I lessemi* dell’alpinismo

I lessemi* dell’alpinismo
(tra corsi e ricorsi, più o meno storici)
di Luca Calvi

I grandi dell’alpinismo, soprattutto una volta arrivati nelle immediate vicinanze della cosiddetta età sinodale, si trovano spesso ad essere onorati con premi “alla carriera” o con gratificazioni che spesso celano il desiderio o la necessità di porre rimedio a onori non tributati o comunque ad una qualche mancata celebrazione precedente.

Non è certo questo il caso di Krzysztof Wielicki: il più grande alpinista polacco vivente è, infatti, ancora assolutamente in attività e alla pensione non pensa proprio. Apprezza sempre i premi che periodicamente gli vengono tributati, siano questi il Piolet d’Or alla carriera, il premio Princesa de Asturias, oppure un qualche altro riconoscimento sportivo-alpinistico da lui ricevuto in patria o all’estero.

Krzysztof Wielicki al Festival dello Sport, Palazzo della Regione, Trento, 23 settembre 2022. Foto: Daniele Paternoster / Archivio Ufficio Stampa Provincia autonoma di Trento.

In particolar modo apprezza i premi che fanno riferimento ad aspetti precisi della sua attività e questo permette di capire con più facilità la soddisfazione della leggenda polacca lo scorso giugno 2024, quando il Comitato Olimpico Polacco ha deciso di assegnargli il premio Fair Play. Il Presidente del Comitato, al momento della proclamazione, ha sottolineato che il “fair play, il gioco pulito e leale, la competizione e l’onestà sono principi che stanno alla base non solo dello sport ma anche della vita di tutti i giorni”.

Tratti caratteristici facilmente individuabili nella carriera e nella personalità di Wielicki, che già nel 2019 aveva ricevuto questo riconoscimento assieme a Denis Urubko per il salvataggio di Elisabeth Revol. L’asso di Katowice, allora a capo della spedizione polacca al K2, non esitò un momento ad inviare i suoi migliori uomini, tra mille problemi organizzativi, in soccorso alla Revol e a Tomek Mackiewicz, ben conscio di giocarsi, come poi avvenne, una buona finestra per un tentativo di vetta al K2.

Wielicki, ricevendo questo secondo premio Fair Play, ha deciso di condividerlo idealmente con tutti coloro che sono impegnati nel soccorso alpino e, più in generale, con chi decide che aiutare gli altri in pericolo ha sempre la precedenza su qualsiasi impresa.

Assieme a lui a ricevere tale premio sono stati anche altri nomi dell’alpinismo polacco, alcuni dei quali ben noti a chi segue le vicende dell’alpinismo sulle grandi montagne del mondo: Rafał Fronia, Marek Chmielarski, Jarosław Gawrysiak, Krzysztof Stasiak, Marcin Kaczkan e Grzegorz Borkowski.

Fin qui la notizia sembra presentare normalissimi tratti di cronaca e come tale è stata anche ripresa da alcuni singoli mezzi di informazione occidentali.

A qualcuno, tuttavia, non è sfuggito l’interesse offerto dalla seguente situazione: a insignire di tale premio degli alpinisti è stata la massima autorità sportiva di un Paese. Sottolineiamo il termine “sportivo”, legato più agli aspetti atletici ed agonistici che a quelli esplorativi ed introspettivi di una pratica, quella alpinistica, che in nessun modo può essere sottoposta alle regole o ai parametri delle attività sportive o delle discipline olimpiche.

Tanto Wielicki che un altro grandissimo dell’alpinismo polacco, Jerzy Kukuczka, non hanno mancato nei loro libri di descrivere il paradosso da loro vissuto nella patria Polonia (all’epoca membro del Patto di Varsavia), quando, per poter andare a respirare in qualche modo aria di libertà e poter “scrivere” la storia, tutti loro avevano dovuto ottenere l’appoggio statale ed alla fine avevano ricevuto la medaglia d’oro al valore sportivo una volta rientrati in patria dopo le varie singole imprese.

Non siamo di fronte ad un paradosso: nei Paesi come la Polonia e gli altri Paesi del blocco socialista, la cui rinascita “nazionale” ha avuto avvio solo dopo la fine della Prima guerra mondiale, l’istituzionalizzazione dei club alpini e della pratica dell’alpinismo (termine con cui riassumiamo in modo comunque impreciso le attività di montagna che andavano dall’escursionismo alle scalate, dall’arrampicata allo sci) è cresciuta di pari passo con la “nazionalizzazione” delle attività “sportive” in un modo non dissimile da quello che è possibile vedere nella Germania del Primo Dopoguerra e, mutatis mutandis, nell’Unione Sovietica soprattutto del periodo che fa seguito alla Seconda Guerra Mondiale.

