2. Il Tour si è fatto perché «c’è il WWF»
Nel suo sfogo contro l’associazionismo ambientalista, Jovanotti pone upfront che «la primissima cosa che abbiamo fatto» iniziando a progettare il Jova Beach Party «è stato contattare il WWF». Non ci dice di cosa abbia parlato con la grande organizzazione ambientalista: non ci fa vedere, per esempio, un vademecum di sostenibilità da rispettare nell’organizzazione del tour, né una valutazione caso per caso delle location scelte elaborata dagli esperti del comitato scientifico di WWF Italia. A dispetto della dichiarata «totale trasparenza», non vediamo niente di tutto questo: dobbiamo farci bastare il nome del WWF messo avanti come uno scudo che difende dalle critiche – soprattutto se arrivano da soggetti che denunciano o si mobilitano “dal basso” – e resetta l’intera discussione.
Jovanotti, in breve, ci dice: se c’è il WWF non serve agitarsi. Lui ci crede: ci pensano loro. E pertanto ci dovremmo credere anche noi.
A dire il vero, WWF Italia – stando a quanto riportato nella presentazione della suo partecipazione al Jova Beach Party e nelle FAQ approntate come strumento per «chiarire i dubbi [tradotto: le critiche] più frequentemente circolati in particolare sui social» – pare esprimere una posizione più defilata.
Il WWF, così si legge, ha deciso di «partecipare» al JBP perché, coinvolgendo centinaia di migliaia di persone, sarebbe stato «una grande occasione unica […] per sensibilizzare quante persone possibile sul tema dell’inquinamento da plastica». Nella sezione del sito «Domande e risposte» troviamo scritto anche:
«Ci siamo quindi impegnati, attraverso la nostra competenza scientifica e l’esperienza maturata in tanti anni di lavoro sul campo, affinché il tour si svolga nel rispetto degli habitat e delle specie viventi».
Dalla lettura dei paragrafi con le iniziative adottate tappa per tappa, emerge in modo chiaro che il WWF ha lavorato per garantire la riuscita del JBP. La giustificazione addotta – citiamo testualmente, con tanto di doppio avverbio – è: «Il tour si sarebbe comunque fatto ugualmente».
Noi non sappiamo con quanto anticipo rispetto alle proteste il WWF abbia «chiesto e ottenuto» che venissero spostate alcune date e location o venissero «messi in sicurezza» alcuni siti particolarmente delicati, ma è sicuro che se qualcosa è stato fatto lo si deve anche alle associazioni e alle singole persone che hanno alzato la voce. Lo stesso WWF scrive che «tutto questo lo abbiamo fatto anche confrontandoci con la LIPU (in particolare per quanto riguarda la nidificazione del Fratino) e raccogliendo le considerazioni di altre organizzazioni locali e nazionali».
Ma il punto dolente resta: per il WWF gli impatti del mega evento sono «possibili» e di volta in volta gestiti in modo da risultare «non significativi»: gli impatti ci sono stati ma è stato messo tutto a posto. Il WWF ha lavorato per «ridurre i possibili impatti sia relativamente alle localizzazioni che rispetto ai criteri generali di gestione dell’evento». A essere ignorato qui è l’impatto che sicuramente c’è stato durante i concerti: possibile che la colonia di fratini di Rimini si sentisse tranquilla grazie alla presenza della rete e della sorveglianza di volontari e carabinieri forestali? «I possibili impatti» sono davvero stati ridotti? Oppure, come spesso accade, le raccomandazioni fornite non sono state sufficienti? Chi lo verificherà? In altre parole, chi validerà il successo o il disastro socio-ambientale della formula JBP?
