Giotto Dainelli, fu uno dei massimi geologi, geografi ed esploratori italiani del XX secolo. Sue terre d’elezione furono l’Africa Orientale, dove si recò nel 1905-1906 e nel 1936-1939, e il Karakorum, dove fu nel 1913-1914 e nel 1930. Giotto Dainelli fu membro di spicco della spedizione che, sotto la guida di Filippo De Filippi, esplorò nel 1913-1914 l’India settentrionale, il Bàltistan, il Làdak, l’Asia Centrale e il Turchestan Russo-Cinese. Fra le più importanti scoperte geografiche, merita menzionare l’individuazione da parte di Giotto Dainelli della sorgente del fiume Yarcand in Tibet. Nel 1930, Giotto Dainelli fu nel Tibet occidentale e nel Karakorum orientale. Questa spedizione nacque anche per il rammarico della mancata spedizione al K2 che si sarebbe dovuta tenere nel 1928 sotto la sua guida. Nel presente studio è riportata la storia della mancata spedizione del 1928 al K2 che è inquadrata nell’epopea del Gigante del Karakorum.
Il K2 di Giotto Dainelli
di Paolo Ascenzi
(testo della relazione che l’autore tenne nel 2018 in occasione del Convegno Commemorativo di Giotto Dainelli, a cinquanta anni dalla scomparsa)
I testi originali sono in corsivo.
Giotto Dainelli, geologo, geografo ed esploratore, come volle essere ricordato sulla sua pietra tombale, fu uno dei massimi naturalisti italiani del XX secolo. Sue terre d’elezione furono l’Africa Orientale, dove si recò nel 1905-1906 (Dainelli, 1943) e nel 1936-1939 (Dainelli, a cura di, 1938-1943; Dainelli, 1939), e il Karakorum (o meglio, come lui asseriva dovesse essere scritto, il Caracorùm), dove fu nel 1913-1914 (Dainelli, a cura di, 1922-1934; Dainelli, 1924; De Filippi, 1924; De Filippi, a cura di, 1925-1935) e nel 1930 (Dainelli, 1932). Le esplorazioni e gli studi condotti da Giotto Dainelli e dai suoi collaboratori furono materia di opere imponenti come i sedici volumi che riguardano principalmente il Karakorum (Dainelli, a cura di, 1922-1934; De Filippi, a cura di, 1925-1935), i sette volumi inerenti il Lago Tana (Dainelli, a cura di, 1938-1951) e i quattro volumi relativi alla geologia dell’Africa Orientale (Dainelli, 1943). Tale fu la rilevanza degli studi di Giotto Dainelli che portano il suo nome una trentina di specie fossili e quattro viventi.
Giotto Dainelli fu membro di spicco della spedizione che sotto la guida di Filippo De Filippi, con la partecipazione del Ten. Vascello Alberto Alessio (Comandante in seconda e geodeta), Giorgio Abetti (astronomo, geodeta e geofisico), Ten. Camillo Alessandri (metereologo), Ten. Genio Cesare Antilli (fotografo), Olinto Marinelli (geografo), Nello Venturi Ginori (metereologo), i topografi inglesi John Alfred Spranger e Henry Wood e la guida alpina Joseph Petigax, esplorò l’India Settentrionale, il Bàltistan, il Làdak, l’Asia Centrale e il Turchestan Russo-Cinese. Fra le importanti scoperte geografiche, merita menzionare l’individuazione da parte di Giotto Dainelli della sorgente del fiume Yarcand in Tibet (Dainelli, a cura di, 1922-1934; Dainelli, 1924; De Filippi, 1924; De Filippi, a cura di, 1925-1935). Scrive Maria Mancini “Non si può non riconoscere che […] pur non essendo una spedizione ufficialmente a lui intitolata, fu Dainelli a lasciare un’impronta fortissima e determinante nella storia dell’impresa. Senza il suo impegno, i risultati sarebbero stati ben più modesti perché […] non solo svolse una mole di lavoro che ha dell’incredibile, ma fu senz’altro, come gli fu riconosciuto, di esempio e di sprone per il lavoro di tutti (Mancini, 2009)”.
