La capanna Mautino ha compiuto 100 anni
di Carlo Crovella
La Capanna Mautino, situata in alta Val Susa e di proprietà dello Ski Club Torino (SCT), ha compiuto 100 anni: nel weekend del 15 e 16 febbraio 2020 si sono svolti i relativi festeggiamenti, compreso il “Brindisi del Colonnello”, in onore del Colonnello Umberto Mautino, eroe della Grande Guerra, colui che di fatto creò gli “alpini sciatori” utilizzando a tal scopo alcuni istruttori dello Ski Club Torino.
Lo SCT, fondato nel 1901 da Adolfo Kind, costituisce la culla istituzionale dello sci, almeno in Italia. Lo stesso Mautino era uno dei primi soci.
Fra i soci scelti come istruttori per gli alpini sciatori spiccano alcuni nomi di pregio nella storia dello sci: Ottorino Mezzalama, Piero Ghiglione, Ettore Santi, Giacomo Dumontel. All’Ing. Dumontel si deve inoltre il progetto originario della Capanna Mautino, eretta nel 1920 in ricordo del Colonnello scomparso nel novembre del 1918.
Mi sembra ieri quando, sul finire degli anni ’60, sentivo mio padre e altri soci dello SCT parlottare circa le celebrazioni per i 50 anni, che sarebbero coincisi con il 1970. Ora si sono celebrati i 100 anni e la Mautino è sempre là, più vispa che mai.
I miei contatti con la Capanna Mautino si perdono nella notte dei tempi, ma il primo ricordo indelebile risale al 1968, quando io avevo sette anni: proprio alla Mautino trascorsi il primo pernottamento in rifugio durante la stagione invernale (d’estate avevo già dormito in altri rifugi). Il ricordo di quella notte è monopolizzato dal timore per le coperte ruvide, che pizzicavano quasi quanto i mutandoni di lana obbligatori per imposizione famigliare.
Da allora la Mautino mi ha regolarmente accompagnato in tutta l’esistenza: è un luogo dove torno spesso, con piacere. Ci torno con gli sci, durante la stagione innevata, ma anche d’estate.
Infatti la Mautino ha una vita significativa anche nei mesi estivi: qui transitano numerosi escursionisti di vario livello, biker, appassionati di passeggiate a cavallo o semplici estimatori della polenta in rifugio. Insomma la Mautino è un luogo d’incontro: è il porto cui si arriva e da cui si salpa in quel lembo di territorio.
Ma il meglio la Mautino lo dà con la neve: ad essere precisi, il meglio del meglio coincide con la seconda parte dell’inverno, quando la montagna è ancora ben innevata, ma la neve già luccica per i cristalli che preludono alla primavera. Giornate calde, assolate, boschi innevati, pelle del viso tirata dal sole: non è un caso che il raduno annuale dello Ski Club Torino sia normalmente in calendario a metà-fine febbraio.
Specie da piccolo, al traino dei mie genitori ho condiviso numerosi di questi raduni, cui da sempre è agganciata una gara sociale. Da molto tempo in qua la gara è una competizione vera e propria: per scelta io non ho mai partecipato alle gare sociali dello SCT, ma ne apprezzo il clima umano che, pur infiammandosi per il risultato, resta nell’ambito di una sfida cavalleresca fra consoci e amici.
Da quello che mi raccontavano i miei genitori, negli anni del dopoguerra veniva organizzata anche un altro tipo di gara che ben si combinava con la definizione di “caccia alla volpe”. Io personalmente non ho mai assistito a queste particolari competizioni, perché risalgono ad anni precedenti alla mia presenza alla Mautino, ma nel lessico famigliare la cosa era talmente radicata che non poteva essere del tutto inventata.
Per far conoscere meglio la Capanna Mautino, oltre all’articolo istituzionale che ben la descrive, riporto anche un mio racconto di fantasia, la cui stesura risale alla metà degli anni ’90, incentrato sulle atmosfere che da sempre mi hanno suscitato i ricordi delle riunioni conviviali alla Capanna.