Va anche fatto notare che nessun riferimento al WWF è presente nella presentazione del tour sul sito di Trident, che appunto il tour produce e organizza. Un’unica avvertenza per il pubblico pagante, sepolta tra le numerose informazioni per chi parteciperà all’evento (acquisto biglietti, indicazioni su cosa siano e come funzionino i «token», la “moneta” spendibile all’interno dell’area del concerto, o “cosa non portare”):
«Il Jova Beach Party è un evento che si inserisce in un contesto naturale unico: organizzatori e partecipanti sono consapevoli che l’ambiente deve essere preservato, rispettato e curato. Ci impegniamo per limitare al minimo il nostro impatto e lasciare i luoghi che ci ospiteranno puliti e integri. Così come li abbiamo trovati. Insieme».
Prima di proseguire, è bene ribadire un concetto fondamentale: il «puliti e integri» non è una condizione sufficiente ad annullare le conseguenze sul «contesto naturale unico» di un evento di tale portata. Tutt’altro.
Non è una novità che le partnership con grandi organizzazioni ambientaliste vengano utilizzate dal business per ottenere una sorta di “licenza sociale”, un salvacondotto per portare avanti attività altamente impattanti per l’ambiente e il clima, realizzare grandi opere devastanti, e operare in ambienti naturali altrimenti off-limits.
In questo senso, davanti alle spiagge e montagne d’Italia la macchina organizzativa Trident e l’artista-socialmente-responsabile si sono probabilmente posti la stessa domanda di una multinazionale mineraria davanti a un giacimento di rame, di oro, di ilmenite. E se il giacimento si trova sotto la foresta amazzonica, o sotto una foresta tropicale tra le più ricche in biodiversità al mondo, la loro domanda sarà comunque: come faccio a metterci sopra le mani, nonostante l’inevitabile compromissione/distruzione?
Che si tratti di industria mineraria o di show business, i capitalisti sanno bene che le grandi organizzazioni ambientaliste rispondono perfettamente alla necessità di rendere giustificabili attività dal pesante impatto ambientale, permettendo al business di salvare capra e cavoli, procedendo nonostante tutte le criticità e i pericoli. I più navigati avranno già sentito ossimori come sustainable mining (estrazione mineraria sostenibile), riferiti a miniere a cielo aperto di rame o di ilmenite che di sostenibile non hanno e non possono avere proprio niente.
Per quanto riguarda la posizione del WWF Italia, in un’intervista rilasciata dopo il Grande Sbrocco di Jovanotti la presidente Donatella Bianchi ha ricondotto le ragioni delle critiche rivolte alla sua associazione a un fraintendimento e nulla più: «L’idea che il WWF rilasciasse le autorizzazioni, quelle spettano agli organi competenti».
È una risposta che nulla spiega. È ovvio che le autorizzazioni del caso le rilascino le autorità competenti, nessuno poteva fraintendere questo punto. Invece crediamo sia più che sensato fare presente che il “metterci il logo” da parte di una grande associazione ambientalista sia un fattore non neutro nelle valutazioni delle autorità competenti, così come certamente pesa sull’opinione pubblica.
Ma occorre allargare il campo. Nel suo libro La buona educazione degli oppressi Wolf Bukowski, tra le altre cose, parla anche della funzione svolta in chiave di “turistificazione” dal marchio Unesco riconosciuto a città, borghi, siti archeologici, interi gruppi montuosi (le Dolomiti!).
Oltre all’incremento dei flussi turistici, conseguenza del valore attribuito al luogo dalla certificazione di “qualità”, spesso il marchio Unesco serve a giustificare, anche sul piano delle conseguenze sociali, tutte le attività di estrazione di valore legate al mercato turistico: “airbnbzzazione”, espulsione dei residenti dai centri storici tirati a lucido, “bonifica” del territorio da venditori ambulanti e/o negozietti di alimentari gestiti da immigrati, applicazione di Daspo urbani e ordinanze antidegrado, ecc.