Di tutt’altro tenore, ma di non minor rilevanza, fu la spedizione, che oggi si direbbe leggera, che Giotto Dainelli condusse nel Tibet Occidentale e nel Karakorum Orientale nel 1930 con la forte alpinista e sciatrice, viaggiatrice e naturalista Sig.na Elly Kalau von Hofe, il mio amico dal tempo della Spedizione De Filippi Hashmatullah Khan e gli ufficiali dell’Istituto Geografico Militare Cap. Alessandro Latini e Ten. Enrico Alfonso Cecioni. A questa spedizione, Giotto Dainelli aveva invitato a partecipare anche il vecchio scolaro Ardito Desio che purtroppo gli fu tolto dai suoi doveri in Italia (Dainelli, 1932). Questa spedizione nacque anche per il rammarico della mancata spedizione al K2 che si sarebbe dovuta tenere nel 1928 sotto la sua guida (Dainelli, 1952). Nel presente studio è riportata la storia della mancata spedizione del 1928 al K2, inquadrata nell’epopea del Gigante del Karakorum.
Il K2, Chogori in lingua balti, entra ufficialmente nella storia nel 1856 quando Thomas George Montgomerie, Lieutenant-Colonel del Great Trigonometrical Survey of India, individua una serie di vette altissime nella regione del Karakorum e le denomina con una sigla composta dalla lettera K (Karakorum) e da un numero progressivo (K1 o Masherbrum, K2 o Chogori, K3 o Faichan Langri o Broad Peak, ecc.) (Montgomerie, 1857). Nel 1861, Henry Haversham Godwin-Austen giunge in vista del K2, redige la prima carta sinottica della regione e descrive la via di accesso al gigante del Karakorum (Godwin-Austen, 1864).
La prima ascensione del K2 (8611 m), che ebbe luogo il 31 luglio 1954 ad opera di Achille Compagnoni e Lino Lacedelli sotto la guida di Ardito Desio (Desio, 1954), fu preceduta da numerosi tentativi che si spinsero fino a poco meno di 250 metri dalla vetta nell’arco di 60 anni.
Sebbene, nel 1890, l’esploratore-alpinista valdostano Roberto Lerco, originario di Gressoney, sia il primo a spingersi fino alle pendici del K2 e forse a salire un breve tratto dello sperone sud-est (Sale, 2011; Tenderini, 2014) e, nel 1892, Sir Martin Conway, 1st Baron Conway of Allington, avesse effettuato la prima puntata esplorativo-alpinistica (Conway, 1894), i primi a tentare la salita del Grande Dominatore del Baltoro, come lo definì Giotto Dainelli (Dainelli, 1952) furono, nel 1902, Oscar Eckenstein, Aleister Crowley, Guy Knowles, Heinrich Pfannl, Victor Wessely e Jules Jacot Guillarmod che ne salirono la cresta nord-est fino a circa 6600 metri (Jacot Guillarmod, 1904; Crowley, 1929; Pfannl, 1929).
Il 1909 vide il tentativo della spedizione guidata da Luigi Amedeo di Savoia Duca degli Abruzzi che con le guide alpine e i portatori valdostani Joseph Petigax e Laurent Petigax, Albert Savoye, Ernest Bareux, Alexis Brocherel, Henry Brocherel ed Emile Brocherel salì lo sperone sud-est, che da allora porta il suo nome, fino a circa 6000 metri (S.A.R. Il Principe Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, 1912). Seguì poi un lungo oblio fino al alla fine degli anni ’30 del XX secolo quando il K2 sembrò diventare appannaggio degli alpinisti americani che tentarono la salita lungo lo Sperone Abruzzi di quella che chiamarono The Savage Mountain. Nel corso della spedizione del 1938, diretta da Charles Snead Houston, William Bill Pendleton House superò il difficile passaggio che oggi porta il nome di Camino Bill. Furono installati sette campi e Paul Kiesow Petzoldt raggiunse la quota di 7925 metri (Bates, 1939).