Come in tutti i testi di narrativa, la fantasia prende decisamente il sopravvento e mescola riferimenti autobiografici con risvolti di cui neppure l’autore sa dire con esattezza se siano davvero accaduti oppure no. Il risultato finale non ha nulla a che fare con la cronaca autobiografica, anche se emozioni, sensazioni, profumi, aspettative, timori ed esperienze affondano (come sempre) nell’anima di chi scrive.
La Mautino si inserisce in un contesto di radi boschi, disseminati lungo alture ondulate in modo così morbido da conquistarsi l’appellativo di Monti della Luna. Terreno ideale per lo sci, per uno sci facile, per una montagna facile, senza esigenze di particolari performance.
La verità è che se ti è capitato, come a me, di pennellare i tuoi primi Stem Christiana nei boschi intorno alla Mautino, ti si è radicato dentro un particolare codice che ti resta per tutta la vita.
Sono contento che quel codice non mi abbia mai abbandonato lungo l’esistenza, così come sono contento che, nella mia vita, non sia mai transitato un aereo per Katmandu, come invece capita a un personaggio del racconto: l’aereo ha fretta perché gli Ottomila non aspettano e, travolto da quella vita frenetica, lui si perde il bello della Mautino.
La Capanna Mautino spegne 100 candeline
di Amedeo Macagno
(pubblicato su La Stampa del 14 febbraio 2020)
Cent’anni per la Capanna Mautino, il rifugio valsusino dei Monti della Luna a due passi dal Lago Nero, che nel week end festeggia il centenario.
Di proprietà dello Ski Club Torino, venne costruita nel 1920 sopra Bousson di Cesana. Fu ampliata nel 1929, ma venne completamente distrutta durante gli anni della guerra, quando era diventata base prima per reparti nazifascisti e dopo per le formazioni partigiane.
Nell’immediato dopoguerra fu ripristinata con una serie di lavori provvisori prima e quindi, fra il 1947 e 1948, ricostruita nell’attuale configurazione.
L’inaugurazione avvenne il 5 dicembre 1948 «in una splendida giornata di sole e di clima autunnale». La vera anima della ricostruzione fu il socio Domenico Mazzocchi, mentre il presidente dello Ski Club Giuseppe Giraudo ne fu il principale artefice finanziario, avendo erogato la somma di un milione di lire a fondo perduto e sottoscritto la metà delle 140 carature da 25 mila lire cadauna, a fronte di una spesa complessiva prevista in 4.500.000 per la ricostruzione completa.
Da quel giorno la nuova Capanna Mautino è diventata il frequentato centro dell’attività sociale dello Ski Club Torino, seguendo una tradizione mantenuta ancora viva oggi.
A festeggiare l’evento del centenario domani e domenica (15 e 16 febbraio 2020, NdR), saranno gli attuali dirigenti dello Ski Club Torino, il primo ad essere fondato in Italia, nel 1901, da Adolfo Kind, colui che sin dal 1896 con le prime discese torinesi al parco del Valentino, introdusse e fece conoscere questo sport in Italia.
Un fine settimana di festeggiamenti, sport e divertimento con un programma che va dalle gite scialpinistiche, con tanto di discesa «a raspa», sino alla fiaccolata e alle cene notturne.
L’evento più importante previsto è però quello di domenica alle ore 13 con il «Brindisi del Colonnello» a cui seguirà la Messa.
Alla inaugurazione (1948, NdR) della «nuova» Capanna Mautino c’era anche Ettore Santi, colui che inventò Clavière. Presenti anche la vedova e il figlio del Colonnello Umberto Mautino, eroe della Grande Guerra, cui la Capanna è dedicata.
La Capanna ha ospitato generazioni di sciatori frequentatori delle montagne di Claviere. Oggi la Capanna Mautino, come anche la Capanna Kind, altro “mitico” rifugio sulle montagne valsusine, è rimasta di proprietà dello Ski Club Torino.