I vincitori della Nord dell’Eiger, premiati dal Führer (fine luglio 1938). Da sinistra Anderl Heckmair, Ludwig Voerg, Adolf Hitler, Fritz Kasparek, Heinrich Harrer, x,y.

Tanto nella Germania che si appresta a diventare hitleriana che nell’URSS di Stalin e dei suoi successori, l’accento viene posto sul prestigio “nazionale” delle imprese dei grandi “atleti” che portano fin sulle vette più alte i colori ed i vessilli della Patria. A differenza delle ambizioni “imperialistiche” di Germania o URSS, i Paesi nati sulle ceneri della Guerra e ammaliati dalle sirene del nazionalismo (che porterà alla Seconda guerra mondiale e ai conflitti che perdurano nei Balcani e nel Caucaso, tanto per restare in area europea) ambiscono a lasciare la propria orma sulle vette prima delle Alpi e poi delle altre catene montuose del mondo. A fare ciò devono essere persone considerate “atleti” da uno Stato (non nazione, Stato!) che sappia riconoscere il valore “sportivo” delle imprese alpinistiche.

Curiosamente, a fare scalpore e a far scattare la discussione è il dibattito, risalente ai primi del Novecento, tra Eugen Guido Lammer e Heinrich Steinitzer, fautori il primo dell’alpinismo sportivo, atletico, con una filosofia permeata di superomismo nietzscheano e non solo, contrapposto all’alpinismo del secondo, visto come esperienza intima, personale, non inquadrabile in nessun ambito sportivo.

Questo dibattito avrà una notevole eco nel periodo interbellico e dopo la Seconda guerra mondiale in Polonia, Cecoslovacchia, e nella ex-Jugoslavia, in particolare in quella che negli anni ‘90 diventerà la Repubblica di Slovenia, accomunate dal fatto di vedere (con le dovute differenze di sviluppo per singolo Stato) le attività alpinistiche rientrare nell’ambito delle pratiche sportive “monitorate” dai vari comitati olimpici.

Questo breve excursus storico ha la pretesa di aiutare a capire un po’ più da vicino come alcuni fautori della libertà dell’alpinismo possano accettare riconoscimenti da parte di un ente (quello olimpico) che per sua natura dovrebbe essere invece avulso da un mondo, quello alpinistico, segnato dalla tensione alla libertà pressoché individualista e priva di regole, non incasellabile in risultati numerici.

Ancora una volta, però, a colpire l’occhio del linguista è la riproposizione, periodica, di lessemi e stilemi** tipici di una data epoca: con l’approssimarsi del settantesimo anniversario della “conquista” (leggasi “ascensione”) del K2 (leggasi ChogoRi o Dapsang, ma anche Godwin-Austen), è possibile vedere ricomparire frasi e termini che rimandano alla retorica nazionalista e/o imperialista del periodo interbellico, per nulla scomparsi, anzi, riproposti con ancora maggior vigore nel 1954 in occasione della vittoriosa spedizione.

Non stupisce, dunque, che in occasione della presentazione della spedizione a Milano e in numerosi incontri con la stampa, riferendosi alle alpiniste che partecipano alla spedizione “celebrativa” (come correttamente sottolineato al sottoscritto dal direttore Agostino da Polenza durante la cerimonia), venga usato, e forse abusato, il termine di “atlete”.

Non c’è alcun dubbio sulle capacità atletiche di professioniste della montagna come Anna Torretta, Federica Mingolla o Silvia Loreggian, alpiniste e guide alpine, e tanto meno sulle capacità di una alpinista di provata esperienza come Cristina Piolini.

La spedizione K2-70

Allo scrivente restano, invece, i dubbi sulla pomposa retorica e sull’abuso lessicale che più che talvolta pare emergere quando si parla di questa spedizione. Ben venga la celebrazione, ma preferiremmo sottolineare e festeggiare la grandezza dell’esperienza delle alpiniste piuttosto che far risorgere e rivivere la superomista pomposità arditodesiana, così come ci piacerebbe consegnare alla storia stilemi e lessemi di dubbia utilità e di sinistro (ma in realtà ultradestro) sapore di regime o post-regime.