Il 1939 vide la spedizione guidata da Fritz Wiessner che collocò nove campi lungo lo Sperone Abruzzi. Fritz Wiessner e Pasang Dawa Lama, lo sherpa futuro primo salitore del Cho Oyu (Tichy, 1955), raggiunsero senza fare uso di ossigeno l’incredibile quota di 8370 metri (Wiessner, 1955). Nel corso della discesa morirono Dudley Francis Cecil Wolfe e tre sherpa: furono le prime vittime del K2.
Charles Snead Houston diresse anche la spedizione del 1953 durante la quale, dopo aver piazzato otto campi, gli alpinisti salirono fin quasi a 7800 metri di quota. Durante la discesa morì Arthur Karr Gilkey (Huston and Bates, 1955).
Il 1928, avrebbe dovuto vedere, con il patrocinio del Comune di Milano nel “decennale della vittoria”, due spedizioni geografiche, l’una destinata a raggiungere il Polo Nord al comando del Generale Umberto Nobile e l’altra la vetta dell’Everest sotto la guida di Giotto Dainelli (Dainelli, 1952).
Scrive Giotto Dainelli: Può forse apparire strano scrivere di una spedizione che, in fin dei conti, non ha avuto luogo. Ma, per la Storia, può essere interessante ricordare come era stata immaginata e come non è stata poi compiuta… (Dainelli, 1952).
… Il Podestà Belloni, alla presenza dei due miei rapitori e di pochi altri testimoni mi annunciò solennemente che la Citta di Milano aveva deciso di farsi promotrice, per l’anno successivo, di due grandi Spedizioni di valore morale: al culmine della Terra, vale a dire al Polo, e alla cima più alta nella quale la superficie della Terra sembra quasi sublimarsi, vale a dire al Monte Everest nell’Himàlaja al confine col Tibet di Lasa. Della prima Spedizione dava il comando al Generale Nobile, ed a me quello della seconda. Probabilmente, però, dopo avergli espresso la mia profonda gratitudine per la fiducia che mi dimostrava, devo avere dato una grave delusione al Podestà di Milano. Il Monte Everest, lo avvisai subito senza esitazioni, era un monte “tabù”: a Londra, in seno a quella Società Geografica, esisteva un Comitato che aveva proprio per scopo la conquista di quel monte; tre Spedizioni erano già state fatte in anni successivi, ed altre ne sarebbero state tentate. Era da escludersi, assolutamente, che gli Inglesi, volere o no dominatori del mondo indiano, avrebbero fatto concedere permessi per una Spedizione organizzata in una nazione diversa dalla loro, quando essi avevano il merito dello studio preliminare degli approcci alla montagna, vi avevano già fatto diversi tentativi, vi avevano lasciato i loro morti, vi avevano raggiunto un notevolissimo “record” di altezza, e, sopra tutto, non avevano rinunciato alla loro meta. Anche se il permesso, per avventura, fosse stato dato, io avrei comunque sconsigliato il tentativo all’Everest. Era noto che, nella terza Spedizione inglese, Mallory e Irvine non avevano fatto ritorno dal loro estremo tentativo verso la cima. Si era insistito sulla supposizione che essi fossero caduti dopo raggiunta la loro meta, sulla via della discesa: non vi erano, però, argomenti per sostenere questa ipotesi di vittoria conquistata, anche se poi non potuta godere. Comunque, uno dei loro compagni, rimasto ad un campo più basso, affermò di avere veduto Mallory, mentre saliva, ad un’altezza di circa 8600 metri; ed esisteva la fotografia di un salitore solitario, forse lo stesso Mallory, mentre si trovava arrancando, non per difficoltà della montagna, ma solo dell’atmosfera rarefatta, verso gli 8500 metri. Anche avendo ricevuto ogni necessario permesso per condurre una spedizione all’Everest, dove in tre volte successive i più forti alpinisti inglesi avevano fallito, si sarebbe rischiato di non raggiungere nemmeno quel “record” dell’altezza su di una montagna, che, dopo essere stato del Duca degli Abruzzi e colto nel Caracorùm, era passato agli Inglesi e non appariva facilmente superabile per i molti imprevisti della montagna così alta e sopra tutto del clima. Sarebbe stata, dunque, una probabile sconfitta … (Dainelli, 1952).