Grazie alla sua posizione è raggiungibile tutto l’anno ed è meta ideale per comode escursioni invernali ed estive, a piedi o con la mountain bike.
Domani, sabato 15, e domenica 16 febbraio (2020, NdR), in occasione del centenario della costruzione della Capanna Mautino, il rifugio sarà riservato esclusivamente ai soci dello Ski Club Torino.
Dall’8 dicembre la Capanna Mautino è aperta in maniera continuativa sino alla fine di marzo (compatibilmente con le condizioni della neve). «Come sempre è raccomandata la prenotazione» precisa l’attuale gestore della Capanna, Marco Ferraris. Il recapito telefonico è il 347-3654510.
Caccia alla volpe
di Carlo Crovella
(pubblicato nel volume La Mangiatrice di uomini, Vivalda Editore, Torino 2011)
Il modo più interessante per arrivare alla Capanna Mautino è quello di salire al Col Begino dal vallone Chabaud, sopra Bousson in alta Val di Susa, e scendere sull’altro versante fino al Lago Nero. La salita è più lunga, ma in compenso il versante nord del Col Begino, morbido e adatto allo sci, conserva per lungo tempo la neve farinosa. Proprio così fecero quel giorno Hem e i ragazzi.
Ad essere sinceri c’era anche la moglie di Hem. Hem la chiamava Lady, che non è un vero nome, ma un nomignolo, rispettoso prima ancora che affettuoso: Lady, Signora, la Signora della sua vita. L’unica, incontrastata Signora della sua esistenza.
Anche Hem non era altro che un soprannome e indicava la sua passione per Hemingway. Gli piaceva sentirsi chiamare Hem dagli amici, ma gli sarebbe piaciuto anche Kafka o Faulkner o Garcia Marques: insomma gli sarebbe piaciuto essere quello che non era e cioè un vero scrittore.
Ma più degli altri, Hem aveva il pregio della brevità e per questo era stato adottato da tutti.
Si erano portati dietro i due figli, con quei loro scietti che arrivavano sì e no alla vita di Hem: la ragazza, pepietta biondina di sette anni e il maschio, di un anno più giovane.
I piccoli caracollavano zampettando sulla neve, ancora non pienamente assuefatti all’uso delle pelli di foca, e per questa andatura nel linguaggio famigliare erano diventati gli anatroccoli.
Se li erano portati dietro, perchè Hem “voleva tornare”, almeno una volta all’anno, alla capanna Mautino.
«Ci ho dormito per la prima volta nel ’68» raccontava per distrarre in salita i suoi figli.
«Quanti anni avevi?» chiese la bimba, Matilde.
«Più o meno la tua età».
«Allora ti batto!» sentenziò con orgoglio il maschio, Leone.
In realtà gli importava di più segnare un punto a suo favore contro la sorella.
La quale ribatté attaccando:
«Io ho già dormito in un rifugio, l’anno scorso al Vittorio Emanuele del Gran Paradiso!!! E c’erano anche i ghiacciai!!!»
Il piccolo incassò il colpo e si immelanconì.
Hem si era perso dietro i ricordi: gli venne in mente quella notte del ’68 tra le ruvide coperte della capanna. E risentì il disagio dei mutandoni di lana, che gli erano imposti dalla madre e che gli producevano un prurito insopportabile.
A quel l’età non capiva bene perchè si dovesse faticare in salita, per fare poi una sola discesa. Era più o meno lo stesso stato d’animo che vivevano ora i suoi due ragazzi. Eppure Hem ringraziò la sorte per averlo fatto nascere in una famiglia di sciatori, anzi di scialpinisti. Ringraziò suo padre, che quasi lo costrinse a sciare quando, bimbetto, non ne aveva voglia. Ringraziò sua madre, che lo aveva obbligato ad indossare i mutandoni di lana, nelle notti passate in rifugio.