Riassumendo il tutto, probabilmente anche al K2 (se sapesse leggere o scrivere, ma le montagne non ridono e non piangono, direbbe il mio amico Marco Berti) non dispiacerebbe un sano fair play nell’uso degli stilemi, dei termini usati e dei lessemi di un dibattito indebolito alla base proprio dal continuo tentativo di riportare all’attualità forme ed immagini da affidare alla storia per consentirne, invece, la rilettura senza la presunzione di poterla e saperla riscrivere.

* Lessema
Un lessema è, in lessicologia strutturale, l’unità minima che costituisce il lessico di una lingua. Dunque, a ogni lessema di una lingua può corrispondere la sua registrazione in un dizionario sotto forma di lemma. Sinonimo di “lessema” è unità lessicale; un termine più generico è vocabolo.

** Stilema
Lo stilema è l’elemento distintivo di uno stile. Il termine è usato per tutte le forme d’arte.

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I lessemi* dell’alpinismo ultima modifica: 2024-07-23T05:28:00+02:00 da GognaBlog

30 pensieri su “I lessemi* dell’alpinismo”

  1. Caro Franco (Trapani), in un mondo di chiacchieroni la concisione è virtú rara.
    Però non bisogna esagerare.  😀 😀 😀

  2. Bob Dylan non ha mai rifiutato il premio Nobel, semplicemente non lo aveva ritirato in quanto non era presente alla cerimonia. Ma qualche mese dopo, essendo a Stoccolma per dei concerti, ha partecipato ad una cerimonia privata dove ha ritirato il Nobel (pare che scorressero fiumi di champagne). Non solo, qualche tempo dopo, ha anche consegnato un discorso registrato che gli ha permesso di non perdere i circa 900.000 dollari del premio (i schei xe schei!). Quindi, caro Cominetti, rimetti pure Dylan tra i grandi che basta e avanza. D’altra parte ho notato che parlando non di alpinismo la fai spesso fuori dal vaso come conle famose frasi “la verticalità fa esercitare sulle rocce una maggiore gravità” oppure “sento che la forza di gravità aumenta enormemente se passo dal terzo grado al 7b” che ancora fanno rotolare dalle risate parecchia gente.

  3. Cambiano i tempi ma oggi come allora,l’alpinismo si presta alla diffusione di valori e comportamenti virtuosi che vengono ritenuti utili al bene della comunità. Da chi sono ritenuti utili? Per il tempo passato il chi è facilmente identificabile: il sistema del dominio politico dittatoriale. E oggi? Si potrebbe dire dalle stesse istanze di controllo dei comportamenti e dei costumi, insomma da un potere cammufato.
    Ovviamente la retorica individuale dell’alpijista storce il naso: l’alpinismo non è uno sport, è un percorso dello spirito bla bla bla.
    Però ciò che colpisce il grande pubblico – sponsor – è l’impresa “sportiva” la capacità di un corpo allenato a prove ardue, superiori alla media.
    La dimensione sociale, il valore dell’alpinismo sta proprio nel dimostrare, nel rendere possibile un plus dell’umano nel quale tutti possono riconoscersi e averne piacere

  4. Caro Luca, per questa volta ti perdono!
     
    P.S. Io porto il lambrusco.
    😀 😀 😀
     

  5. Caro Bertoncelli,
    faccio atto di contrizione e chiedo scusa a tutti i familiari di fonemi e morfemi da me proditoriamente obliati nella qui presente per nulla esaustiva trattazione.
    Sono disposto a fare ammenda ed a chiedere il perdono bertoncelliano davanti ad una bottiglia di Refosco!
     

  6. Come attività artistica e poetica l’alpinismo non è uno sport, alcune discipline sono diventate olimpiche quindi sportive ma non sono alpinismo. Si tratta di capire se lo sport possa raggiungere la comunicazione fra le anime, ma dove prevale la vittoria emerge il genio del campione non quello del poeta. Però va ricordato che molte discipline olimpiche hanno valutazioni artistiche, non c’é quindi una divisione netta, anche perché l’allenamento rigoroso e lo studio continuo,serve a tutti coloro che vedono nella eccellente capacità di aprire una via nuova, un motivo di crescita personale, individuale e collettiva. 