… Come campo d’azione scelsi il ghiacciaio Baltoro nel Caracorùm Centrale: nel suo bacino superiore esso ha una cerchia maestosa di montagne; tra le quali non mancano cime di 8000 metri; non vi mancava una gloriosa tradizione italiana, per la Spedizione che nel 1909 aveva fatto cogliere al Duca degli Abruzzi il “record” d’altezza sulle spalle nevose del Bride-Peak … (Dainelli, 1952).
L’obiettivo scelto da Giotto Dainelli fu dunque il monte detto K2, gigantesca piramide di roccia e di ghiaccio, che raggiunge gli 8611 metri … Se più di una spedizione esplorativa del Baltoro era giunta in vista del gigante, due sole avevano tentato il suo assalto: nel 1902 Guiilarmod e Wessely per la così detta “Cresta Est”, breve contrafforte in parte roccioso, che si spenge nel Godwin Austen, staccandosi presso la quota 6821 dalla “Cresta Nord-Est”, che sarebbe quella che unisce il K2 allo Staircase e costituisce parte della linea di spartiacque della catena del Caracorùm; i due alpinisti salirono per più di 1000 metri fin dove la cresta, fattasi prevalentemente nevosa, attenua molto la sua ripidità: ma di lì dovettero scendere nuovamente al loro campo-base sul ghiacciaio Godwin Austen. Nel 1909 il Duca degli Abruzzi salì, per rocce, la così detta “Cresta Sud”, una di quelle che formano come una raggiera di tenue sporgenze nella parete meridionale del K2 e in alto raggiungono, intorno alla quota 7728, la grande spalla nevosa dalla quale si diparte anche la “Cresta Nord-Est”; l’augusto alpinista stabilì un campo leggero fermandovisi per pochi giorni, ma poi le difficoltà incontrate nell’ulteriore salita per rocce scoscese e impraticabili per i portatori, lo indussero a rinunciare al tentativo.
Ma il primo risultato delle discussioni avute con Vittorio Sella, avendo sempre presenti le meravigliose sue fotografie, fu che la via tentata dal Duca fosse da escludersi senz’altro: meno ripida e meno ghiacciata nel suo tratto inferiore, ma ertissima e difficile più in alto, addirittura precipitosa più in alto ancora, sotto la grande spalla ghiacciata … la preferenza rimaneva a favore della via per la “Cresta Est” [successivamente indicata come cresta nord-est] per quanto tentata ma fallita, dal Guillarmod e dal suo compagno.
È una via, infatti, che indubbiamente presenta dei vantaggi: parte da un campo-base posto sul ghiacciaio Godwin Austen a circa 6000 metri, all’inizio inferiore della cresta, la quale non è una semplice sporgenza nella precipitosa parete della montagna, ma corrisponde al culmine di un vero e proprio, per quanto breve, contrafforte. La salita appare sicura sino a grande altezza, come del resto, almeno in parte, è risultata al Guillarmod, con la possibilità di stabilire comodi campi se non altro col metodo inaugurato dal Bauer; la via contrariamente a quella per la “Cresta Sud-Est” ed in specie a quella per la “Cresta Sud” è riparata dal vento d’Occidente, sempre temibile e frequente al di sopra dei 6000 metri; è innevata e poco ghiacciata sopra quasi tutto il suo percorso, ma non sembra esposta a facili valanghe; forse più difficile in quel suo tratto nel quale la “Cresta Est” si inserisce nella “Cresta Nord-Est”, ma neppure qui, almeno apparentemente, insuperabile … (Dainelli, 1952).