E ringraziò l’idea di organizzare tutti gli anni la ”Caccia alla Volpe”, lassù alla capanna.
La “Caccia alla Volpe” era in realtà un pretesto per indire una riunione conviviale dello Ski Club Torino: si passava un piacevole fine settimana sulla neve, ubriacandosi più di allegria che di alcolici, ma anche di alcolici.
Il gioco in sé era molto semplice: uno dei soci, estratto a sorte la sera prima, partiva dal rifugio alla mattina presto, indossando un berretto alla Davy Crockett, di quelli con una lunga coda di pelo.
Il fuggitivo, “la Volpe”, doveva scorrazzarsene con gli sci su e giù per la valle, nascondendosi fra gli alberi e i massi innevati e cercando di non farsi catturare dagli altri. Lo scopo del gioco per la Volpe era di tornare nel pomeriggio alla capanna con il berretto in testa; per gli altri quello di conquistare il berretto e, trasformatisi in Volpi, difenderlo fino al rifugio. Non erano previste altre regole, ma non ce n’era bisogno.
Quando Hem e gli anatroccoli sbucarono sulla cresta del Col Begino, laggiù in fondo apparve il parallelepipedo scuro della capanna e Matilde rimase un po’ delusa: se l’aspettava più grande e imponente.
Hem rivide in un lampo una storia lunga trent’anni. Da quella volta, quella dei mutandoni che pungevano, era ritornato alla capanna per innumerevoli occasioni, d’inverno e d’estate. Aveva giocato agli indiani sulle rive selvagge del Lago Nero; era corso dietro alla Volpe senza riuscire a prenderla; aveva ascoltato il silenzio della notte nei suoi primi tumulti adolescenziali.
In seguito, nuove e più severe montagne lo avevano chiamato: difficoltà, dislivelli, bivacchi…. Ma nulla è più radicato nel cuore di un uomo come il luogo dove quell’uomo ha provato per la prima volta l’assoluta libertà.
Lady sorrise e si domandò, ancora una volta, cosa mai avesse quell’uomo per essersi innamorata di lui: quell’uomo bruttarello, con due manone intarsiate di cicatrici e un’anima che si portava dietro i segni di lunghe battaglie esistenziali.
Ma quell’uomo, quando sorrideva, la riscaldava e in più aveva dentro una sostanza, che era difficile da definire.
«Sarà farina?» la preoccupazione di Leone circa lo stato della neve interruppe la magia dell’istante.
«Poudreuse!» lo corresse la sorella che amava fare la saputella, utilizzando termini tecnici, specie in francese.
Si lanciarono giù nel pendio moderato, ma costante. I grandi saettavano nelle loro strette serpentine e gli anatroccoli cercavano di tenere dietro con impacciati spazzaneve.
Leone si era infilato gli occhialoni da sci, perché, a suo dire, una sciata non è una vera sciata se non indossi gli occhialoni.
La discesa, come tutte le belle discese, finì troppo presto e si ritrovarono in riva al Lago Nero. La capanna è situata sull’altra sponda, circa un centinaio di metri più in alto: occorre mettere di nuovo le pelli di foca per risalire.
«Maledizione! – protestò Leone – E’ mai possibile che si debba sempre faticare, in montagna!»
Hem per distrarlo, iniziò a raccontargli di quando giocava agli indiani sulle rive del Lago Nero. Lo faceva d’estate, naturalmente, e proprio laggiù, in quella insenatura aveva messo la sua tenda. Una notte, nonostante il divieto di sua madre, si era rifugiato nella tenda ed aveva ascoltato i rumori della vita notturna, un po’ impaurito ed un po’ esaltato. Gli erano passati davanti due camosci, o forse erano due caprioli, e aveva sentito il volo radente dei galli forcelli.
Raccontando questi vecchi ricordi, Hem riuscì a far digerire la risalita ai due anatroccoli. Lady li aveva anticipati ed uscì sulla porta della capanna quando gli altri stavano appoggiando gli sci contro il muro esterno.