  7. Alla resa dei conti, caro il mio bel signor Calvi, lei ha volutamente escluso dalle sue argomentazioni i poveri fonemi.
    Difensore dei diritti di chi viene dimenticato, io questa ingiusta discriminazione (un po’ fascista? mah! chiedere a qualche noto forumista) non gliela perdonerò mai!
     
    Libero fonema in libero blog! 
    😀 😀 😀

  8. Grazie a Marcello Cominetti per l’apprezzamento e soprattutto per il solidissimo contributo.
    Un grazie a Stefano Michelazzi, cui però faccio notare che più elementare di così… L’alpinismo è fattore sociale, quindi esposto ad usi ed abusi lessicali e la mia analisi su ciò verteva. Chiamando in causa l’alpinismo degli albori (o dei pionieri), quello strutturato in organizzazioni più o meno asservite alle entità statali e quello attuale alla ricerca continua della definizione di ciò che è indefinibile (ovvero mettere regole e limiti all’anarchia del pensiero e della libera e singola comprensione di un’attività legata alla psiche prima che al fisico). Che mi venga pubblicata su Totem e Tabù, sull’Espresso o su Playboy non cambia la sostanza…. Ovviamente sto ridendo! Per Paolo Favero, invece, faccio notare di aver indicato  – secondo me chiaramente – quanto avvenuto nel periodo interbellico nella Germania nazista perché è lì che ha avuto luogo il dibattito tra sport e cultura da me accennato. La fascistizzazione italiota è strettamente collegata, certo, ma rientro nello spirito di quel periodo, cui ha fatto seguito la sovietizzazione ( o asservimento alle necessità del cosiddetto socialismo reale) nel secondo Dopoguerra. Lei ha perfettamente ragione, ma a riportare la questione della fascistizzazione avrei dovuto ampliare ulteriormente l’analisi lessicale uscendo dai limiti che mi ero imposto per questa sicuramente non esaustiva analisi che ha come unico scopo la presentazione della questione ai fini di una sana discussione, che peraltro ho visto subito avviata. Di nuovo grazie. 

  9. Grazia, le spedizioni alpinistiche composte da donne (escluse le cordate femminili) di solito falliscono perché le donne litigano tra di loro.
    Spero qualche esempio che non conosco smentisca le mie parole.

  10. Come sottolinea Paolo al commento 11., ciò che è avvenuto nei paesi citati dall’autore ricalca ciò che si è vissuto qui e certamente anche altrove, visto che la propaganda è in opera da un pezzo. 

    In sincerità, pur avendo letto con attenzione l’articolo, non ne ho colto il messaggio.

    Neppure ho inteso perché cominciare parlando di una dimensione che sembra essere lontana dall’alpinista onorato.

    In ultimo chiedo cosa ci sia di sbagliato nel dire “spedizione femminile”.

  11. Marcello,
    mi spiace contraddirti ma Bob Dylan ha poi accettato e ritirato, più o meno segretamente stando alla stampa, il premio Nobel.
    E per me resta comunque un grande, come lo sono Salvaterra e co. senza Piolet, come Wielicki con il suo Piolet alla carriera

  12. Socialmente utile non dev’essere per forza alla portata di tutti.

    Stefano, lo spero, anche se le tendenze di oggi cercano di andare in quella direzione.

  13. Matteo hai colpito nel segno!
    Alberto, a mio avviso l”alpinismo è socialmente utile, eccome. Ognuno col proprio credo, ognuno colla propria ambizione a realizzare i propri sogni, condivisi o meno. Socialmente utile non dev’essere per forza alla portata di tutti.

  14. Marcello, comunque l’alpinismo è un fenomeno sociale.

    Ma non socialmente utile. Altrimenti le vie dovrebbero essere  tutte plasir.

  15. Marcello, comunque l’alpinismo è un fenomeno sociale, legato a un tempo e a una data società,  a prescindere da come o cosa pensino gli alpinisti o dal perché lo praticano.
    Credo che Stefano intendesse questo
     

  16. Caro Stefano, l’alpinismo può anche ritenersi un fenomeno sociale ma mentre lo pratichi e sei precario su una parete in culo al mondo, sei tu con in mano la tua vita. O la tua morte, che in quel momento sono la stessa cosa.
    Esempio: chi apre le vie ed è felice che i ripetitori si divertano e si congratulino con l’apritore, possono avere pure una connotazione sociale, ma chi apre le vie o sale comunque le montagne per il proprio piacere e null’altro (e io mi considero tra questi), e magari non lo dice a nessuno, di sociale ha ben poco.