Il marchio Unesco, in virtù di quanto detto sinora, sta sostituendo il concetto, ritenuto antiquato, di «riserva naturale» o «parco naturale». Concetto che danneggia il mercato, o quantomeno non lo favorisce. Mentre un parco è lì per chiunque ed è esplicitamente pensato in quei termini, da una riserva finalizzata all’estrazione di valore i poveri verranno esclusi. Al massimo ci lavoreranno come inservienti di qualche tipo – e per questo “privilegio” dovranno pure ringraziare, un po’ come i volontari del Jova Beach Party (vedi anche https://gognablog.sherpa-gate.com/voglio-il-tuo-sudore/, NdR).
Parlare degli effetti sociali devastanti di simili «certificazioni» è necessario anche per capire cosa sia oggi il greenwashing.
3. Il nuovo greenwashing: da narrazione diversiva a condicio sine qua non dell’estrazione di valore
C’è stato un tempo in cui il lemma «greenwashing» identificava le campagne con cui l’impresa privata comprava una nuova immagine, a fronte di una percezione pubblica negativa del suo business.
Oggi questa prassi è un ingrediente indispensabile della ricetta con cui soggetti pubblici e privati si ritagliano un preciso posizionamento valoriale. Greenwashing, una spolverata di CSR, un pizzico di marketing, abbondanti pubbliche relazioni… Il campo della crisi ecologica è uno dei terreni oggi meno divisivi – ovvero, sul fatto che sia in corso una crisi ecologica siamo d’accordo più o meno tutti – ed è quindi campo privilegiato per questo genere di operazioni.
Il greenwashing non è più una “pezza” messa in un secondo momento, una mano di vernice verde per abbellire l’immagine di un business già esistente, ma un condono preventivo indispensabile ad avviare un business di tipo nuovo, che parte già dipinto di verde, perché senza il “verde” non estrarrebbe valore.
Questo avviene in un contesto generale nel quale lo stesso cambiamento climatico diviene strumento di potere agito esplicitamente dal capitalismo. Come scrive Matteo De Giuli in un post intitolato Chi scommette sul disastro:
«[…] le crisi sono sempre momenti ambivalenti per il capitalismo – se da un lato rappresentano un rischio per la sopravvivenza del sistema, dall’altro sono anche occasioni per creare nuove opportunità di profitto. E così, davanti a una crisi potenzialmente letale come quella climatica, che potrebbe portare a ridiscutere le basi di un sistema non più sostenibile, il sistema stesso si sta riorganizzando per trovare nuovi modi di riassorbire l’emergenza senza doversi per questo mettere in discussione».
Chicco Testa, del quale ci occuperemo tra poco, lo dice esplicitamente in questa intervista:
«Aumentano le aziende che abbracciano una strategia di crescita in cui la variabile ecologica ha un peso rilevante e non solo per adeguarsi alle norme ambientali sempre più stringenti, ma perché da un punto di vista del business sono i consumatori, il mercato in generale, che lo chiedono. E che premiano appunto quelle che fanno scelte sostenibili. Non si tratta più semplicemente di greenwashing, semplice cosmesi di comunicazione, ma di scelte consapevoli prese nei consigli di amministrazione».
Per tornare alle certificazioni: il fatto che Jovanotti sbandieri di essere «WWF approved» non solo è pienamente coerente col discorso sul filantrocapitalismo, ma ci fa compiere un ulteriore passo giù per una china pericolosa. Oggi alcune entità, istituzioni e organismi si arrogano il diritto di fornire patenti di «sostenibilità ambientale», ricevute le quali si potrà avviare qualunque business.
Le agenzie che valutano l’impatto ambientale esistono da tempo, ma finora valutavano l’impatto di aziende, opere pubbliche, infrastrutture, attività produttive ecc. Qui siamo oltre: la retorica usata da Jovanotti col beneplacito di un’organizzazione come il WWF – che, per quanto grande e con migliaia di soci, può avere posizioni politiche controverse e non condivise da tutti – giustifica, pittandolo di verde, un grande evento privato e a scopo di lucro che danneggia un patrimonio ambientale collettivo.