La via della cresta nord-est fu esaminata con gran cura da Giotto Dainelli sulla scorta delle fotografie scattate da Vittorio Sella nel corso della spedizione del Duca degli Abruzzi del 1909 (S.A.R. Il Principe Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, 1912) e i suoi tratti salienti evidenziati nella Figura 1 (da Dainelli, 1952) e descritti come segue:
1) Dal campo-base sul ghiacciaio Godwin Austen al punto A, via quasi sempre su neve e facile, con dislivello complessivo di circa 700 metri.
2) Dal punto A al punto B, via pure su neve e apparentemente facile, con dislivello di circa 600 metri; la cordata Guillarmod nel 1902 si fermò presso a poco a metà cammino di questo tratto (vedi stella nella foto n. 3).
3) Dal punto B al punto C il dislivello e di circa 450 metri; è necessaria certamente molta circospezione per evitare eventuali valanghe, giacché la via, tutta per ghiaccio, sul principio è a debole inclinazione, ma poi, fino al punto C, diviene molto inclinata.
4) Dal punto C al punto D il dislivello è soltanto di circa 250 metri; il tratto corrisponde alla inserzione della “Cresta Est” nella “Cresta Nord-Est” è quindi più movimentato dei tratti precedenti, e richiede sicuramente molta esperienza su creste di neve e di ghiaccio.
5) Dal punto D al punto E, dislivello di circa 300 metri sulla grande spalla nevosa; devono esservi scarse difficoltà, ma data l’inclinazione del ghiaccio e la presenza di pareti di roccia più in alto, sono necessarie favorevoli condizioni della neve, perché sono possibili valanghe e certamente presenti crepacci che oppongano serie difficolta alla avanzata.
6) Dal punto E al punto F, con dislivello di circa 300 metri, e dal punto F alla cima, con dislivello di un centinaio di metri, la salita non sembra debba presentare speciali difficoltà. Una variante potrebbe far raggiungere dal punto E, sempre di traverso alla grande spalla nevosa, il punto G … e quindi la cima …
Un aspetto interessante attentamente valutato da Giotto Dainelli fu la scelta dei componenti della spedizione che, a differenza di quanto fino ad allora si era attenuto il Duca degli Abruzzi che si avvalse sempre di guide alpine e portatori valdostani, optò per accademici del CAI: … io pensavo che i tentativi di assalto alla conquista delle cime d’oltre 8000 metri dovessero essere fatte da cordate di questi nostri alpinisti “puri”, di “accademici” cioè, giacché, a parità di esperienza tecnica, le “guide” alpine hanno essenzialmente la superiorità della conoscenza di quelle montagne in mezzo alle quali sono nate e cresciute e si sono fatte un lungo esercizio professionale, già come “portatori”; ma condotte lontano in regioni spesso sconosciute anche per mancate letture, in condizioni meteorologiche e climatiche diverse da quelle della loro “piccolissima patria” dei monti ove son nate, ritengo che, salvo le debite eccezioni, siano inferiori ad alpinisti di pari esperienze tecniche, i quali abbiano il soccorso di una ben maggiore cultura e quello di una passione pura, non sollecitata da interessi pratici di carattere professionale. Per questo, io pensavo che all’impresa dovessero partecipare tre cordate di “alpinisti accademici”, di prima scelta … (Dainelli, 1952)
