Il paradiso perduto
(scritto nel 1994)
Lettura: spessore-weight**, impegno-effort*, disimpegno-entertainment***
Tradotto letteralmente dal tedesco, Rosengarten significa “giardino delle rose”. Sia Karl Felix Wolff che altri letterati identificano con Rosengarten proprio quel regno di Re Laurino che ci è tramandato da un’antica saga tirolese, legata al ciclo dei Nibelunghi, Laurin oder der kleine Rosengarten. Un avvicinamento poetico ma arbitrario. Altri studiosi, ad esempio Carlo Battisti, hanno con forza cercato di eliminare questa confusione, sostenendo che Rosengarten deriva da rose e Grat. Quest’ultimo è vocabolo tedesco che significa cresta, diventato poi gart per metatesi. Rose invece è ennesima variazione di quel grigionese gruosna (buco, crepaccio) o del prelatino rosa (ghiaccio) dai quali derivano Arosa, Rosetta, Rosolé, fino al più noto Monte Rosa. Il tedesco Garten (giardino) ha anche altro significato, quello di “pascolo chiuso tra rocce”: ma non sembra che il Gartl, come è chiamata la conca ghiaiosa tra Croda di Re Laurino e vetta principale, abbia potuto mai essere un pascolo. Questo darebbe ragione al Battisti: Gart e il diminutivo Gartl derivano da Grat, non da Garten. Quanto a Catinaccio sembra ormai assodato che derivi dal ladino Ciadinàc, cioè “grande ciadìn”. Questo è il nome della casalinga scodella rotonda di legno: volendo individuare geograficamente il “catino” roccioso cui ci si riferì, si può pensare o alla grande conca di Gardeccia (ancora Gart e Garten!) o ai due caratteristici catini rocciosi che contornano la vetta del Catinaccio al di sopra del versante est.
Ho sempre camminato molto e vorrei continuare a farlo, per affacciarmi a davanzali sempre diversi e prendere confidenza con un mondo sospeso dove fatica e pensieri per qualche tempo scompaiono e le immagini scorrono così fluide senza mai inciampare nelle interruzioni: idee che non sono pensieri ma fantasia. Il vero camminare è sempre tra poesia e realtà. E quando cammino in luoghi carichi di energia e di leggenda, nella solitudine e nella lontananza, mi inoltro in un mondo differente e mi guardo attorno con occhi diversi.
Torri del Vajolet, Croda di Re Laurino e Catinaccio. Foto: Stefano Michelazzi
“Così ogni sera, dopo il tramonto, si rivedono le rose rosse del giardino incantato. Allora gli abitanti della montagna escono dalle capanne e guardano e ammirano e, per un attimo solo, nelle loro menti inconsapevoli sorge una confusa intuizione del buon tempo passato, quando gli uomini non si odiavano né si uccidevano e tutte le cose erano più belle e più buone.
E quando il Rosengarten si spegne e le sue punte di pietra ridiventano chiare e fredde, gli uomini rientrano in silenzio nelle loro capanne fumose, presi da indefinita tristezza”. Così Wolff concludeva la sua trascrizione della Leggenda delle Rose, accennando al buon tempo antico, quando Laurino teneva le porte del suo regno aperte a tutti, prima cioè che rapisse la principessa Similde e che, in seguito a guerre, vicissitudini e prigionia, riuscisse a tornare nel suo giardino ma fosse costretto poi a tramutare le rose in pietra per renderlo invisibile.
Per Guido Rey le pareti “ardono di una fiamma celata, come illuminata da un fuoco interno che traspaia dal sasso… Nel vuoto incolore lucono isolate come se non tocchino terra, forme irreali sorte dal nulla”. Ma ecco le sensazioni del “dopo”: “Come l’aria divenne fredda e i raggi dorati del sole morirono, le sagome delle montagne mutarono i loro fiammeggianti splendori in una fredda tinta grigio-azzurra. In modo strano questo splendore dell’aria sembrava aumentare, finché non divenne più trasparente. Apparve leggera un’ombra e le maestose e spettrali Dolomiti svanirono come i genî delle notti d’Arabia. La battaglia era finita: esse avevano avuto la peggio” (Douglas W. Freshfield, 1875).
La tristezza di cui Wolff parla, così forte anche in Freshfield, la conoscono bene soprattutto quegli animi romantici che girano nei boschi senz’altra meta che il riavvicinamento, anche solo parziale, del proprio essere a una condizione di vita lontana, della quale conservano un ben vago ricordo di bellezza e di gioia, più che altro una nostalgia rassegnata.