Fatte le debite distinzioni, si tratta della medesima dinamica rilevabile con l’introduzione delle certificazioni biologiche nella filiera alimentare: patentini sempre più ambiti e nel contempo sempre più vuoti, con cui si è finito per perdere totalmente il percorso del «cibo sano ed etico» per arrivare a un mero «marketing biofriendly». Il mercato delle certificazioni e della «brand reputation» introduce meccanismi che sostituiscono, anzi, istituzionalizzano la fiducia. Non sono più capace di guardare un pomodoro al mercato e capire quanto sia sano, men che meno ho la possibilità di stabilire un rapporto umano con il contadino? Ecco, mi affido a un marchio.
Non sono capace – per quanto possa suonare incredibile! – di capire da me se un Grande Evento – ruspe ed escavatori a preparare il terreno, TIR carichi di materiali, montaggio di grandi strutture e impianti, affluenza di decine di migliaia di persone, decibel in libertà, ecc. – abbia o meno un impatto grave su una zona umida, un ecosistema di dune o un ambiente d’alta montagna? Ecco, mi affido a un marchio. Mi affido, dunque compio un atto di fede. Il WWF condona preventivamente il mio peccato, e io vado al concerto in pace.
Nella narrazione di Jovanotti + Trident + WWF tutto è andato liscio finché qualcuno non ha iniziato a porre domande non sottomesse all’atto di fede. Domande che non rinunciavano a priori alla contestazione, a monte, del “modello” in cui può essere inquadrato il Jova Beach Party, tantomeno si accontentavano di rassicurazioni sulla raccolta dei rifiuti in materiale plastico.
4. Il Grande Evento come Grande Opera “green”
Ampio spazio ha ricevuto sui media quello che è stato definito lo «sfogo» di Jovanotti, pubblicato su Facebook il 2 settembre scorso. È il caso di riportarne qui il passaggio più citato:
«Non mi sarei mai aspettato, nonostante non sia un ingenuo rispetto a questo genere di cose, che il mondo dell’associazionismo ambientalista fosse così pieno di veleni, divisioni, inimicizie, improvvisazione, cialtroneria, sgambetti tra associazioni, protagonismo narcisista, tentativi di mettersi in evidenza gettando discredito su tutto e su tutti, diffondendo notizie false, approfittando della poca abitudine al “fact checking” di molte testate. Il mondo dell’ambientalismo è più inquinato dello scarico della fogna di Nuova Delhi!».
Quest’invettiva è stata presentata dai media come uno sfogo giustificato. Per la presidente di WWF Italia, parte doppiamente in causa, le parole di Jovanotti sono «comprensibili» e «ci hanno messo davanti ad uno specchio, a domandarci chi siamo veramente e come vogliamo lottare per salvare il mondo.»
Ma, come abbiamo riportato sopra, questo sfogo era stato preceduto il 9 agosto da una prima esternazione di Jovanotti, sempre via Facebook, a seguito dalle mancate autorizzazioni per la data di Vasto del suo tour:
«A Vasto ha vinto il fronte del NO, quello di cui l’Italia è pervasa. Quello che rende il Paese immobile e fa in modo che il ‘sommerso’ resti sommerso nell’interesse di molti. JBP è un luogo sicuro, la sicurezza è sempre stata al primo posto, ma a Vasto non hanno voluto verificare. A Vasto la commissione ha detto NO, a prescindere. In Italia a volte le cose vanno così lo sapete, ma io non mi rassegno, molti di noi non ci rassegniamo».
«L’Italia dei NO» è un leitmotiv che ben conosciamo, perché regolarmente brandito contro ogni istanza di salvaguardia dei territori, e soprattutto contro chi, persone o movimenti, lotta per queste istanze. Si tratta di un’immagine falsante, smentita dai dati sul consumo di suolo in Italia, che registrano una costante crescita, e dalle politiche «sviluppiste» e infrastrutturanti che rispondono alle richieste del core business del capitalismo italiano, tutto cemento e tondino. L’espressione «Italia dei NO» serve solo a delegittimare a monte ogni discorso critico e ogni forma di opposizione sociale e politica alla devastazione dei territori.