Certamente Giotto Dainelli precorse i tempi individuando tempi e modalità attuali con cui gli alpinisti avrebbero dovuto operare: Pensavo, anche, che i tentativi per la conquista della cima, che fosse meta dell’impresa, dovessero essere rapidissimi, evitando cioè un lungo soggiorno preliminare nel campo-base sul Baltoro. Vi è chi crede e magari sostiene che una relativamente lunga sosta prima di iniziare l’ascensione serva da acclimatamento. La mia opinione è decisamente contraria: ci si acclimata gradualmente nel viaggio di approccio, di circa un paio di mesi dalla pianura indiana del Pungiab al ghiacciaio Baltoro fino ai suoi 6000 metri di elevazione; ma non bisogna credere che questo graduale acclimatamento non rappresenti uno sforzo dei nostri organi per adattarsi a condizioni di ambiente tanto diverse da quelle che ci sono abituali. Credere che, prolungando lo sforzo, l’adattamento organico aumenti è una pura illusione; anzi, col passare del tempo, avviene il fenomeno contrario, forse anche più rapido e più intenso nei suoi effetti: giacché, appena lo sforzo di adattamento non può essere più continuato, allora subentra un rilassamento generale che può avere conseguenze anche assai gravi. Per questo io ritengo, oggi ancora, che Spedizioni, le quali abbiano sopra tutto scopi alpinistici, cioè la conquista di altissime cime, non debbano prevedere un periodo destinato al così detto acclimatamento, ma anzi, appena giunte sul campo della propria attività, un’azione quanto più rapida possibile compatibilmente con le condizioni meteorologiche e dell’innevamento. Devono prevedere anche, e cosi io avevo preveduto, non una sola squadra, o cordata, d’assalto per la conquista, ma due o tre od anche più. Una fallisce? Subito sia sostituita da un’altra fresca … (Dainelli, 1952).
Si impone, alla luce dell’attento esame del testo di Giotto Dainelli (Dainelli, 1952), la domanda: “la salita della cresta nord-est, così come era stata concepita, sarebbe stata possibile nel 1928?”. La storia non è fatta di se, ma l’esame degli accadimenti successivi del K2 può dare qualche risposta anche in relazione al fatto che la cresta nord-est fu salita soltanto nel 1978 e l’uscita diretta aspetta ancora di essere ascesa.
Innanzitutto è bene esaminare il tratto definito come forse il più difficile da Giotto Dainelli nel quale la “Cresta Est” si inserisce nella “Cresta Nord-Est”, ma neppure qui, almeno apparentemente, insuperabile (Dainelli, 1952). Le fotografie della cresta nord-est riportate dalle spedizioni polacca del 1976 ed americana del 1978 indicano chiaramente non soltanto i pericoli dovuti alle cornici aggettanti e l’assoluta ripidezza dei fianchi (Figura 2), ma anche l’estrema precarietà dei campi in quota; in tale contesto è appropriata l’affermazione degli alpinisti americani: “We were climbing on the edge of a knife”. (Ridgeway, 1980; McDonald, 2011; McDonald, 2017).
Dopo il già menzionato tentativo del 1902 (Jacot Guillarmod, 1904; Crowley, 1929; Pfannl, 1929), la cresta nord-est del K2 fu tentata nell’agosto 1976 dalla forte spedizione polacca guidata da Januz Kurczab e formata da Eugeniusz Chrobak, Leszek Cichy, Andrzej Czok, Ryszard Dmoch, Janusz Ferenski, Kazimierz Glazek, Marek Grochowski, Andrzej Heinrich, Janek Holnicki-Szule, Piotr Jasinski, Piotr Kintopf, Jan Koisar, Marek Kowalczyk, Wojciech Kurtyka, Andrzej Lapinski, Tadeusz Laukajtys, Janusz Onyszkiewicz e Wojciech Wróż. I polacchi posero sei campi e tentarono la salita diretta della cresta in direzione nord, facendo uso dell’ossigeno soltanto sopra gli 8000 metri. Il 14 agosto, Leszek Cichy e Janek Holnicki-Szule raggiunsero la base di un salto di roccia e ghiaccio estremamente difficile alla quota di 8230. Il giorno successivo, Eugeniusz Chrobak e Wojcieck Wróż superarono il passaggio chiave e giunsero alla quota di 8400 metri alle sei di sera; il rapido peggioramento del tempo, l’ora tarda e la scarsità dell’ossigeno impedirono loro di raggiungere la vetta (Kurczab, 1979; McDonald, 2011; McDonald, 2017).