«C’è anche Nanga!» disse compiaciuta.
«Nanga?!? Ma chi è?» chiese Matilde con un velo di malizia.
«Ma è straniero??» la voce di Leone era permeata di perplessità.
«E’ un soprannome: Nanga da Nanga Parbat, un ottomila himalayano, il primo degli ottomila che lui ha salito».
«Allora è uno tosto!» sentenziò la ragazzina.
«Sì, è uno tosto» ammise sorridendo Hem.
Lady s’affrettò a spiegare: «Nanga e tuo padre facevano cordata insieme, tempo fa».
«Adesso non più?» la domanda di Matilde esigeva risposte certe.
«Adesso tuo padre preferisce venire in montagna con noi!»
Eppure non era solo quello il vero motivo.
Hem conobbe Lady quando già la sua voglia di alpinismo era in fase calante. Ogni cosa ha il giusto tempo nella vita: si gioca agli indiani, poi si va alla scoperta di altre, più difficili pareti. Si torna e lo stesso impegno, ci serve per costruire qualcosa, un lavoro, la famiglia, nuove e più importanti responsabilità. Non si rinnega la montagna, non le si voltano le spalle: lei è sempre là che ci aspetta.
Però, qualche cosa si era incuneato tra Hem e Nanga e, piano piano, li aveva allontanati inesorabilmente l’uno dall’altro.
Anche quella volta, uscendo dalla capanna, Nanga si chiese come mai a una donna così affascinante come Lady fosse piaciuto proprio Hem: per certi versi sapeva rispondersi e per altri no. Eppure Lady non è la solita svampita e se aveva preferito Hem a lui, Nanga, un qualche motivo doveva pur esserci.
«Allora a che quota sei, quante gite hai già fatto?» domandò Hem abbracciando calorosamente l’amico.
«Trentatré!» rispose con entusiasmo Nanga.
«Non male, per essere a febbraio!»
«Con ‘ste stagioni così strambe, bisogna approfittare di quando c’è la neve.»
La sala da pranzo, con i tavoli già apparecchiati, era piuttosto affollata. Sciatori di ogni generazione ed età si davano convegno ed i racconti delle proprie imprese si intrecciavano da un tavolo all’altro.
«Sapessi che farina!».
«Finalmente ce l’ho fatta a salire il Dom!”.
«Millecinquecento metri in due ore e quaranta!».
I bicchieri erano già abbondantemente utilizzati, quando suonò la campana della cena. Gli anatroccoli, un po’ impauriti dall’atmosfera, si sedettero tra i genitori.
Nanga, con abile mossa, si appropriò del posto a fianco di Lady. Hem era sufficientemente lontano, tre posti più in là, per non accorgersi che a Nanga tremavano le mani per l’emozione. In più, vicino ad Hem si era seduto quel vecchio brontolone di Aristide, un settantenne capace di macinare cinquantamila metri di dislivello a stagione: doveva raccontare ad Hem le sue ultime centocinquanta gite.
Nanga si buttò in un’animata conversazione con Lady, ma poi accadde qualcosa di imprevisto: Matilde chiese se le coperte del rifugio fossero davvero così ruvide da non riuscire a dormire.
Nanga inizialmente sorrise, poi avvertì un pugno allo stomaco e capì il diverso cammino che stavano percorrendo lui ed Hem. Capì quanto gli mancasse l’innocente ingenuità di un figlio che ti pone quella domanda.
Le sue riflessioni furono interrotte dal tintinnio di una posata battuta contro un bicchiere: il Presidente dello Ski Club chiedeva la parola.
Il discorso si dipanò lungo le solite tematiche istituzionali, quanti soci attivi, il numero delle gite, i metri di dislivello, ma non era che il preambolo per l’evento più atteso della serata: l’estrazione a sorte della Volpe per la gara dell’indomani.