Nel suo Un viaggio che non promettiamo breve, a proposito della retorica sull’«Italia dei NO» Wu Ming 1 scrive con uno sguardo retrospettivo:
«In tutta Italia, come in altri paesi, lottavano comitati, coordinamenti, movimenti di lotta popolare, gruppi che si opponevano a grandi opere ritenute dannose, inutili e imposte dall’alto: autostrade messe lì a far nulla, trafori perché traforare è bello (il buco! il buco!), stazioni perché dànno lustro, megacentri commerciali senza commerci, ponti gettati tra Scilla e Cariddi, imprescindibili costruzioni che nel giro di pochi anni si rivelavano ecomostri e toccava demolire col tritolo… Opinionisti, politici e affaristi raccontavano un’”Italia dei No”, paese dove non si riusciva a costruire nulla, nazione da “sbloccare” perché accidiosa e nemica del fare, il fare, sempre il fare, non importava a quale scopo, viva il fare. Si sfornavano leggi per spingere, accelerare, rimuovere gli ostacoli, fare! […]
Se si badava ai fatti, l’Italia era l’opposto: un paese di sì detti con noncuranza e di “opposizioni postume”, lamentele tardive, indignazione a scempi ormai compiuti».
La dichiarazione di Jovanotti «a Vasto ha vinto il fronte del NO» conferma che, se messi alle strette, i difensori del Jova Beach Party come di qualunque altro Grande Evento – ne vedremo delle “belle” con le Olimpiadi invernali che si terranno tra Lombardia e Veneto nel 2026 – adottano le medesime giustificazioni usate per far passare le Grandi Opere Dannose, Inutili e Imposte.
Come logica conseguenza, si additano gli stessi nemici. Non a caso Il Foglio – tribuna del peggiore sviluppismo e di un esplicito negazionismo climatico – ha coniato un neologismo per collegare tra loro No Tav, No Tap, No Triv e «No Beach». A dispetto dell’intento denigratorio, l’intuizione non era peregrina, solo che andrebbe applicata al campo avverso: è il Jova Beach Party ad avere molti aspetti in comune col traforo in Valsusa o le trivelle in Adriatico. A cominciare dalla retorica usata per difenderlo.
A riconferma di ciò, si consideri di nuovo la posizione del WWF nel dar conto della propria partecipazione al grande evento: «Il tour si sarebbe comunque fatto ugualmente». È la medesima logica che vale per tutte le grandi opere inutili e imposte: ciò che s’è deciso di fare dev’essere fatto, e lo si deve fare perché così s’è deciso. Questo è, testualmente, l’argomento univoco e passepartout delle cosiddette «madamine» sì Tav.
Insomma, prima si descrivono le grandi opere come “eco-friendly”; se questo non basta, si impone dall’alto l’idea che siano inevitabili.
5. Non c’è «scienza ambientale» che tenga senza il conflitto
Nei giorni seguenti al Grande Sbrocco di Jovanotti, tra i tanti articoli pubblicati e per la quasi totalità tesi a ricondurre quelle parole a ragionevole presa di posizione, va segnalato un corsivo a firma di Chicco Testa – l’indimenticato «ce tocca shit e pure radioattiva ma tanto il nucleare è di sinistra», attualmente presidente di FederAmbiente – pubblicato sull’edizione de Il Mattino del 4 settembre 2019.
Ben poco originali le argomentazioni, le stesse che si potevano leggere su quasi tutti i giornali in quei giorni: «[…] il combinato disposto fra la gelosia per il WWF e la voglia di farsi notare a tutti i costi ha prodotto una guerriglia mediatica che ha mandato fuori dalle grazie di Dio il solitamente mite Lorenzo nazionale».