Il 1978 vide l’agguerrita spedizione americana guidata da James Jim W. Whittaker e formata da Craig Anderson, Cherie Bech, Terry Bech, Chris Chandler, Skip Edmonds, Diana Jagersky, Louis Lou Reichardt, Rick Ridgeway, Dianne Roberts, John Roskelley, Robert Schaller, William Bill Sumner e James Wickwire salire la cresta nord-est. Sei campi ed un infruttuoso tentativo di salita diretta convinsero le cordate di punta a spostare il campo 6 in direzione dello Sperone Abbruzzi e salire in vetta per l’ultimo tratto della via degli italiani del 1954. Il 6 settembre raggiunsero la vetta Louis Lou Reichardt e Jim Wickwire e il giorno successivo Jim Wittacker e John Roskelley: The world curved away, in all directions, falling away, below his feet. No wind. No Clouds. Cerulean sky, brilliant sun. Nothing quite real, the feeling of a dream. Louis Lou Reichardt fu il primo uomo a salire il K2 senza fare uso dell’ossigeno (Ridgeway, 1980).
La cresta nord-est è riemersa dall’oblio nell’inverno 2018-2019 ad opera della spedizione, guidata da Alex Txikon e formata da Felix Criado, Pawel Dunaj, Marek Klonowski, Nuri Sherpa, Hallung Sherpa, Chhepal Sherpa, Geljen Sherpa e Pasang Sherpa, che ha scelto questa via per il suo tentativo invernale (Montagna.tv, 2019)
Il coinvolgimento di Giotto Dainelli nell’ideare la spedizione al K2 del 1928 fu pari all’amarezza che si riscontra nelle sue parole quando decise di rinunciarvi: … ebbi presto la sensazione che qualche rotella non girasse, o piuttosto girasse mentre avrebbe dovuto restar ferma; e siccome la responsabilità era mia, non potevo sopportarlo e senz’altro rinunciai al comando della Spedizione (Dainelli, 1952).
Nel 1928, l’Italia perse una grande occasione, forse irrealizzabile, per entrare fin dagli albori nella storia degli 8000 come avevano fatto gli inglesi, i francesi e i tedeschi tentando le salite dell’Everest, del Kangchenjunga, del Hidden Peak e del Nanga Parbat. Poi, fra il 1950 e il 1964 furono saliti in rapidissima successione tutti i giganti dell’Himalaya e del Karakorum e l’Italia fece la sua parte conquistando il K2 nel 1954. La parte del leone fu fatta dagli alpinisti austriaci che salirono in prima assoluta ben cinque dei “quattordici 8000” inaugurando lo stile leggero e in solitaria, il cui epigono fu Hermann Buhl (Fantin, 1964; Buhl, 2007).
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Come fosse una “nemesi storica” sulla prima pagina della “Stampa” del 4 agosto 1954, che titola a caratteri cubitali “La vetta del K2 conquistata dalla spedizione italiana del Prof. Desio”, è mostrata, con molti errori, l’immaginaria via di salita percorsa dagli italiani, ma non si tratta dello Sperone Abbruzzi bensì della cresta nord-est.
Nella mia libreria c’è un volume prezioso, trovato nel reparto vintage di una grande catena. Lo agguantai guardandomi intorno, come avessi paura me lo rubassero sotto il naso, poi mi resi conto che non avrebbe interessato nessuno. Lo portai via, in salvo, per pochi euro e profuma ancora leggermente di muffa.
E’ un vechio volume UTET, “Esploratori e alpinisti nel Caracorum”, anno 1959.
Giotto Dainelli lo scrisse per la vecchia collana “La conquista della Terra – Esploratori ed esplorazioni” da lui stesso diretta.
Profuma di altri tempi, di altri modi di pensare, di un altro mondo. Leggerlo, benché sia un testo di erudita etnologia e geologia, illumina la fantasia come un libro di Salgari.
Ma quest’ultima, è una mia fantasia. Concedetemela.