Tutti i nomi dei soci vennero inseriti nel berretto di pelo e il Presidente si avvicinò agli anatroccoli, perchè fosse la mano innocente di un ragazzino a scegliere il biglietto.
Matilde introdusse la mano nel berretto e passò il biglietto al Presidente.
«Nanga!»
Hem fu il primo a congratularsi con l’amico: non è un compito facile, fare la Volpe.
Ma quella sera si faceva tardi. Lady accompagnò i
ragazzi al piano superiore.
Nelle camerette dominava l’odore di naftalina e Leone, già preoccupato per le
coperte ruvide, fece una smorfia di disappunto.
Hem si era attardato per un ultimo brindisi e quindi toccò a lui spegnere la luce, quando raggiunse gli altri nella cameretta al piano superiore. Al buio cercò la brandina di Lady e la baciò con la stessa intensità della loro prima volta, nonostante o, forse, proprio per tutti gli anni che erano trascorsi da allora.
«Grazie» le bisbigliò.
Quando suonò la sveglia, il mattino dopo, Nanga era già partito da un paio d’ore. La Volpe deve mettere spazio fra sé e gli inseguitori.
«Svelti, svelti…» Hem si sentì in dovere di incitare gli anatroccoli.
I ragazzi, che si erano addormentati da poco a causa delle coperte ruvide e dell’agitazione, non ne volevano sapere di alzarsi.
«Io non mi muovo di qua!» protestò Leone.
«Su, su, niente storie. Che razza di alpinisti siete!» il tono di Lady non ammetteva repliche.
Così, con un po’ di ritardo, si ritrovarono all’aperto che il sole era già alto.
«Allora, ragazzi, da che parte andiamo?» disse Hem quando stavano calzando gli sci.
«Da quella parte!» decise Matilde, alzando il bastoncino da sci.
«Ma bisogna salire…» protestò Leone.
«E di che ti lamenti, pappamolla!» lo stroncò la sorella.
Partirono e si immersero nel rado bosco innevato. Qua e là incontravano piste di animali e per distrarre il figlio, Hem lo convinse di essere un indiano a caccia sulle Montagne Rocciose.
Improvvisamente Matilde esclamò:
«La volpe, la volpe! Eccola là! Guardate laggiù!».
«Dove? dove?».
«Là, là! Sotto quei pini, dopo il valloncello».
Però nulla si muoveva e Leone la prese in giro:
«Ma chi ti credi di essere, Corvo Rosso? La caccia è un affare da veri uomini, smorfiosa!»
Hem e Lady si guardarono negli occhi e sorrisero. Non avevano bisogno di dirsi nulla, sorrisero e basta. Si incamminarono dietro quell’anatroccolo, che zampettava sui suoi scietti lunghi poco più di un metro.
Matilde rimase un po’ indietro, con l’orgoglio ferito. Ma non era convinta e volle andare a controllare: vide un altro movimento dietro a un larice.
«La volpe, la volpe!!!» urlò nuovamente.
Gli altri, più avanti, si voltarono, ma non potevano vedere bene, a causa di una gobba del terreno.
«Ma di nuovo…» la sbeffeggiò il fratello.
Matilde si lanciò in mezzo alla frasche e, saltando, tentò di afferrare la coda del berretto.
Ma lo mancò e piombò con la faccia nella neve. Tra le braccia teneva, invece del berretto di Nanga, una volpe, anzi, un cucciolo di volpe.
La bimba, per la delusione, scoppiò in lacrime.
«Ma io volevo la volpe, la vera volpe!» protestava.
«La vera volpe? – tentò di consolarla Hem – più vera di così!»
Dalla capanna giunse impetuoso il suono di un corno da caccia: la Volpe era giunta al traguardo, Nanga aveva vinto.
Ma non ebbe il tempo per festeggiare: salì di corsa sull’elicottero appena arrivato e che non aveva neppure spento i motori.
Alla Malpensa c’era pronto l’aereo per Katmandu: un nuovo Ottomila lo stava aspettando.