Si tratta di un entusiastico endorsement a Jovanotti, o di un bacio della morte, a seconda di come vogliamo vederla. Qui è ancora più esplicito il piano di cui si diceva poc’anzi:
«Ce li ricordiamo i NoTriv, NoTap, NoNuke, NotTav, NoTube, NoWaste, NoHydro e via negando? Non gli è parso nemmeno vero di potere rompere il plauso e il consenso che la bella iniziativa di Jovanotti stava sollevando tra i giovani scagliandogli in faccia tutte le specie animali e vegetali che abitano le spiagge italiane».
L’arroganza e la tracotanza di questo corsivo confermano la correttezza dell’equivalenza «Grandi Opere = Grandi Eventi»: la colpa è dei No Tav e «via negando». Quella di Chicco Testa è una forma di negazionismo radicale: non solo ricusa la validità delle ragioni di chi si oppone a tante opere inutili e dannose, ma nega tout court che possano esistere ragioni per essere contrari a grandi opere. Nella sua lettura – forse autoriflettente – tutto si riduce a vanità e gelosia, nonché a «oscurantismo di massa», per dirla col sottotitolo di un suo – e di Sergio Staino – libro pubblicato nel 2017.
La ricetta di questo rappresentante degli interessi di grandi aziende energetiche è, ancora una volta, il presunto «pragmatismo» capitalista che maschera il realismo capitalista. L’invito ad affidarsi a «chi se ne intende», a chi sa risolvere un problema spassionatamente, col ricorso all’innovazione tecnologica e basandosi sulla realtà di fatto, è una mela avvelenata. Per farcela mangiare si rimuove il fatto che, nella cornice attuale, la «competenza» e la «lucidità» di chi andrebbe delegato a risolvere i problemi, l’«innovazione tecnologica» e la stessa «realtà di fatto» non sono affatto «neutre», ma sono inserite in – e plasmate da – rapporti di produzione, di classe, di potere.
Nel citato corsivo, Testa avalla esplicitamente l’affermazione di Jovanotti «l’ecologia è una scienza, se si trasforma in un terreno di scontro fra tifoserie è un danno per tutti». Quest’approccio scientifico-fideista propaganda scienza e tecnica come verità al di sopra della politica e delle contraddizioni sociali, quando invece sono socialmente, storicamente e politicamente connotate. Siccome il comitato scientifico del WWF si è espresso, allora si può star certi di essere nel giusto, senza perdere tempo a problematizzare criticamente il perché e il percome il WWF si sia espresso.
Un approccio deleterio, tossico, che confligge totalmente con una pratica di studio e condivisione del sapere «in basso» come quella, per esempio, del tanto odiato movimento No Tav della Valsusa, una delle punte d’avanguardia del movimento ecologista italiano. In quell’ambito, la ricerca e la condivisione orizzontale della conoscenza hanno fatto sì che una larga, molto larga, fetta di persone che non sono “scienziati di professione” riescano a padroneggiare complesse argomentazioni tecniche e scientifiche, senza mai verniciarle di presunta neutralità, anzi calandole in un contesto di critica politica.
Lo abbiamo sentito ripetere troppe volte il cliché tecnocratico «Non ci sono soluzioni di destra o di sinistra, ci sono solo soluzioni giuste», «le buone soluzioni sono apolitiche», ecc. È falso. Non sono possibili «buone» soluzioni se non si riconosce l’esistenza del conflitto. Ciò vale anche per la buona comunicazione scientifica.
Non c’è lotta al negazionismo climatico senza lotta alle «grandi opere». Questo il titolo, che Alpinismo Molotov sottoscrive, di un articolo di Wu Ming 1 recentemente pubblicato su Jacobin Italia. Nella parte conclusiva si legge:
«Le grandi opere sono negazionismo climatico applicato, investono ancora su questo modello di sviluppo, su un futuro visto come prolungamento lineare del presente».
