (e forse qualcosa in più) solo servendosi dell’uso dei ramponi e della piccozza, senza ricorrere all’aiuto dei chiodi da ghiaccio per assicurarsi. Impresa importante e degna di menzione fu anche quella realizzata il 20 e 21 luglio 1937 da Charles Authenac e Fernand Claret-Tournier, che vinsero in prima ascensione il formidabile sperone nord-est delle Droites, una salita di notevole respiro, più facile, ma degna di porsi al fianco della Nord delle Grandes Jorasses.
Nel campo della scalata su roccia, importantissima fu l’impresa di Vittorio Ratti e di Gigi Vitali del 1939 sull’Aiguille Noire de Peutérey. I due lecchesi, arrampicatori dalle capacità eccezionali, affrontarono la parete esattamente nel settore sotto la vetta, a differenza della cordata Boccalatte-Pietrasanta, che invece aveva compiuto la prima ascensione di quel versante spostandosi notevolmente a destra.
Ratti e Vitali invece salgono direttamente e si impegnano per tre giorni (18-20 agosto) in una scalata durissima, ostacolata anche dal maltempo. Nel tratto terminale della parete, essi per la prima volta nel Gruppo del Bianco, ricorrono sistematicamente all’uso dei chiodi e delle staffe e superano due diedri strapiombanti di difficoltà veramente estrema. Va detto però, che già qualche anno prima (1935), i due tedeschi Herbert Burgasser e Rudolf Leitz salendo la verticale parete sud del Dente del Gigante, erano ricorsi abbondantemente alla scalata artificiale. Ma ciò che sul Dente del Gigante poteva essere quasi un esercizio da palestra, data la scarsa altezza della parete (non più di 120 metri), invece sulla parete ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey, alta più di 700 metri e posta in uno degli angoli più pericolosi e selvaggi del Bianco, acquistava un significato ben differente. Era un’impresa che rendeva possibile ciò che si credeva impossibile. Infatti, subito la Ratti-Vitali alla Noire salirà al posto di scalata «più difficile» del Bianco e forse delle Alpi intere. Soprattutto il famoso diedro strapiombante di 35 metri, per moltissimi anni sarà valutato dai ripetitori come uno dei passaggi più duri della catena alpina e sarà superato solo da altre vie del dopoguerra, le quali però potranno contare su un materiale molto più perfezionato e su una condizione psicologica assai più favorita.
Ratti e Vitali osarono affrontare ciò che non era mai stato affrontato sulla roccia del Bianco: né da Cassin, né da Allain, né da Gervasutti. Si fa presto oggi a dire che Cassin, Allain e Gervasutti, trovatisi in quelle stesse condizioni, avrebbero fatto lo stesso. Ma realtà è che non lo fecero, mentre invece Ratti e Vitali lo fecero. Ed oggi, che i due diedri sono zeppi di chiodi e comodamente (ma non troppo!) si passa da un chiodo all’altro volteggiando sulle staffe a gradini, si pensi alla prima salita, allo spirito dei due lecchesi che giunsero sotto quegli strapiombi giganteschi, che erano stati definiti impossibili da molti. Si pensi all’intera giornata di lotta spesa sul diedro, alle acrobazie per piantare i chiodi nel tetto finale, alla fortissima opposizione psicologica che sorge quando si varca una soglia ritenuta impossibile.
Qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, l’impresa di Ratti e Vitali poneva veramente fine alla polemica tra occidentalisti ed orientalisti. La superiorità della scuola orientale era ormai così netta, da non essere messa in discussione.
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“Infine, stranissima per chiunque abbia conosciuto quell’uomo straordinariamente sereno ed equilibrato che fu Giusto Gervasutti, l’immagine che qui se ne fornisce, come di un nevrotico, incline alla malinconia, «lacerato dalle contraddizioni» e tormentato da un «desiderio di infinito» che lo rendeva incapace «di vivere la normalità», insomma: un «Dio caduto dal cielo e insoddisfatto di trovarsi uomo»! Nella sofferta e commovente ricerca d’una paternità spirituale, Motti trasferisce su Gervasutti le proprie generose inquietudini, scambiando per pessimismo cosmico quello che era semplicemente il nobile distacco d’uno spirito non certo altero, ma naturalmente e semplicemente aristocratico.”
(Massimo Mila, «Verità e miti dell’alpinismo», recensione a Storia dell’alpinismo e dello sci, 29 settembre 1978)
Gervasutti non è una leggenda. Gervasutti ci attraversa ogni volta che anche noi da soli percorriamo un sentiero di montagna. Grazie davvero per aver pubblicato questo splendido testo di Motti.
quando si leggono queste imprese leggendarie fatte da Alpinisti che hanno scritto la storia ,non si può, non essere rapiti ,dal fascino che le avvolgono..
Oggi comunque il completo oblio e’evitabile.Oltre al blog che ci da’spazio accettando pure le osservazioni di non addetti ai avori ma anche di semplici amanti della montagna e varie attualita’, ne esistono altri.
Ad esempio Montagne tv, Intraigurun e ampia scelta https://www.google.com/search?channel=trow5&client=firefox-b-d&q=blog+di+montagna
Personalmente ho tutte le opere di Cesare Maestri… mi e’capitato anche di reperire in polverosa biblioteca comunale del Primiero ( costretti in pausa per periodo prolungato di temporaloni estivi )due di Tita Piaz, e pure di Chabod “le cime di Entrelor”…e pure di GabrieleFranceschini.”Vita breve di roccia”.Molti testi datati non erano piu’ in scaffale, bensi’ in magazzino archivio. Sopravvivevano nello schedario, poi a gentile richiesta il bibliotecario doveva andarli a reperire in magazzino dei libri malconci e ammuffiti.