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Ottima iniziativa!
Avevo già letto “La mangiatrice di uomini” che avevi presentato una sera nella sede dello Ski Club Torino, ma è stata una buona occasione per andare a ripescare il libro.
La Capanna Mautino è stata per molti di noi un punto di partenza nella scoperta della montagna, dei veci che ci davano consigli e ci spiegavano come facevano il telemark, quello di Mario Santi. Ma è stata anche un luogo di trasmissione della nostra passione ed esperienza alle generazioni successive.
Mi ha fatto molto piacere constatare, in occasione dei festeggiamenti per i 100 anni, che la tradizione continua in maniera sostanziosa.
Fa sempre molto piacere ritrovarci insieme con componenti di tre generazioni contemporaneamente e con lo stesso entusiasmo, e in qualche modo la Capanna è stata anche una chioccia.
Grazie Carlo. Quanti ricordi..Da bambino era un appuntamento fisso per le gare sociali (che divertente la gimcana), per il capretto cucinato davanti alla Capanna o per la “bagna”. D’estate era una destinazione obbligata per 15-20 giorni. Ricordo che usavamo il campo bocce per giocare con le automobiline. Come dimenticare poi tutti gli amici di mio padre (non li nomino per non correre il rischio di dimenticarne qualcuno), che ammiravo per la loro capacità di andare in salita, mentre io scoppiavo immancabilmente dopo 10 minuti..
Giorgio Rossi says:
Bellissimo racconto quanti ricordi alla Mautino. Ho avuto il privilegio di frequentarla e conoscere persone come Barattieri, Muggia, Bottinelli Canonico
e Aruga. Quanti Capodanni trascorsi in allegria. Le gare di staffetta, la bagna cauda alla sera. Grazie per avere suscitato in me una grande emozione.
Bravo Carlo, hai saputo sintetizzare con efficacia il materiale che abbiamo raccolto, per noi le 2 giornate del centenario sono state un’esperienza intensa, tutti i gruppi di età erano presenti e siamo andati indietro nel tempo fino al 1920 quando i nostri fondatori avevano già creato un importante sodalizio e costruito il luogo più rappresentativo, la capanna
bravo Carlo,
mi hai fatto ricordare gli anni 50-60 quando già allora frequentavo la Capanna Mautino accompagnato fin da bambino da mio padre Vittorio, che con il “comandante” Emilio, suo cugino, Helmut Barth, Nicola Bottinelli, Giorgio Codri, Caviglione tutti amici e compagni di escursione di tuo padre Umberto. E poi come non ricordare Dino Barattieri, Renzo Muggia, Giacinto Collo, ecc. Non ho mai assistito alla caccia alla volpe, perché da poco non più effettuata per l’evoluzione della pratica dello sci, ma era comunque al centro dei discorsi dei vecchi soci dello Ski Club Torino.
Che bello leggere queste parole. La Capanna Mautino è da Sagnalonga la metà più comune per fare una passeggiata in tutte le stagioni e con ogni mezzo, sci da fondo o pelli, bici, a piedi, e a tutte le ore. Boschi e pendii meravigliosi, anche la domenica di fine febbraio ultima occasione quest’anno.. Papà ci portava spesso da piccoli. Grazie
stupendi articoli, grazie carlo crovella!
ed anche grazie a chi risponde come Roberto Aruga, il mitico Renzo Stradella, uno dei miei “savi anziani”… ect.
per un momento, grazie al vs. “intervento” mi avete allontanato ed un po’ distratto da questi problemi secondari del corona virus, ma non tanto.. (visto che stiamo lavorando H/24 per far rientrare a casa molte persone fuori Italia).