Anche il Grande Evento Jova Beach Party, risultato del dispositivo combinato Jovanotti™+ WWF + partner commerciali (come lo sponsor E.on) è negazionismo climatico applicato, perché racconta e diffonde una narrazione rassicurante del futuro come prolungamento lineare del presente, un futuro “green” garantito dalle buone pratiche – ovviamente individuali, del singolo consumatore – e dal «pensare positivo».
Postilla. E non hai ancora visto niente
Giunti oramai alla fine di questo tour, il dato veramente positivo è che molti non hanno sposato il presobenismo/perbenismo jovanottiano e nemmeno le toppe «comunque ugualmente» messe dal WWF. Al contrario, hanno agito con la convinzione che il Grande Evento si sarebbe dovuto fermare, per la tutela collettiva di un ambiente naturale che è prima di tutto parte di una comunità. Ambiente messo a rischio e stravolto in nome del business, di un interesse privato spacciato per «grande festa» e nobilitato da un messaggio “eco-friendly”.
Che mille ostacoli si innalzino, che cento barricate blocchino le strade dei futuri Grandi Eventi. L’«Italia dei No» è una narrazione tossica, eppure eppure eppure… Se un’Italia che dice No cominciasse a unirsi davvero…
milioni di serrature
non riuscirebbero a tenerci chiuso
il cuore.
* Alpinismo Molotov è un collettivo sparso tra Alpi e Appennini, nato nel 2014 su Giap nel corso di intense discussioni intorno a due libri di Wu Ming: Point Lenana e Il sentiero degli dei. Questa «banda disparata» ragiona su – e cerca di mettere in pratica – modi di andare in montagna depurati da machismi, nazionalismi, esasperazioni sportive e degenerazioni commerciali. AM ha un blog tutto suo, è su Twitter e su Facebook, e ogni due anni organizza una festa galattica, «Diverso il suo rilievo».
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Caro Motta, ma se era già “stato commentato in altro articolo” perché tornarci sopra in maniera identica? Preferisco di gran lunga i racconti di Gogna sulle sue avventure alpinistiche di gioventù che gli articoli-fiume che trasudano banalità pallosissime e culturalmente improduttive come quelli proposti ultimamente. Ognuno ha i suoi gusti.
A parte che l’articolo non è nuovo per i lettori di questo blog (l’avevamo già commentato in altra occasione), a mio modesto parere il succo del discorso è tutto qui:
“… un grande evento privato e a scopo di lucro che danneggia un patrimonio ambientale collettivo.”
Poi si possono cercare tutti i se, i ma, i però e i peli nell’uovo che si vuole, si può difendere Jova (poverino), si può bollare l’articolo come veterocomunista o troppo lungo, ecc. ecc.
Resta il fatto che o si è a favore di questi eventi o si è contrari.
Io sono contrario.
Ma si Bertoncelli, meglio un sano capitolo di Karl che ‘sti Molotov che si parlano addosso per kilometri senza riuscire a dire nulla. In quello sono bravi.
Reinhard Karl, secondo me era di sinistra. Partecipava a manifestazioni indette dall’estrema sinistra perché era un alpinista estremo. (da: Tempo per respirare, ed. Dall’Oglio)
Alessandro e tutti voi, scusatemi: mi accorgo che a volte vado fuori tema. Succede quando la mente incomincia a vagabondare per conto suo, quasi senza che io me ne accorga, e cosí il dito si spinge subito sulla tastiera per fissare i pensieri quando ancora questi corrono a briglia sciolta.
Alla faccia del “greenwashing”. 😂😂😂
A suo tempo lessi con tanto interesse i due libri che Reinhard Karl ci ha lasciato: sono stupendi, soprattutto il primo, in cui è narrata la sua storia. Li consiglio vivamente a tutti i giovani alpinisti affinché possano formarsi una cultura, non solo di montagna.