  17. L’ articolo di dimentica di affermare come nel periodo fascista sia accaduto quanto denunciato negli stati socialisti dell’Est Europa nel dopoguerra e nella Germania nazista. I nostri alpinisti, alcuni senza desiderarlo, furono fascistizzati e premiati come esemplari figure della Patria Nazione.

  18. Certo che sta spedizione “femminile” alla normale del K2 organizzata dal Cai per i 70 anni della prima salita, con annessi e connessi: corde fisse, materiale per i campi portati su dagli Sherpa e quant’altro, magari qualche bomboletta di ossigeno ci scappa pure, mi sembra una spedizione stile Desio e Cai di 100 anni fa!!! Potevano chiamarla pure spedizione commerciale. L’alpinismo in Karakorum e Himalaya secondo me è altra cosa, con tutto il rispetto per le partecipanti.  Byeee
     

  19. Per favore rimuovete la foto nazista è del tutto inutile e non aggiunge nulla al contenuto…puzza terribilmente di clickbait…nella migliore delle ipotesi.
    grazie

  20. E ci metto anche il rifiuto del Nobel da parte di Bob Dylan, che da grande artista è passato alla dimensione di immenso. Almeno per me.
    Penso che il vero valore di qualsiasi cosa sia quello che gli possa attribuire chi, quella cosa, conosce a fondo e non chi ne può valutare solo superficialmente l’effetto sociale che provoca.

  21. Marcello hai ragione da un punto di vista ma vorrei poter correggere il tuo commento (forse fatto troppo a caldo…?)
    L’alpinismo non è solo fatto individuale, è anche fatto sociale. È una filosofia di vita ovvero movimento umano o umanistico, seppure in questo secondo significato, il concetto sia molto complesso, che riguarda molteplici settori. 
    Rifiutare un premio come il “Piolet d’Or”  non significa solo dare valore al concetto individuale ma al contempo garantire una connotazione sociale.
    Anarchia. È dico tutto.

  22. Bonsignore, rifiutare un premio significa non riconoscerne il valore e credere nell’alpinismo non come fatto sociale ma individuale. Chapeau a chi lo fa!

  23. Caro Luca mi sa che… o devi scrivere più  elementare, oppure postare su “Totem e tabù”…
    La questione politica, culturale e reazionaria della spedizione femminile al K2 (e femminile la dice lunga per ciò che riguarda la propaganda…), non è tema alpinistico… l’alpinismo qui è una vittima sacrificale.

  24. Perche’ Salvaterra e gli altri rifiutarono il “Piolet d’Or”, e perche’ questo rifiuto deve essere considerato come un esempio di “fair play” in alpinismo?
    A scanso equivoci: la domanda non e’ retorica o provocatoria, mi interessa davvero cercare di capire 

  25. È  sempre gradevole leggere  delle imprese di uomini che hanno rappresentato la vera natura dell’ alpinismo, cioè  l’amore per la conquista  della montagna  fine a se stesso, e non alla sua ricaduta sociale.

  26. Articolo interessante, anche perché dotato del dono della sintesi, che, oltre a mettere l’accento sull’inquadrabilità dell’alpinismo nell’ambito dello sport, mette in evidenza l’importanza del fair Play non solo nell’attività svolta ma anche nella vita di tutti i giorni.
     
    Capisco l’accettazione di buon grado dei premi che Wielicki riceve, ma si tratta di una (ottima) persona che ha sulla pelle le tracce di un regime totalitario che per la sua età non è troppo lontano.
    Certamente poi non si può parlare di “stile” o tantomeno di fair Play quando si organizzano spedizioni ottocentesche (non me ne vogliano le protagoniste ma so che la pensano così anche loro) sulle orme di Desio.
     
    Il più bell’esempio di fair play nell’alpinismo, secondo me, è stato quello di Ermanno Salvaterra, Rolando Garibotti e Alessandro Beltrame quando hanno gentilmente rifiutato il piolet d’or per la loro via El Arca de los Vientos sul Cerro Torre.
    Evento passato in sordina come i tanti attribuibili ai veri mostri dell’alpinismo che restano perlopiù sconosciuti alla massa e che si dedicano al loro alpinismo che non hanno tempo di occuparsi di premi e social. Per fortuna ce ne sono molti e il loro agire fisico e morale fa si che il vero alpinismo non muoia mai.

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