Dopo tutto il mio lungo camminare sono ancora alla ricerca del mio paradiso terrestre: mi sembra di essere gravato di quella stessa colpa che apparve terribile agli antichi ladini. Anche loro ne avevano perso il ricordo, ma di sicuro ne vivevano ancora il disagio. Una grande colpa è l’unica giustificazione possibile, forse così spieghiamo la terribile punizione che ci fece scacciare dal paradiso. Laurino, per amore di una donna, perde in battaglia il suo regno e lo riconquista solo a prezzo della libertà di goderselo; lo Stregone del Latemàr, sempre per amore di una donna, cerca di superare la bellezza del creato inventando i colori dell’arcobaleno, salvo poi distruggerli al rifiuto finale di Ondina: anche quegli orgogliosi tentativi di superare l’ordine divino avevano portato guerre e distruzioni, così il Lec del Ergobando custodisce, assieme ai colori, i tesori per i quali tanti si erano combattuti con avidità e odio. La pace è ristabilita, però lo Stregone ha dovuto rinunciare al suo amore.
Gli amori dello Stregone e di Laurino si assomigliano perché entrambi sembrano non poter fare a meno del ratto e della violenza. Forse è proprio qui che si configura la colpa. La lunga leggenda dei Monti Pallidi, quella con il principe stregato dalla luna, è probabilmente la più ottimista, in delicata armonia con quella parte di noi che non intende rinunciare a sapere e ad agire: “… trovava un paese che, con le montagne bianche, con le valli verdi e fiorite, univa la lucente chiarità della Luna alla ricchezza di colori della Terra. Mai più la figlia della Luna fu presa da nostalgia: il regno dei monti pallidi era più bello del suo paese nativo… Il regno è finito da lungo tempo… e insieme con la dolce luce lunare anche un poco dell’anima nostalgica della principessa della Luna è rimasta fra le cime sbiancate…” (K. F. Wolff, I Monti Pallidi).
La felicità si ottiene soltanto ricreando in terra quello che si crede di aver perso abbandonando la luna: così i semplici, i reietti Salvani, ti aiutano con soluzioni altamente tecniche a ricreare addirittura un ambiente che accontenti la luna e il sole che ci portiamo dentro. Siamo a conoscenza della finzione, ma per questa volta ci basta così. Tutto il lungo camminare mi ha portato a ricordarmi della mia ignoranza: affermo che nel mio paradiso perduto di certo non sapevo le cose che so adesso, perché non ne avevo bisogno. E così mi sento più libero. “Quaggiù finalmente saremo liberi. Meglio liberi all’inferno che servi in cielo” (John Milton, The lost Paradise).
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Abito a Bolzano e frequento da circa 50 anni questi posti, ancora non li conosco
metro per metro come qualcuno. Ho salito le cime di Ciamin almeno 200 volte senza mai incontrare nessuno. Basta stare lontano dagli impianti e salire tranquilli 1200
metri di dislivello per trovare la pace.
nella vallata che sale al rifugio Bergamo e al passo Principe c’è da camminare e ancora si respira una bella magia. Bei posti.
La Punta a Sella Occidentale, le cime di Valbona sono vette ancora decisamente solitarie.
Ma intorno alla Roda di Vael è un carnaio. Basta vedere quello che c’è ai rifugi Paolina, Roda di Vael, Fronza.
E Gardeccia? anche li son tutti ristoranti. Il Vaiolet è un rifugio?
Ci si arriva in macchina.
Dai, siete troppo pessimisti…Nel gruppo ci sono ancora posti stupendi e selvaggi. E quando la ressa cala fino a sparire, la vecchia magìa torna ad assalirci, anche nei posti più “turistici”. Quando si svuotano tornano struggenti.Basta dimenticarsi del fatto che quei posti li conosciamo metro per metro, e cercare di vederli, ancora una volta, con gli occhi freschi dell’infanzia spensierata e pronta a farsi sorprendere.
Re Laurino se l’è data da tempo, chissà se, quando e dove, riapparirà.
Purtroppo questo pezzo di Dolomiti è veramente perduto.
Impianti e strade che vomitano in quota una ressa di gente da far paura. Tutti in fila indiana sui percorsi attrezzati che umiliano la montagna e poi a gozzovigliare in ristoranti che hanno ancora il coraggio di farsi chiamare rifugi.
Molto bello, da leggere con lentezza, per assaporarne i significati metaforici e capire a fondo cosè la nostalgia. Grazie Alessandro.