Fu uomo di sinistra? di destra? Davvero non me ne sono mai accorto, e nel giudicare un essere umano ciò comunque ha ben poca importanza; lui non gli diede alcun peso. Certamente però – ed è quel che conta – fu un libero pensatore, anticonformista, di sentimenti onesti e di animo sensibile; sensibile soprattutto nei confronti di alcune delle cose che dovrebbero essere fondamentali nella vita di chiunque.
Questi sono tra i piú bei complimenti che io possa fare a una persona.
Karl riuscí a trovare la sua strada e in piú ebbe la capacità e il coraggio di seguirla. È vero che purtroppo ciò gli costò la vita, ancor giovane, ma credo che sia stato solo per sfortuna. D’altra parte la vita appartiene al singolo (non alla patria, come invece si pensava una volta; non a Dio, come certuni credono tuttora) e ritengo giusto che ciascuno abbia il diritto di assecondare i propri ideali.
Tuttavia con una famiglia è innegabile che si abbiano pure doveri verso di essa, a maggior ragione nel caso di figli. Karl aveva una compagna, con la quale spesso arrampicava. Fu egoista nei suoi confonti? Proprio no: lei stessa scrisse toccanti parole d’amore a ricordo del compagno perduto.
D’accordo con Daidola, of course. Dopo la lettura di questi due polpettoni (che coraggio) sono diventato un fan di Jovanotti. Che come ad esempio Bennato, Guccini, De Gregori, De André, Roger Waters, (l’elenco sarebbe lungo) è negato a suonare la chitarra, ma inventa armonie e parole emozionanti, uniche e irripetibili. L’effetto finale dell’Arte, è quello che conta. Che un artista riponga nel WWF la speranza che il suo appoggio sia coscienzioso sul lato ecologico, lo capisco. Perché tu artista ti devi preoccupare che la musica si crei e diffonda in modo da essere gradevole e sferzante, e mica è una cosa da poco!!! Prendersela poi con i Live Aid organizzati da Geldof aggiungendo che (anche!) al G8 di Genova lui, Jova e Bono (che a me non è simpatico per svariati motivi, ma vabbè), stessero dalla parte sbagliata delle barricate, è decisamente patetico. Aggiungerci pure la morte di Carlo Giuliani (poveraccio) e il fatto che il WwF non abbia dato delle specifiche ambientalistiche sulle diverse location (cosa che legalmente non gli spettava), significa infine che si sta strumentalizzando tutto, ma proprio tutto, per la propria propaganda.
Alpinisti (?!) Molotov invece di citare Wu Ming, leggetevi semmai Reinhard Karl, uno che la pensava sanamente a sinistra ma che in montagna ci andava sul serio! Secondo me se andaste in montagna un po’ di più vi farebbe bene. Finisco facendo il profondo antipatico con una bella domanda: ma che grado fate? Aaaaahhhhhggghh.
Forse era meglio limitarsi ai punti 2 e 3 di corretta analisi, il resto è propaganda politica e tentativo perdente di fare di tutta l’erba un fascio.
Vengo da un’epoca in cui vidi nascere l’ambientalismo, il movimento verde, ne vidi le premesse e poi i fallimenti, politici e morali. Fa impressione, ad uno come me, che si occupa di divulgazione scientifica per professione, leggere come si siano evolute le cose, quanto si sia tornati indietro. L’analfabetismo funzionale e quello di ritorno sono fenomeni inquietanti in un contesto come questo. Mentre gli sforzi di comunicazione attiva verso i bambini e i ragazzi, mirano più a creare cittadini già ben eco-disciplinati alle nuove forme del capitalismo e del consumo green, più che indipendenti e consapevoli donne e uomini pensanti il loro rapporto con la Natura vera.
Vi confesso. Dopo 30 anni che lavoro in questo campo, sono avvilito. E non ho più ricette. (Non è vero, ma lasciatemi lamentare un po’ prima di rimettersi al lavoro).