Certo Roberto, ma sono esercizi letterari, romanzi (a me Cognetti non piace, ad esempio). Credevo ti riferissi a qualcosa di più “storiografico” o “psicologico”, a una vera storia parallela. Non so e mi sono spiegato…
PS. Per Vegetti. Forse avrai notato che anche alcuni romanzi recenti a sfondo montagna, come quello di Cognetti o quello di Paci, sono costruiti intorno alla figura del “doppio”, un espediente letterario dalle antiche tradizioni ma sempre molto intrigante per chi è incuriosito dalla complessità degli umani, come quegli strani esseri apparentemente di granito che a volte sono gli alpinisti famosi o almeno come tsli venivano un tempo presentati al vasto pubblico. Un tema che ogni tanto viene fuori anche nelle nostre discussioni.
Vegetti. Pensavo come modello alle Viie Parallele di Plutarco. Un formato, come si dice oggi, interessante: Come i caratteri incidono sulle vite e sulle carriere degli alpinisti. Ma si faceva così per dire. Però magari a qualcuno capace può venire l’ispirazione. Ci sarebbero anche tante altre vite parallele significative. Ho la sensazione che qualcosa sia già stato scritto di questo tipo. Magari qualche lettore segnala qualche libro.
6 Roberto. Magari no. Ognuno ha la sua strada. Troppo difficile comparare. Che vivano soli, ciascuno nel proprio mondo, lontani ma avvicinati dalle origini e dalla montagna.
Albert. Vite parallele. Due furlani. Entrambi emigrati. Due facce del Friul ? La rocciosa solidità del fabbro diventato poi piccolo imprenditore e la sottile inquietudine del tipografo intellettuale? Roccia e aria sottile. Lecco e Torino. Lombardia e Piemonte. Breve vita, lunga vita. L’eroe caduto e il patriarca. Entrambi passati attraverso la dura esperienza del fascismo trionfante, poi il suo crollo e le tensioni della ricostruzione. Chissà, magari si potrebbe scrivere una biografia comparata dei due.
Commento 3..appare il nominativo risposta all’ 1:Riccardo Cassin.E’ vero che ognuno hai suoi beniamini, specie se hanno scritto e divulgato e fotografato. Altri sono rimasti ingiustamente con le loro autobiografie in un cassetto in un como’ in soffitta, poi venduto ad un rigattiere o fatto a pezzi e finito nelle stufa,assieme a vecchie attrezzature finite in un mercatino, non hanno neppure trovato un Omero…o un anchor man/woman in Rai.
un uomo complicato , di grande sensibilità, che cerca di conoscere e di farci conoscere, un’altro uomo altrettanto complicato.
Tutti e due tragicamente lasciano questo mondo. Il primo lo decide lui, il secondo il destino?
L’unica via di Gervasutti che ho salito è quella alla Sbarua. Mentre ho salito a metà degli anni 80 il bellissimo pilastro del Tacul a lui dedicato. Allora nell’entusiamo e nell’ignoranza degli anni giovanili, non pensavo all’uomo Gervasutti che su quel bellissimo pilastro sacrificò la sua vita alla ricerca di un’ illusione.
Riflessione dopo aver visto anche la docu-fiction su Bonatti di Vicario. Da sempre sono le storie degli uomini che ci attirano, compresi i dettagli e gli oggetti della vita privata. Come accade in certe case trasformate in museo. Piccoli particolari, a volte triviali, attraverso i quali cerchiamo di capire di più la persona, come nella minuziosa ricostruzione degli ambienti fatta da Crovella. Una descrizione dettagliata degli aspetti puramente tecnici delle imprese, magari tiro per tiro, passaggio per passaggio diventerebbe noiosa anche per la maggior parte degli appassionati e interesserebbe solo una minoranza, magari interessata a ripetere l’impresa. È l’umanità che colora la roccia, il ghiaccio, il mare dove si è svolta l’impresa e i luoghi e gli ambienti sociali dove è vissuto il protagonista.Ognuno ha i suoi beniamini, anche se alcuni sono più trasversali. E questo accade perché rispecchiamo in loro parti di noi (di solito i difetti) o proiettiamo ciò che vorremmo essere (di solito le virtù), a volte contemporaneamente. Infatti le biografie devozionali a senso unico stufano e sono più interessanti i ritratti in chiaroscuro. Così accade che qualcuno sia attratto di più dal travagliato Gervasutti o dal pater familias Cassin, ad esempio, per citare due archetipi. Come i personaggi di Omero e delle grandi narrazioni su cui ci siamo formati.
Grande la scelta dell’opera di Motti per obliterare questo importante anniversario e ricordo dell uomo prima che dell alpinista.
Una doppia chiave di lettura per due uomini forse per Noi persi troppo presto che intrecciano nei loro vissuti e nei loro lasciti scritti una sensibilità e una visione fuori dal comune sopra alle omologazioni sopra alle maldicenze e al pensare standard…in parole povere geniali.
Commovente.
Compitino ricerca: Altro famoso alpinista nato in FriuliVenezia Giulia-FVG ,(occhio! non omettere la denominazione completa), a San Vito al Tagliamento?
Almeno lì si son dati da fare:palestra di arrampicata san Vito T. e pure a Codroipo.