grazie veramente e complimenti a tutti per le belle foto…
Poco prima che scattassero le restrizioni per l’emergenza generale, ho fatto una gita in sci (l’ultima della stagione 2020? chissà…) proprio dalle parti della Mautino. Le precipitazioni piuttosto intense dei giorni precedenti avevano rinforzato non poco il manto nevoso, che sicuramente risalterà al meglio sotto il sole di oggi, primo giorno di primavera. Si stringe il cuore a rimanere in casa, pur con molti libri da leggere e innumerevoli progetti editoriali da concretizzare, ma il senso civico impone queste limitazioni, specie per il rispetto verso chi lotta in prima linea e verso coloro che purtroppo ci hanno salutato. In questi momenti ci consola la convinzione che la Mautino è sempre là che ci aspetta e presto torneremo a sciare da quelle parti.
Corre veloce il tam tam che in rete c’è un bellissimo articolo sulla Mautino e porta a questo sito anche lettrici come me che non ne conoscevano ancora l’esistenza. Splendido il testo: rende bene l’atmosfera della Capanna. Bello che esistano siti che danno spazio anche a chi vede la montagna in questo modo, senza essere interessato a gradi difficili, pareti impossibili, nuove imprese
Non è mia intenzione banalizzare questo blog a uno scambio di saluti tra vecchietti, ma quando un amico come Renzo Stradella si ricorda di te e ti saluta non è possibile far finta di nulla. Un grande ciao, con cordialità e stima.
Bravo Carlo, articolo ben scritto, comme d’abitude, e molto interessante. (Segue l’identificazione di una parte dei soggetti presenti nelle fotografie, i cui nomi sono adesso riportati nelle didascalie, NdR).
Ne approfitto per salutare molto cordialmente Roberto Aruga, giovane ragazzino (quando lo conobbi) scattante dello Ski Club Torino!
Se sei socio dello Ski Club Torino la capanna Mautino si identifica con i primi passi e le prime discese con gli sci a ti accompagna allo scialpinismo. Poi passa qualche anno e le grandi montagne e i grandi ambienti alpini diventano per molti un richiamo irresistibile e la capanna si allontana fino a scomparire. Salvo poi ritornarci molti anni dopo, quando le grandi montagne e i grandi ambienti alpini ti sono diventati ostili, mentre la capanna è sempre lì, sempre la medesima, pronta ad accoglierti. Quanto mai appropriato il ricordo da parte di Crovella in questo blog.
Quanti bei ricordi legati alla Mautino e che gioia leggere che in così tanti li condividiamo. Ottimo stile e scritti commoventi!
Questa narrazione riesce a sottolineare con efficacia il valore della montagna come veicolo immateriale per la trasposizione generazionale di valori etici ed esistenziali. Fenomeno meno diffuso di un tempo ma pur sempre valido anche oggi, anzi forse più ancora che nel passato. Una montagna non difficile, dove lo scopo non è la ricerca sportiva della performance, ma il saper coltivare armonia e compostezza, da trasferire poi nel resto del proprio vissuto. Saggio equilibrio nel testo fra informazioni storiche ed invenzione narrativa. Ecco un altro esempio di articoli di qualità, come quelli delle riviste dei tempi d’oro. Spero di leggerne altri.
Caro Carlo,
piacevole rievocazione dell’anniversario di una capanna così storica come la Mautino, un mito per lo Ski Club. Bellissimo il racconto che la conclude, molto dolce, in tema con la poudreuse, ma che racchiude esperienze di vita che molti possono condividere e ricordare. Grazie per una ventata di aria fresca, senza mascherina, per riprendere un altro commento.
oggi non pensavo di leggere il blog ma degli amici mi hanno segnalato questo articolo sulla mautino. leggendolo sono tornato ragazzino. mi sono commosso. bello
Sono un ragazzo di 20 anni, portato più volte alla Mautino dalla famiglia. È proprio come descritto. Appena possibile ci torno!
Bello, delicato e profondo. Bravo Charly!
stile accattivante e bei valori di una montagna sana. complimenti
Questi scritti sono come una boccata di aria pura (senza mascherina).
Grazie Carlo per questo bell’articolo così intenso